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LIBRO III.
Ora deh tu m’assisti, Érato, e dimmi
Come a Jolco Giason, mercè l’amore
Di Medea, recò il Vello. E tu sortisti
Pur le parti di Venere, e le intatte
5Vergini con le tue dolci lusinghe
Intenerisci onde amoroso hai nome.
Così tra folte canne inosservati
Stavano ascosi i Greci eroi; ma Giuno
Ben li scòrse, e Minerva; e fuor del guardo
10Pur di Giove e degli altri eterni dei
Venute insieme ad appartata stanza
Tenean consulta. E Giuno incominciando
Tentò Minerva. Or tu primiera (disse)
Apri, o figlia di Giove, il tuo consiglio.
15Che far si dee? Forse che fraude alcuna
Tu ordirai, con che via portin d’Eeta
L’aureo Vello gli Elleni? O persuaso
Forse il faran con lusinghieri accenti?
Fiero, superbo è quegli assai; ma vuolsi
20Intentata lasciar prova nessuna.1
E Minerva a rincontro: Anch’io volgendo
Vo in mente, anch’io, quel di che viva inchiesta,
Giuno, mi fai; ma non avviso ancora
Aver tale una fraude imaginata,
25Che lor giovi all’intento; e sì di molti
Già fra me pensamenti andai librando.
Tacque, ed ambe alla terra affisser gli occhi
Nanti a’ lor piè, nell’animo diversi
Agitando consigli. Ed ecco a un tratto
30Giuno uscir risoluta in questi accenti:
Tosto a Venere andiamo: entrambe a lei
Ressa farem che il proprio figlio induca
Co’ suoi dardi a ferir la malïarda
Figlia d’Eeta, e per Giason di forte
35Desio scaldarla. Io mi prometto allora
Che dall’arti di lei scorto l’eroe
Riporterà reduce a Grecia il Vello.
Tanto ella disse, ed a Minerva piacque
La sagace pensata; e di rimando
40Queste blande parole a lei rendea:
Giuno, me in vero il genitor produsse
De’ colui colpi ignara, e nullo impulso2
D’amoroso desio mai non conobbi;
Pur se a te ciò gradisce, ed io ti sieguo;
45Ma innanzi a lei tu parlerai di questo.3
S’affrettâr, così detto, al gran palagio
Di Venere, che bello a lei costrnsse
L’ambizoppo marito allor che sposa
L’ebbe da Giove. Entro al cortil venute,
50Sotto all’atrio sostâr di quella stanza,
Ove il letto a Vulcano orna la dea.
Ito all’alba era il Fabro alla fucina
E alle incudini sue là nel grand’antro
Di quell’isola errante, ove li tutti
55Suoi dedali lavori alla potenza
Operava del foco; e sola in casa
Sedea la diva in ben tornita scranna
In prospetto alla porta. Avea la chioma
Giù per le spalle candide diffusa
60D’ambe le parti, e a ravviarla intesa
Col pettine dorato, in lunghe anella
A volgerla prendea: viste le dive
Starle incontro, si tenne; entro le invita;
Sorge, e le adagia in molli seggi, ed ella
65Anche poi si rasside, e con man presta
Lo sparso crin raccoglie, e sorridendo
Così ad esse dicea söavemente:
O venerande, e qual pensier, qual uopo
Di poi tempo sì lungo or qui v’adduce?
Già non usaste a me spesso venirne,
Chè le maggiori fra le dee voi siete.
E a lei Giuno così: Tu ne dileggi;
Ma ad ambe noi pena commosso il cuore,4
Poi che il figlio d’Esone ha già nel Fasi
75Ferma la nave, e tutti son con esso
Quei che il sieguon del Vello alla conquista.
Presso è il momento della grande impresa,
E noi molta per tutti abbiam temenza,
E primamente per Giason, per lui
80Ch’io, se anco all’Orco navigasse a sciorre
Issïón colaggiù da’ ferrei lacci,
Salvo il farei per quanto è in me di possa,
Perchè Pelia non rida, a grave fato
Scampando, il reo che con superbo sprezzo
85Me d’ogni onor di sacrificii ha priva.
E già molto Giasone anco m’è caro
Fin d’allor che da caccia ei ritornando,
Alle gonfie correnti dell’Anauro
Scontrossi in me che de’ mortali in terra
90La giustizia esplorava. Eran di neve
Tutte bianche le falde e l’eminenti
Vette de’ monti, e di lor cime a valle
Voltolandosi giù con gran fracasso
Piombavano i torrenti; ed ei pietade
95Ebbe di me che preso avea sembianze
Di vecchia donna, e sovra le sue spalle
Togliendomi, di là da quelle rapide
Acque portommi. Indi in onor fu sempre
Appo me; nè la pena meritata
100Pelia a me pagherà, se tu non fai
Tornar salvo Giasone alle sue case.
Disse, e Ciprigna di stupor compresa
Taceasi, e riverente riguardava
Giuno a sè supplicante; indi risposta
105Così le fece con blande parole:
Augusta dea, nulla pur sia che tristo
Possa dirsi giammai più di Ciprigna,
Se a’ desiderii tuoi ritrosa io niego
O parola o alcun’opra, a cui bastanti
110Sien le imbelli mie mani; e di ciò nullo
Di favor contraccambio a me ne venga.
Più non disse Ciprigna, e Giuno a lei
Scortamente soggiunse: Or nè di forza
Noi, nè d’opra di mani abbiam bisogno;
115Ma sì ben che tu solo al figliuol tuo
Imponer vogli d’instillar nel cuore
Della vergin d’Eeta un amoroso
Per Giasone desìo. Se con lui dessa
Si concorda d’affetto, agevolmente
120Quegli, cred’io, con l’auree lane a Jolco
Ritornerà; chè assai scaltrita è quella.5
Ad entrambe le dive allor Ciprigna:
A voi, Giuno e Minerva, il figliuol mio
Più che a me stessa obbedirà: di voi,
125Ben che impudente, alla presenza vostra
Qualche po’ di vergogna avrà fors’egli:
Di me non cura, anzi con me fa sempre
Lite, e mi sprezza, a tal che un dì stizzita
Della malizia sua, rompergli l’arco
130Volea con esso i mal fischianti dardi,
Pubblicamente, perocchè il cattivo
Minacciommi che s’io lunge le mani
Non tenessi da lui, mentre lo sdegno
Egli ancor contenea, di quel che poi
135Ne seguirebbe accuserei me stessa.
Sorrisero le dive, e l’una e l’altra
Si guardâr di sottecchi. Corrucciata
Venere allor così riprese: Agli altri
Son di riso i miei guai: non mi sta bene
140Narrarli, no: basta li sappia io sola.
Or poichè d’ambe voi questo è il desio,
Prova farò di raddolcirlo, e spero
Non restìo mi sarà. Disse, e Giunone
Le prese in man la dilicata mano,
145E con dolce sorriso le soggiunse:
Or così, Citerea; fa tosto adunque
Come far ne prometti, e nè disdegno
Non mostrar, nè rancore, e non far lite6
Col figliuol tuo: s’abbonirà dappoi.
150Surse in quel dire, e Palla anch’essa, ed ambe
Fêr di quivi partita. Allor Ciprigna
Mosse in traccia di lui per li recessi
Qua e là d’Olimpo, e in appartato loco
Lo rinvenne, di Giove entro un fiorito
135Orto, con Ganimede, il giovinetto
Cui Giove in ciel fra gl’immortali assunse,
Di sua bellezza innamorato. Insieme
Stavano là come fanciulli amici
Con dorati alïossi ambo giocando;
160E già l’un d’essi, il furfantello Amore,
Balzato in piè si tenea stretta al seno
Della sinistra man piena la palma
Degli astrágali vinti e per la gioja
Fiorite avea di un bel rossor le gote.
165L’altro lì presso coccolon sedendo,
Stava muto e dolente con due soli
Astràgali; chè avea l’un dopo l’altro
Male i primi gittati; e arrovellato
Contro quel che ghignava, anco perdette
170Que’ due di resto, e con le mani vuote
Sì confuso partì, che non s’accorse
Del venir di Ciprigna. Ella dinanzi
Stette al figlio, e una gota a lui pigliando
Con la mano, gli disse: E di che ridi,
175Mala peste che sei? Forse truffato
L’hai tu nel giuoco, e lui maldestro e soro
Sopraffatto hai? Ma or via m’ascolta, e pronto
Fammi quel che ti dico, ed io vo’ darti
Un balocco bellissimo di Giove,
180Quel che Adrastéa, la sua cara nudrice,
Gli fe’ quando tuttor nell’antro Ideo
Bamboleggiava: un ben rotondo globo,
Di cui tu non potresti aver più bello
Dalla man di Vulcano altro lavoro.
185D’oro i cerchi son fatti, e a ciascun d’essi
Doppii girano intorno altri bei cerchi;
Nè commessura appar, poichè su tutte
Corre azzurra una fascia; e se tu il balzi
Con le tue mani in alto, a par di stella
190Una lucida striscia in aria segna.
Io te ’l darò, ma tu ferisci pria
La vergine d’Eeta e per Giasone
Tutta l’accendi. E non vi porre indugio,
Chè del favor sarìa minore il merto.
195Piacque assai la profferta a quel fanciullo:
Gittò via gli alïossi, e ad ambe mani
Della madre alla tunica aggrappandosi.
Di qua, di là con la sua forza tutta,
Pregavala di dargli immantinente
200Il bel globo; e la diva sorridendo,
E del figlio le gote alle sue labbra
Accostando, baciollo, al sen lo strinse,
E con dolci parole gli rispose:
Io per questo tuo capo a me sì caro,
205E per lo mio l’attesto: il bel regalo
(No, non t’inganno) io ti farò quand’abbi
Della figlia d’Eeta il cuor ferito.7
Disse, e il garzon gli astràgali raccolse,
E ben tutti contati, della madre
210Nello splendido grembo riversolli.
Ratto poi la faretra, ivi ad un tronco
Appoggiata, si appese ad armacollo
Con aurea banda, e l’arco in man si tolse,
E via n’andò per que’ di Giove ameni
215Orti, e d’Olimpo alle celesti porte
Giunto, uscì fuora. Indi la via discende,
E due poli, del mondo opposti capi,
Ergon le cime degli eccelsi monti,
Su’ quali il Sole de’ suoi raggi primi
220S’imporpora sorgendo. Al basso poi
E la terra ferace, e delle genti
Le cittadi e le sacre acque de’ fiumi
Appariano dall’etra a lui scendendo,
E l’erte rupi, e tutt’intorno il mare.
225Gli eroi su i banchi della nave intanto
Sedean là dove il fiume si dilaga,
Consultando in segreto. Indi Giasone
Così parlava, e l’ascoltavan tutti
Attenti e cheti al proprio loco assisi:
230Amici, aperto io vi dirò quel ch’io
Stimo il miglior, ma il darne poi sentenza
S’aspetta a voi; chè affar comune è questo;
Comune a tutti è la parola; e l’uomo
Che tace il senno suo, sappia ch’ei solo
235Allo stuol tutto il ritornar può tòrre.8
Or voi cinti dell’armi entro al naviglio
Queti restate, ed io n’andrò co’ figli
Di Frisso insieme, e due di voi compagni
Alle case d’Eeta, e pria pregando
240Prova farò se l’aureo Vello ei voglia
Ceder buon grado, o no; chè in sua possanza
Forse fidato sprezzerà l’inchiesta.
Se avvien così, noi ben instrutti allora
Del mal talento suo, consulteremo
245Se commetter battaglia, o se più giovi
Sceglier, l’armi astenendo, altro partilo.
Ma ciò ch’è suo non gli si tolga a forza
Pria di tentar con la parola. Il meglio
Fia con blando discorso appresentarsi:
250Ciò che la forza a stento ottien, sovente
L’ottien di lieve il ragionar, molcendo
Gli animi ad uopo. E persüaso Eeta
Dal ragionar già quel buon Frisso accolse,
Che alle trame sfuggia della madrigna,
255Ed al cultro del padre. Anco il più audace
Uom d’ogni uomo, e il più tristo, i santi dritti
Pur di Giove ospitale osserva e cole.
Così disse; e al suo dir plausero tutti
Di pien conserto, e non pur v’ebbe un solo
260Che avvisasse altramente. Allor di Frisso
Ei tolse i figli a seguitarlo, e i due,
Telamone ed Augéa; quindi lo scettro
Impugnò di Mercurio, e dalla nave
S’avviâr di quell’acque in fra le canne
265Verso la terra, e un rilevante campo
Attinsero, che il nome ha di Circeo.
Quivi di molti e tamarischi e salci
Crescono in file, e di lor vette pendono
A una fune legati estinti corpi;
270Poi che sacro divieto è ancor fra’ Colchi
Arder de’ maschi le defunte salme
Su accesa pira, e nè comporle in terra,
E sopra alzarvi un tumulo; ma involte
In crudi cuoi bovini insù le piante
275Le appendon fuor della città. Ma eguale
Ha con l’aria sua parte anche la terra.
Perocchè nella terra ai femminili
Corpi dan tomba. E tale è quivi il rito.
Procedean quelli, e sicurtade ad essi
280Giuno amica provvide, un aere bujo
Spargendo per città, sì che non visti9
Dal numeroso popolo alle case
Giungessero d’Eeta; e poi che posto
Ebber piè nella reggia, immantinente
285Sgombrò Giuno la nebbia. E pria sostáti
All’ingresso guardâr meravigliosi
Quel regale recinto e l’ample porte
E le colonne in lungo ordine erette
In giro a’ muri, e all’edificio in alto
290Su triglifi di bronzo una corona
Di marmorea cornice. Oltre alla soglia
Passâr poi pianamente, appresso a cui
Viti di verdi pampini coperte
Salìan floride in alto, e quattro al basso
295V’eran fonti perenni che Vulcano
Scavate avea: l’una di latte, e l’altra
Scorrea di vino, e conducea fragrante
Olio la terza, e tal la quarta un’acqua
Che al cader delle Plejadi calore
300Avea fumante, e al loro sorger poi
Fredda qual ghiaccio scaturìa dal sasso.
Queste d’Eeta entro il palagio avea
L’artefice Vulcano opre ammirande
Imaginato; e tauri ancor gli fece
305Bronzipedi, e di bronzo eran le bocche
Fuor soffianti di foco orride vampe;
E costrusse un aratro anco di tutto
Solido acciar, gratificando al Sole
Che un dì, quand’egli dal Flegréo conflitto
310Stanco tornava, entro il suo cocchio il prese.
Atrio aperto è nel mezzo, e molte in esso
Porte bivalvi, e dentro quelle ha stanza
Dall’un lato e dall’altro, e ad ambo i lati
Sorge dinanzi un bel loggiato adorno,
315E agli opposti due canti eran quartieri
Più degli altri elevati; e in un di quelli,
Che il più nobile è pure, avea sua sede
Con la propria consorte il sire Eeta;
Nell’altro, Absirto, il figliuol suo che nato
320Gli fu d’Asterodèa, Caucasia Ninfa,
Anzi che a sposa ei si prendesse Idìa,
Dell’Océano e di Teti ultima figlia;
Ma i Colchi il nome ne cangiâr d’Absirto
In Faetonte, perocchè fra tutti
325Gli adolescenti di beltà splendea.
Nell’altre stanze si tenean le ancelle
Ed entrambe le due figlie d’Eeta,
Calcìope e Medea. Questa allor fuori
Di sua camera uscìa per girne a quella
330Della suora (chè Giuno a studio in casa
Ritenuta l’avea, solita andarne
D’Ecate al tempio, e tutto il dì, ministra
Della dea, rimanervi); or quei veggendo
Colà stanti, diè un grido. Udì quel grido
335Calcìope, e a terra gomitoli e fusi
Gittâr le fanti, e tutte fuor con lei
Corsero; ed essa i figli suoi tra quelli
Vide, e le mani alto slanciò per gioja;
E lieti anch’essi in riveder la madre,
310La salutan, l’abbracciano. Con voce
D’amoroso lamento ella sì disse:
No! da me che incuranti abbandonaste,
Voi lungi andar non potevate: il fato,
Ecco, addietro vi torna. Oh qual, me lassa!
345Qual per mala ventura a voi s’apprese
Della Grecia desio, troppo di Frisso
Padre vostro al comando obbedïenti?
Ben ei morendo al nostro cuor gran duolo
Con tal comando inflisse. E come voi,
350Per redar d’Atamante, alla cittade
D’Orcòmeno migrar (qual che cotesto
Orcòmeno pur sia) bramar poteste,
La madre vostra abbandonando in pianto?
Sì dicea quella. Indi fuor venne Eeta
355E la consorte Idìa che il querelarsi
Di Calciope udì. Tutto in un punto
Pieno fu quel ricinto, e rumoroso
Di genti e d’opre. Altri de’ servi intorno
Stanno occupati ad un gran toro; ed altri
360Fendon col ferro aride legne; al foco
Scaldan altri i lavacri, ed uom non evvi
Che in servigio del Sire inerte stia.
Intanto Amor nel chiaro aere scorrendo
Invisibile giunse, aspre trafitte
365Presto a far, come giovani giumente
Al pasco assale il pungiglioso insetto,
Cui nomano tafano i mandrïani.
Dell’atrio stè dietro l’imposte, e l’arco
Tese, e una nuova addolorante freccia
370Cavò dalla faretra. Cheto cheto
Con prestissimo piè passò la soglia,
Qua e là guatando intentamente, e sotto
Allo stesso Giason sguisciò col picciolo
Corpo; la cocca a mezzo il nervo impose,
375E con ambe le man tirò di forza
Dritto a Medea. Muto stupor comprese
A lei gli spirti; ei dal regal palagio
Scappò ghignando. Alla donzella intanto
S’accendeva nel cuor l’infisso dardo
380Simile a fiamma, ed a Giason di contro
Sempre in lui gli ardenti occhi ella gittava,
E concitati aneliti d’affanno
Traea dal petto; nè più d’altra cosa
Avea memoria, e in un’ambascia dolce
385L’anima le si stempra. E qual la donna
Che di sue man co’ lavorii di lane
Campa la vita, intorno al tizzo aduna
Nella notte la stipa a fin che possa,
Quindi innanzi al mattin desta sorgendo,
390Svegliar la fiamma; e da quel picciol tizzo
Grande questa si eleva, e tutte in cenere
Strugge le stoppie: in simil guisa ardeva
Sotto il cuore a Medea nascosamente
Amor fiero, e per ansia or di pallore
395Le belle gote, or di rossor tingea.
Poi che i famigli han di vivande a quelli
Imbandite le mense, e ristorati
Si fûr essi con tepidi lavacri,
Ebber di cibi e di bevande a grado
400Prender conforto. Al fin del pasto a’ figli
Della propria sua figlia il sire Eeta
Volgea queste parole: O voi figliuoli
Di mia figlia e di Frisso, al qual più feci
Che ad ogni altr’uomo in nostra casa onore,
405Perchè ad Ea ne tornate? O qual vi colse
Nel viaggio sventura? A me credenza
Dato voi non avete, a me che lunga
Vi dicea fuor di modo esser la via
Che tentar volevate, lo già ’l sapea
410Fin dal dì che del Sol, genitor mio,
Girai nel cocchio allor che Circe ei volle,
La mia suora, portar d’Esperia ai lidi,10
E pervenimmo alla Tirrena riva,
Dov’ella ha stanza ancor, lunge, assai lunge
415Dalla Colchica terra. Ma che giova
Ciò ricordar? Ditene aperto or voi
Quale v’insorse impedimento; e questi
Che vi seguon, chi sono? e su qual riva
Dalla concava nave usciti siete?
420A tali inchieste Argo, il maggior degli altri
Fratelli suoi, primo rispose; e alquanto
Per lo stuol dell’Esònide temendo,
Con blandïente favellar dicea:
Sire Eeta, la nave in pochi istanti
425Fiere tempeste han dispezzato, e noi
Alle scommesse tavole aggrappati
Dell’isola di Marte insù le coste11
L’onda gittò nel bujo della notte.
Certo n’ha salvi un qualche dio; chè i tristi
430Marzii augelli colà più non trovammo,
Che infestavanla pria; ch’indi cacciati
Questi prodi gli avean, che di lor nave
Eran là scesi il dì precesso, e quivi,
Restar li fece o il buon voler di Giove
435A noi pietoso, o una propizia sorte,
Chè di cibi e di panni essi conforto
Ne dieron tosto al solo udir di Frisso
L’inclito nome, e il tuo; poi che alla tua
Città son vòlti; e lo perchè, se brami
440Pur di saperlo, io no ’l terrotti ascoso.
Di Grecia un re, mandar lungi volendo
Dal patrio suolo e da’ poderi aviti
Questo eroe, perchè in possa ed in valore
Su gli Eòlìdi tutti egregio splende,12
445Qua venir lo costringe a dura impresa,
E affermò non poter di Giove irato
Placar lo sdegno, e nè il reato enorme.
Né le ultrici espiar furie di Frisso
L’Eólide progenie, ove dappria
450Alla Grecia non torni il Vello d’oro.
Però Palla Minerva una costrusse
Nave a ciò, non già tal quale de’ Colchi
Sono le navi (e la peggior fu quella
Che a noi toccò, sì che i marosi e il vento
455La squarciarono tutta); essa di chiovi
Ben salda sta, s’anco le danno assalto
Quante in mare ha procelle, e al par va celere
O che il vento la spinga, o i naviganti
Dien con forza di braccia a’ remi impulso.
460Questi in essa raccolto ha degli eroi
Di tutta Grecia il fiore, e percorrendo
Molto cammin di tempestoso mare,
E città molte, ora alla tua ne viene,
Se quel Vello dar vuoi. Ma qual ti piace,
465E tal fatto sarà; ch’egli a rapirlo
Non vien di forza; e se gliel doni, ha fermo
Renderne a te degna mercede. Udìa
Da me narrar che tuoi fieri nemici
I Sauròmati sono, ed ei promette
470Soggiogarli al tuo scettro. Or se tu brami
Saper di questi e nome e schiatta, io piena
Contezza te ’n darò. Quest’uomo, a cui
S’aggiunsero compagni i più prestanti
Prenci di Grecia, egli è Giason nomato,13
475Figlio d’Esòn Cretide. Or di Cretèo
Nipote essendo, egli è cugin paterno
Anco di noi, però che d’Eolo nati
Cretèo fûro e Atamante, e Frisso nato
Fu d’Atamante Eòlide. Se udisti
480Che v’ha del Sole un altro figlio, il vedi:
È questi Augèa. D’Eaco divin quest’altro,
Telamon, nacque; e Giove stesso il padre
D’Eaco si fu. Quanti altri poi con questi
Vengon compagni al navigar, son tutti
485Figli e nipoti agl’immortali dei.
Tal fu d’Argo il discorso. Il re di sdegno
In udirlo s’accese, e gonfi d’ira
Gli si fêro i precordii, e gli rispose
Crucciosamente, di Calcìope a’ figli
490Irato più, poi che da lor condotti
Venir gli altri credea. Di sotto al ciglio
Lampeggiavano gli occhi all’iracondo:
Perfidi! tosto alla mia vista innanzi
Non vi togliete, e fuor di questa terra
495Non ite ancor co’ tradimenti vostri,
Pria che in mal punto e l’aureo Vello e Frisso
Per voi si vegga? Eh non di Grecia insieme
Voi per lo Vello or ne venite a Colco,
Ma per lo scettro mio, per la regale
500Mia potestà. Che se toccato ancora
Voi non aveste l’ospital mia mensa,
Ben io le lingue e di ciascun mozzando
Ambe le man, via vi farei con soli
I piè tornar, sì che impediti foste
505Di tentar nuovo assalto: in sì reo modo
Mentiste ancora agl’immortali dei.
Così acerbo parlò. D’ira nel petto
S’enfiò d’Eaco il figliuolo, e ricambiargli
Volea fiere parole; ma il ritenne
510Giason, che primo a lui blando rispose:
Deh prendi, Eeta, il venir nostro in pace!
Noi nè alla tua città, nè alla tua reggia
A talento veniam, qual forse credi,
O per rea cupidigia. E chi vorrebbe
515Per acquisto stranier di tanto mare
Varcar la turgid’onda? Il mio destino
E il comando crudel d’empio tiranno
Qua m’han compulso. Il tuo favor concedi
A chi te n’ prega. Io per la Grecia tutta
520Porterò di te bella immortal fama;
E a renderti con l’armi anche siam presti
Di favor contraccambio, o sia che i fieri
Sauròmati far domi, o che tu brami
Altre genti al tuo scettro aver soggette.
525Così molcendo ei lo venìa con suono
Dolce di voce; e di quel re nel petto
L’animo ondeggia in due pensier diviso,
O slanciarsi su quelli e improvveduti
Trarneli a morte, o della possa loro
530Far prova. E questo, ponderando, il meglio
Parvegli, e tosto a’ detti suoi rispose:
Straniero, a che di tutte cose a lungo
Conto mi dài? Se degli dei voi siete
Veramente progenie, o in qualsia modo
535Non di me inferïori a terre estranee
Venuti siete, io l’aureo Vello in dono
Ad asportar ti cederò, se il vuoi,
Poi che di te fatto avrò prova. A’ buoni
Non avverso son io quale voi dite
540Quello in Grecia regnante. E fia la prova
Un di forza cimento e di valore,
Che, terribil quantunque, io col mio braccio
Vincer pur soglio. A me nel pian di Marte
Pascon due tori che di bronzo han l’ugna,
545Spiran fiamma le bocche. Al giogo avvinti
Io li spingo ad arar quel duro campo
Ch’è di quattro misure, e, tutto arato,
Non di Cerere i semi entro que’ solchi
Spargo, ma i denti di un orribil drago,
550D’onde altrettanti poi sorgono corpi
D’uomini armati, che di guerra assalto
Mi fanno intorno, ed io con l’asta tutti
Li metto a morte. Aggiogo i tori all’alba;
Cesso a sera la mèsse. Or se tal’opra
555Tu compirai, lo stesso dì quel Vello
Ne porterai per lo tuo re; ma pria
No ’l dono io, no; non lo sperar. L’uom forte
Non si convien che all’uom più fiacco ceda.
Questo ei dicea: tacito l’altro, e gli occhi
560Fissi a’ piè se ne stava irresoluto
In sì grave frangente. Assai consigli
Volse e rivolse entro la mente a lungo,
Nè una franca trovava util risposta
A proferir, chè troppo ardua l’impresa
565Pareagli. Alfin così dicea prudente:
Eeta, inver, tuo dritto usando, a troppo
Gran cimento mi stringi: io non per tanto,
Quantunque immane, il sosterrò, se morte
Anco me n’ venga. Altro più l’uom non urge
570D’una fatal necessitade, e dessa
Me qua venir per lo re Pelia astrinse.
Tristo e dolente ei sì diceva; e quegli
Tali a lui sopraggiunse aspre parole:
Va dunque a’ tuoi, poi che il cimento accetti;
575Ma se poi temerai porre a que’ tauri
Su ’l collo il giogo, e sfuggirai da quella
Mèsse omicida, io ben farò che altr’uomo
Tremi innanzi venirne ad uom più forte.
Aspramente sì disse. Allor dal seggio
580Surse Giasone, e surse Augéa con esso,
E Telamone. Argo li segue, ei solo,
Chè a’ fratelli accennò di restar quivi.
Tosto uscìan dalla reggia, e fra lor tutti
Mirabilmente di beltà, di garbo
585Splendea d’Esone il figlio, e sovra lui
A traverso il sottil velo Medea
Tenea fisso lo sguardo obbliquamente,
Consumandosi in cuore; e come in sogno
La sua mente rapita, a vol correa
590Dietro alle poste delle care piante.14
Quei partirono mesti, e immantinente
Calcìope, del re l’ira temendo,
Si ritrasse co’ figli alle sue stanze;
Ed anch’essa Medea; ma quanti affanni
595Soglion gli Amori suscitar, nell’animo
Ella tutti li volge. Innanzi agli occhi
Le si para ogni cosa, e quale egli era,
Qual vestìa vestimento, e ciò che disse,
Con che garbo sedea, come dall’aula
600Uscìa: null’altro in quel bollor di mente
Ella estima esser tale; e negli orecchi
Sempre udìa quella voce e quel soave
Suo parlamento; e assai temea per lui,
Non que’ tauri, o lo stesso Eeta forse
605Ne lo traggano a morte; anzi lo piange
Qual se già non più vivo, e per le gote
Una pietosa lagrima le scorre
Di mestissimo affetto, e pianamente
Dolendosi mettea questi lamenti:
610Perchè, misera me! perchè mi prende
Cotesta angoscia? O di que’ Greci eroi
Perir debba il più prode o il più codardo,
Pêra!... Ma quegli ah salvo scampi e illeso!
Deh sì ciò avvenga, o veneranda dea,
615Di Perse figlia! Alle sue case ei torni,
Sfuggito a morte. E se destin pur fosse
Che da’ tori sia spento, oh sappia almeno.
Sappia egli pria, ch’io del suo mal non godo!
Conturbata così, così la mente
620Agitata ha Medea. Fuor quelli intanto
Della città venìan la via, che pesta
Avean già, ricalcando. Ed Argo allora
A Giason rivolgea queste parole:
Figlio d’Eson, quel ch’io dirò, tu forse
625Non loderai; ma nelle afflitte cose
Niuna prova lasciar vuoisi intentata.
Dir già udisti da me che una donzella
È in quella reggia, delle magich’arti
Dalla stessa Perseide Ecate instrutta.
630Se farla a noi possiam propensa, io stimo,
Più non evvi timor che nel cimento
Vinto tu resti. Assai sospetto ho in vero,
Che a me la madre mia ciò non assenta,
Ma ogni modo io colà fatto ritorno
635Del favor suo la pregherò; chè morte
A noi tutti commun pende su ’l capo.
Tal fe’ saggia proposta; e l’altro a lui:
O mio caro, se a te pur così piace,
Non io m’oppongo. Or ben, là vanne, etenta
640Con accorte parole e con preghiere
Vincer la madre tua; ma speme ho fiacca,
Se ci affidiam del buon successo a donne.
Giunser, ciò ragionando, alla palude.
S’allegrâr del vederli i lor compagni,
645E li assalser d’inchieste. In mesto aspetto
Porse ad essi Giason questa risposta:
Oh amici! duro egli è d’Eeta il cuore,
E apertamente irato a noi; chè il tutto
Nè a me giova narrar partitamente,
650Nè udirlo a voi. Questo egli disse insomma,
Che nel campo di Marte havvi due tori
Co’ piè di bronzo, e dalle bocche accesa
Fiamma soffianti. Arar m’impon con essi
Un di quattro misure esteso campo,
655E i denti in quello seminar d’un drago,
Che produrran terrigeni guerrieri
D’armi ferree vestiti; e in quel dì stesso
È mestier ch’io li uccida. Ed io ciò tutto
(Nulla meglio potea) franco promisi.15
660Sì disse, e a tutti la proposta impresa
Impossibile parve. A lungo in faccia
L’un l’altro si guardâr taciti, muti,
Attoniti, confusi. Alfin fra tutti
Arditamente favellò Peléo.
665Tempo or è di fermar ciò che far dêssi;
Nè consiglio cred’io tanto qui giovi,
Quanto forza di mano. E se tu pensi,
Eroe Giason, poter d’Eeta i tori
Sopporre al giogo, e sostener l’incarco,
670Via! la promessa ad osservar t’accingi.
Ma se l’animo tuo non ben s’affida
Del poter tuo, nè là tu andar, nè gli occhi
Gittar sovra veruno altro di noi;
No ’l soffro io, no. D’ogni travaglio alfine,
675L’ultimo fia d’ogni dolor la morte.
L’Eácide sì disse. A Telamone
L’animo si riscosse, e in piè repente
Concitato balzò. Surse per terzo
Ida che assai di suo valor presume;
680Poi di Tindaro i figli, e quel d’Eneo,
Che fra’ prodi garzoni ha già suo loco,
Benchè sovra la guancia il primo pelo
Non ancor gli fiorisca: in tanta forza
Il suo spirto s’eleva. A questi gli altri
685Cesser tacendo; ed Argo allor sì disse
A quei che ardean di far battaglia: Amici,
Questa esser debbe ultima cosa. Io spero
Che d’aita opportuna utile a voi
Sarà la madre mia. Però la brama
690Del pugnar contenete, e nella nave
State ancor per alquanto. Il raffrenarsi
Val meglio assai, che abbandonatamente
Avventarsi a mal fine. È nelle case
D’Eeta una donzella, a cui la diva
695Ecate finamente insegnò l’arte
Di farmachi temprar quanti la terra,
Quanti l’acqua produce; ed ella attuta
L’ardor con essi del potente foco,
E de’ rapidi fiumi arresta il corso,
700E delle stelle e della sacra luna
Ferma le vie.... Di lei lungo il cammino
Nel tornar dalla reggia mi sovvenne,
Se la madre di noi, ch’è a lei sorella,
Süader la potesse a darne aita
705Nel gran cimento. Or s’anco a voi ciò piace,
Oggi stesso io là torno a farne prova.
Forse che fausta avrommi in ciò la sorte.
Tacque a tanto, e gli dei mandaron tosto
Del lor favore un segno. Una colomba
710Che trepidante uno sparvier fuggìa,
D’alto a cader venne a Giasone in grembo,
Mentre che lo sparviero insù l’aplustre
Della nave cascò. Mopso all’istante
Profeteggiando in questo dir proruppe:
715Amici, a voi questo segnal mandato
È dalla mente degli dei; nè meglio
Interpretar si può, che la donzella
Con preghiera doversi, e studio ed arte
A noi render propizia. E non avversa,
720Cred’io, sarà, se disse il ver Finéo,
Che starà da Ciprigna il tornar nostro.
Or ecco, il mite e caro augel di lei
S’è da morte sottratto. Oh ciò n’avvenga,
Che per questo presagio il cuor mi dice!
725Su via, compagni! Or Venere invocando,
D’Argo obbedite al consigliar sagace.
Tutti fêr plauso a’ detti suoi, gli avvisi
Di Finéo rammentando. Ida sol esso
Balzò in piè corruccioso, e con gran voce:
730Oh Dei (sciamò)! noi qua venimmo adunque
Con di donne uno stuol che di Ciprigna
Implorano l’ajuto, e non di Marte
L’alta possa. A mirar colombe e falchi
Quindi attendete, e ad evitar cimenti.
735Via di qua, vili! e più pensiero in voi
Non sia d’opre di guerra: ite co’ preghi,
Ite a sedurre giovinette imbelli.
Sì dicea dispettoso; e un sordo murmure
Molti ne fêan, ma di risposta verbo
740Nessun proferse. Ei s’assettò sdegnato;
Di che tosto Giasone, i proprii spirti
Incitando, sì disse: Argo là vada,
Poi che a tutti ciò piacque; e noi, dal fiume
Tratta a terra la nave, apertamente
745L’amarreremo. È sconvenevol cosa
Lo star più ascosi, e paventar la pugna.16
Detto ciò, senza indugio Argo di nuovo
Alla città spedìa: gli altri al comando
Di Giasone obbedìan, l’áncora in nave
750Su ritraendo, e dal palude a terra
Venner co’ remi sospingendo il legno.
Eeta intanto a parlamento i Colchi
Raccolti avea fuor di sua reggia in loco
Alle adunanze usato, macchinando
755Orrendi a’ Minii e tradimenti e danni;
E asseverò che, poi che i tori avranno
Di quell’uom fatto scempio, il qual la grave
Impresa assunse, ei su boscoso monte
Molta selva troncando, arder lor nave,
760Entrovi tutti i naviganti, intende,
Sì ch’esalino fuor dall’estuante
Petto il superbo ingiurioso ardire
Del tentar grandi cose. E disse, accolto
Pur l’Eólide Frisso ei non avrebbe
765Ben che assai ne ’l pregasse, e di pii sensi
Fosse su tutti, e di bei modi adorno,
Se Giove stesso a lui nunzio dal cielo
Non mandava Mercurio a far che onesta
Gli prestasse accoglienza; onde non fia
770Che ladroni or venuti al suo reame
Sien salvi a lungo, essi a cui sol talenta
Stender la mano insù gli averi altrui,
Congegnar fraudi, e de’ pastori invadere
Furiosamente e disertar gli ovili.
775Poi dicea che di Frisso i figli a parte
Convenevole pena a lui daranno
Del ritornarne in compagnia di genti
Scellerate a rapirgli onore e scettro,
Come già tempo inteso avea dal Sole,
780Genitor suo, ch’uopo era a lui gli astuti
Scansar della sua schiatta inganni ed arti,
E i moltiformi maleficii; ond’egli
Li mandò, desïanti anco il comando
Compier del padre, alle contrade Achee,
785Lungo viaggio. Alcun timor diss’egli
Non aver che le figlie o il figlio Absirto
Nulla ordiscan di reo, ma nella prole
Di Calcíope bensì questa di mali
Macchina elaborarsi. A’ cittadini
790Quindi imponea non sopportabil’ opra
Tumido d’ira, con minacce gravi
Comandando e la nave e d’essa ogni uomo
Vegliar così che non ne scampi alcuno.
Giunto Argo intanto al regio tetto, intorno
795Alla madre si pose ad esortarla
Con di tutti argomenti a far che implori
A soccorso Medea. Di ciò pensiero
Ben già fatto ella avea; ma la ritenne
Timor non fosse inconveniente e vano
800Lei pregar, cui la fiera ira del padre
Atterrìa forse, o s’ella cede a’ prieghi,
Le segrete opre sue sien poi scoperte.17
Metteo tregua in quel mentre un cupo sonno
All’affannato cuor della donzella
805Posante in letto; ed ecco a un tratto infausti
Sogni falsi agitarla, in gran tristezza
Già sommersa la mente. E pria le parve
Lo stranier sobbarcarsi all’alta impresa,
Non già venuto alla città d’Eeta
810Per asportarne del monton la pelle,
Ma sì per trarne alle sue patrie case
Lei per propria consorte. Anco le parve
Ch’ella stessa de’ tori agevolmente
Il conflitto vincea, ma la promessa
815Non le atteneano i genitori suoi,
Chè non ad essa l’aggiogar que’ tori,
Ma proposto era a quello. Indi una lite
Sorgea fra il padre e gli stranieri, e lei
Ambe le parti arbitra fêan di scerre
820Quel che all’animo suo fosse più grato.
Scelse essa tosto il forestier garzone,
Abbandonando i genitori, ond’essi
Ne sentîr gran dolore, e un alto grido
Miser di sdegno. A quel clamore il sonno
825Le fuggì: scossa sobbalzò per tema;
Girò attoniti gli occhi intorno intorno
Alle pareti della stanza, e a stento
Raccogliendo gli spirti, in meste voci
Poi querelossi. Oh me misera! Oh come
830M’atterrîr tristi sogni! Ah ch’io pavento
Questa venuta degli eroi non porti
Forse qualche gran male. In me sospesi
Stan per quello straniero il cuor, la mente.
Tolga ei lungi di qua, sposa si tolga
835Nel popol suo qualche donzella Achea;
Vergin serbarmi a me fia caro, e il tetto
De’ genitori miei. Che s’io potessi
Piegar mai questo saldo animo mio,
Nulla senza la suora io tenterei;
840E se in pro de’ suoi figli ella d’aïta
Mi richiedesse nel feral cimento,
Ciò il fiero duol mi ammorzerebbe in cuore.
Disse, e in piè surta aprì le porte, e scalza
E con sola una veste, impazïente
845Di trovar la sorella, oltre la soglia
Fuor si spinse; ma poi dalla vergogna
Rinfrenata arrestossi, e si ristette
Nel vestibolo a lungo, e indietro volta
Poi tornò dentro, e fuor n’uscì di nuovo,
850E nuovamente entro fuggì, siccome
Or qua or là l’insano piè la porta.
Quando fuor prorompea, dentro il pudore
La ritirava, indi il desio più audace
Fuori ancor la spingea. Tentò tre volte
855Uscir; tre volte s’arrestò; la quarta
Cadde prona nel letto, e vi s’involse.
Come se giovinetta il bel garzone
Piange, a cui fidanzata era dal padre
E da’ fratelli, e pudibonda e saggia
860Non con le ancelle sue si mesce, e siede
Nel più interno recesso addolorata
Per lui, cui trasse avverso caso a morte
Pria che de’ mutui loro intendimenti
Godessero il diletto: ella, quantunque
865Il duol la strazii, ad or ad or mirando
Il suo letto solingo, piange e tace,
Perchè beffarde un oltraggioso scherno
Non ne faccian le donne; in simil guisa
Dolevasi Medea. Di ciò s’accorse
870Quivi sopraggiungendo una di sue
Giovani ancelle, e incontanente avviso
A Calcìope ne diè, che fra’ suoi figli
Stavasi appunto a consultar del come
Procacciarsi il favor della sorella.
875Nè l’annunzio impensato ella restìa
A creder fu, ma paventosa corse
Dalla sua stanza a quella ove l’afflitta
Giacea gemendo, e con ambe le mani
Graffiandosi le gote; e a lei suffusi
880Visto gli occhi di lagrime, le disse:
Ohimè, Medea! che hai? perchè ne versi
Queste lagrime? di’ che mai t’avvenne?
Quale acerbo t’assale aspro cordoglio?
T’incolse forse alcun morbo le membra
885Per divino volere, o forse udisti
Qualche dal genitor fiero rabbuffo
Contro a me, contro a’ figli? Oh me veduta,
Nè questa casa avesse mai, nè questa
Città, ma stato ognor foss’egli in terra
890Ove fosse de’ Colchi ignoto il nome!18
Sì disse, e all’altra s’infìammâr le gote;
E risponder volea, ma virginale
Pudore a lungo dal parlar la tenne.
Ben talor la parola insù la punta
895Le sorgea della lingua, e tosto poi
Giù scorreale nel petto. Anco sovente
Movea bramosa di parlar le labbra,
Ma fuor la voce non uscìa. Sospinta
Dalla forza d’amor pur finalmente
900Tali ad arte proferse infinti accenti:
Calcìope, a me per li tuoi figli in pena
L’animo sta, che non li uccida insieme
Con que’ stranieri il genitor; sì tristi
Sogni vid’io, mentre testè sopita
905Breve sonno m’avea. Deh un qualche dio
Li mandi a vuoto, e che tu mai non abbi
Tal dolore a provar per li tuoi figli!
Così la suora ella venìa tentando,
Se primiera volea chiederle aita
910A’ figli suoi. L’altra, che in grave angoscia
L’animo immerso avea per la temenza
Di ciò che udìa, così rispose a lei:
E anch’io tutti agitai questi pensieri,
E venni a te, se consultarne insieme,
915E recar tu ne vogli alcun soccorso.
Ma per la Terra e per lo Ciel mi giura
Che quant’io ti dirò, terrai nel petto
Ben chiuso, ed opra a mio favor farai.
Ah! per gli dei te n’ prego, e per te stessa,
920E per li genitori, ah! ch’io non vegga
I figli miei da strazio miserando
Perir disfatti; — o morta anch’io co’ figli
T’inseguirò Furia crudel dall’Orco.
Diè, ciò dicendo, in un profuso pianto,
925E le ginocchia con ambe le mani
A lei strinse, e la testa in sen le pose.
Quindi alzarono insieme un doloroso
Gemito, e per le stanze un di lamenti
Fioco suon si diffuse. E pria con mesto
930Accento di dolor disse Medea:
Cara! e qual mai rimedio oprar poss’io
A cessar le tue dire imprecatrici
E l’Erinni onde parli? Oh de’ tuoi figli
Fosse certo lo scampo in me riposto!
935Ma pur n’attesto — e giuramento sommo
Quest’è de’ Colchi, — il magno Ciel n’attesto,19
E l’ima Terra, degli dei gran madre,
Che, quanto è in me, se di possibil cosa
Mi chiederai, non mancherò nell’uopo.
940Tacque, e Calcìope soggiungea: Tu dunque
Pur non vorrai per quell’eroe straniero
(Che il brama anch’esso) una qualch’arte, un qualche
Mezzo trovar che nel certame il salvi.
Per amor de’ miei figli? Argo qua mosse
945Or mandato da lui per incitarmi
A cercar tuo soccorso; ond’io, lasciato
Lui fra tanto in mie stanze, a te ne vengo.
Si commosse di gioja il cuor nel petto
Per quei detti a Medea. Di bel vermiglio
950Si tinse in volto, ma di nebbia un velo
Tosto lo ricoperse, e sì rispose:
Come, o sorella, è a voi gradito e caro,
Così farò. Non del diman riluca
L’aurora agli occhi miei, nè tu mi vegga
955Vivere ancor, se alcuna cosa io stimo
Più della vita tua, più de’ tuoi figli
Che a me son cari di fraterno affetto,
E d’età pari; ed io stessa mi tengo
E suora e figlia tua, però che infante
960M’hai col latte del tuo petto nudrita
Al par de’ figli tuoi, com’io narrarmi
Sempre udii dalla madre. Or va, ma cela
Nel silenzio il favor che ti promisi,
A’ genitori miei. Col dì novello
965N’andrò d’Ecate al tempio, ivi portando
Farmachi acconci ad ammansar que’ tori
All’uom, cagion che tanta lite insurse.
Calcìope allora uscì di quivi, e a’ figli
N’andò l’aita ad annunziar promessa
970Dalla sorella sua. Pudor, timore
Prese questa di nuovo allor che sola
Si ritrovò, che fermo abbia tal cosa
Far per quell’uomo, inconsultato il padre.
La notte intanto su la terra steso
975L’oscuro velo avea. D’insù le navi
I nocchieri nel mar fisso lo sguardo
Tenean dell’Orsa e d’Orïone agli astri;
E già brama del sonno il viandante
Sente, e il custode delle porte, e un grave
980Confortante sopore i sensi invade
Pur d’una madre, a cui son morti i figli;
Nè latrato di cani per le vie
Della città, nè mormorio di genti
Più s’udiva echeggiar: silenzio regna
985Su le nere tenébre. Il dolce sonno
Però Medea non occupò; chè molte
Per l’amor di Giason la tengon desta
Ansie cure, e il timor del prepotente
Furor de’ tauri, onde perir fra poco
990Ei dovea con indegno orrido scempio
Là nel campo di Marte. Il cuor nel petto
Irrequïeto a lei sussulta e sbalza,
Come raggio di Sol ch’entro la stanza
Ripercosso dall’acqua in secchia o in largo
995Bacin versata e ondoleggiante ancora,
Salta qua e là con presto guizzo intorno;
Tale in sen della vergine amorosa
Dibattevasi il cuor; pietose lagrime
Le pioveano dagli occhi; un dolor cupo
1000Entro i visceri n’arde, e le sottili
Fibre, e fin del cerébro il più riposto
Nervo, dove più acuto il duol penètra.
Quando indomiti amori invadon l’alma.
Ella or de’ tauri i farmachi ammansanti
1005Dargli risolve, ed or non più; chè seco
Perir vuole ella stessa; a un tratto poi
Cangia pensiero, e nè morir vuol essa,
Nè i farmachi a lui dar, ma inoperosa
Sostener la sua sorte. Indi s’asside
1010In gran dubbii ondeggiando, e sì favella:
Trista me! d’ogni parte in guai mi trovo:
È la mia mente attonita; non evvi
Rimedio alcuno a questo mal; più sempre
Forte divampa. Oh da’ volanti strali
1015D’Artemide foss’io stata trafitta
Pria di vederlo, pria che all’Achea terra
Si fosser vòlti di Calcìope i figli
Che un dèmone o un Erinne or qua per nostra
Dolorosa sventura ha ricondotti!...
1020Ch’egli pêra pugnando, se destino
Gli è di perir là su quel campo. E come
Poss’io d’ascoso da’ parenti miei
I farmachi apprestar? che dirne ad essi?
Quale inganno adoprar? come soccorso
1025Porgere a lui furtivamente? O forse
Lui sol disgiunto da’ compagni suoi
Di veder farò prova, e d’abbracciarlo?
Misera me! chè s’ei pur muore, io pace
Non però sperar posso; anzi gran duolo
1030Allor n’avrò che spento ei fia di vita.
Orsù, bando al pudor, bando al decoro!
Salvo ei sia per mio mezzo, e illeso poi
Vadane ovunque andar gli piace; ed io,
Io, poi ch’egli compiuto avrà il certame,
1035Quel di stesso morrò, sia che dal palco
Penda avvinta alla gola, o che trangugi
Letal veleno.... Ah! ma ludibrio e strazio
Faran di me, se così muojo, e tutta
Risuonar lungi la città di tale
1040S’udrà mio caso; ed in lor bocche a gara
Me le Colchiche donne rimestando,
Mi daran turpe biasmo: Or ve’ costei
Che per tanto curar d’uomo straniero
Morì; costei che ad impudico impulso
1045Cesse, e la casa ed i parenti suoi
Contaminò. Qual non sarà la mia
Ignominia! Oh me lassa! Oh trista sorte!
Meglio, sì, meglio è in questa notte istessa
Chiusa in mia stanza abbandonar la vita
1050Fuor d’ogni altrui sospetto, e fuggir tutte
Obbrobrïose accuse anzi che tali
Vergognose a far prenda opre nefande.
Mosse a pigliar, così dicendo, un’arca,
In cui farmachi molti e salutari
1055E mortiferi accoglie; e sui ginocchi
La si reca, e sospira, e bagna il seno
Di lagrime che in copia ed incessanti
Giù le scorrean, per lo dolor che l’ange
Della propria sua morte. E ben volea
1060Scerre a ingojar de’ più possenti toschi,
E per trarneli fuor già dello scrigno
I legami sciogliea; ma di repente
Un brivido d’orror del päuroso
Orco l’assalse, e attonita ristè.
1065Tutte allor della vita le dolcezze
Le rinvennero a mente: i bei diletti
Ripensò, che a’ viventi allegran l’alma;
Ripensò delle pari a lei donzelle
La gioconda letizia; e in sua ragione
1070D’ogni cosa avvisando il vero aspetto,
Le si fe’ più di pria dolce a vedere
Del Sol la luce; e di pensier mutata
Per voler di Giunon, l’arca si toglie
Giù da’ ginocchi, e più non pende incerta
1075Fra’ diversi consigli. Or sol desìa
Che presto appaja la risorta aurora,
Perchè i promessi farmachi ammansanti
A lui dar possa, e conversar con lui.
Della porta i serrami ad ogni istante
1080Dischiudeva a spiar se lume appare;
Ed ecco alfìn la cara luce ad essa
Vibra l’aurora, e per città già tutti
Muovono l’opre a ripigliar del giorno.
Argo allora a’ fratelli impose quivi
1085Sostarsi ad esplorar la mente e gli atti
Della giovane zia, mentre ch’ei solo
Fa ritorno al naviglio; ed ella appena
Vide il cielo albeggiar, le bionde chiome
Da sè stessa annodò, che giù disciolte
1090Neglettamente erravano; si terse
Le gote arsicce di rasciutto pianto,
Ed unguento nettarëo cosparse
Su la persona; indi un bel peplo indossa,
Cui ben adunchi ornan fermagli; e un candido
1095Velo si getta in su l’ambrosia testa.
Così nelle sue stanze indi s’aggira
Immemore de’ guai che tanti innanzi
Già le stavan parati, e d’altri molti20
Che venir dovean poi. Chiamò le ancelle,
1100Che dodici, d’età pari, e non anco
Partecipi di nozze, avean lor sede
Nell’atrio innanzi al talamo odorato,
E comandò che immantinente al cocchio
Giungano i muli che condur la denno
1105D’Ecate al ricco tempio. E quelle il cocchio
S’affrettâr d’apprestarle; ed ella trasse
Quel farmaco dall’arca, al qual dan nome
Di Prometèo. L’uom che propizia pria
Fatta a sè con notturni sagrificii
1110Ha la diva Proserpina, e di quello
Indi il corpo si spalma, ei nè piagato
È da colpi di ferro, e nè pur cede
A foco ardente, e di valor per tutto
Quel dì più forte e di vigor diviene.
1115Pria dal sanguigno umor dell’infelice
Prométeo, cui la cruda aquila in terra
Cader lasciò là ne’ Caucasei monti,
Nato su doppio stelo un fiore apparve
Alto un cubito quasi, e di colore
1120Pari al Coricio croco, e nel terreno
Rossa, qual carne allora allora incisa,
Si stendea la radice, ond’ella espresse
Negro un licor, qual da montano faggio,
In Caspio nicchio, e un farmaco ne fece,
1125Poi che preso in perenni acque lavacro
Ebbe pria sette volte, ed altrettante
Brimo invocata, di garzoni altrice,
Brimo notlivagante, e giù nell’Orco
Degli estinti regina. E ciò nel bujo
1130Fêa della notte, in negre vesti avvolta;
E la terra di sotto orribilmente
Muggendo si scotea, quando recisa
Venìa quella Titanica radice,
E per grave dolor lo stesso figlio
1135Di Giapeto piangea. Tolto dall’urna
Quel farmaco Medea, lo si ripose
Nel profumato lin che le ricinge
L’ambrosio petto, e fuori uscendo ascese
Sovra il celere cocchio, e due con lei
1140Vi montarono ancelle ad ambo i lati.
Pigliò dessa le guide, e nella destra
La scutica impugnata, i muli spinse,
La città traversando, e l’altre ancelle
Dietro alla conca del cocchio aggrappatesi
1145Con l’una man, per l’ampia via correvano,
E con altra tenean le lievi tuniche
Al candido ginocchio alto levate.
Quale dappoi che nelle tepid’acque
Si bagnò del Partenio o dell’Amniso
1150La figlia di Latona, in aureo cocchio
Tratta ne va dalle veloci damme
Via per li colli, ove il nidor lontano
D’ecatombe la invita: a lei compagne
Seguon le Ninfe dell’Amnisia fonte
1155E l’altre delle selve e delle balze
D’acquee vene stillanti; e d’ogni parte
Col gannir della voce trepidante
Onor le fanno al suo passar le fiere:
Tal ne va quel corteggio, e rispettose
1160Le genti si ritraggono, evitando
Mirar nel volto la regal donzella.
Poi ch’essa fuor della cittade uscita,
Per li campi scorrendo al tempio è giunta,
Là dal rapido cocchio prestamente
1165Scese, e sì disse alle compagne: Oh amiche,
Un gran fallo io commisi. Io non pensai
Fra stranieri venir che intorno vanno
Per la nostra contrada. È di stupore
Tutta compresa la città, nè il passo
1170Quindi qua vòlto ha delle donne alcuna,
Che farvi han uso in ogni di concorso.
Ma poichè noi venimmo, ed uom nessuno
Ne sopraggiunge, or via! col dolce canto
Lieto facciam, fin che n’è sazio, il cuore,
1175I bei fioretti in fra l’erbetta molle
Cogliendo; a casa indi farem ritorno,
E sì tornarvi con assai guadagno21
Potrete pur, sol che con me di questo
Convenir vi sia grato — Argo (e la stessa
1180Calciope anch’ella) assai di ciò mi prega;
Ma voi chiuso tenete in vostra mente
Quanto udrete da me, sì che del mio
Padre agli orecchi aura di ciò non venga.
Pregan che lo straniero, il qual de’ tori
1185Tolse l’impresa, dal feral cimento,
Ricevendo suoi doni, io tragga in salvo.
Accettai la proposta, e lui qui solo
Invitai di venir senza compagni,
A fin che i doni, ch’ei verrà recando,
1190Sien fra voi compartiti, ed un possente
Veleno io porga a lui. Dunque in disparte
Voi da me vi traete allor ch’ei giunga.
Così disse infingendo, e piacque a tutte22
L’ingannevol consiglio. Argo fra tanto,
1195Che da’ fratelli inteso avea com’ella
D’Ecate al tempio in sul mattin verrebbe.
Colà il figlio d’Esòn, sol da’ compagni,
Conducea per li campi; e li seconda
Mopso d’Ampico figlio, ottimo il volo
1200A spiegar degli augelli, ottimo in via
A ben guidar chi fa con lui cammino.
Mai fra gli uomini prischi, e mai fra quanti
Nacquero eroi da Giove stesso o d’altri
Eterni dei, mai non fu visto un tale
1205Qual fe’ Giuno in quel giorno esser Giasone
All’aspetto e all’eloquio. I suoi compagni
Stavan meravigliando a riguardarlo
Radïante di grazie, e l’Ampicìde
Gioío, di tutto l’avvenir presago.
1210È sulla via del campo, al tempio appresso,
Un pioppo che di frondi ha folta chioma,
Ove cornacchie garrule son use
Far lor soggiorno. Una di quelle allora
Da un alto ramo diguazzando l’ali,
1215Sì di Giunon fe’ indovinar l’intento:
Meschin profeta è in ver quei che in sua mente
Pensar non sa ciò che i fanciulli sanno,
Che donzella a garzon nè graziosa
Nè amorosa parola unqua non dice,
1220Se d’intorno le stanno estranee genti.
Via di qua, mal profeta e mal consiglio!
Certo, nè te mai Citerea, nè i cari
Inspiran mai benevolenti Amori.
Sì dispettosa lingueggiò: sorrise
1225Mopso quel verso in ascoltar, che un nume
All’augello indettava, e così disse:
Tu, d’Esone figliuol, tu della diva
Entra nel tempio, e la donzella quivi
Ritroverai, che molto a te propensa
1230Per consiglio di Venere, ti fia
In quel duro travaglio ajutatrice,
Qual Finéo già predisse. Ambo noi due,
Argo ed io, qui sostando aspetteremo
Che fuor tu rieda. Or vanne solo, e lei
1235Con acconce parole esorta e prega.
Così disse l’accorto, e gli altri due
Gliene diêr lode. Altro pensier frattanto,
Fuor che di lui, non volge in cuor Medea,
Benché d’altro pur canti; e qual canzone
1240Mutando va, niuna già più le piace.
Poi cessò come attonita, nè gli occhi
Tenea mai fermi tra le sue compagne,
Ma la faccia inclinando, obliquamente
Spingea lontan su per la via lo sguardo;
1245E il cuor le si fendea, se stropiccio
Pareale udir di piedi, o se di vento
Passava un soffio. E quei però non molto
Stette che innanzi all’ansïosa apparve
Surto su, come fuor dell’Oceàno
1250Sirio s’estolle, di beltà, di luce
Sfolgorante a veder, ma di gran danno
Portatore agli armenti; e tal Giasone
Mostrossi a lei d’alta bellezza adorno,
Ma gran travaglio anco eccitolle. Il cuore
1255Le svenne in petto; una caligin buja
Le oscurò gli occhi; le infiammò le gote
Caldo rossor, nè innanzi più, nè retro
Potea dar passo, chè de’ piè le piante
S’irrigidiro. Eransi tutte intanto
1260Quinci le ancelle allontanate; ed essi
Taciti, muti, a fronte l’un dell’altro
Stetter, simili a querce o ad alti abeti
Che radice nel monte han messa appresso,
Immoti ad äer queto, e quando poi
1265Scossi sono dall’impeto del vento,
Fan gran murmure insieme: e sì que’due
Tacean, parati a favellar gran cose
Allo spirar d’Amore. In quale ambascia
Caduta ell’era per voler divino,
1270Giason conobbe, e con soavi accenti
Così a molcer la prese: E perchè mai,23
O vergine, di me tanto hai timore,
Che son qui solo? Io non son già com’altri
Gonfi di fasto insultator, nè tale
1275Io fui giammai nella mia patria terra.
Di me quindi, o donzella, un pauroso
Rispetto il domandar non t’impedisca24
Ciò che intender t’è caro, o il dir tu stessa
Il tuo pensiero. E poi ch’entrambo amici
1280L’uno all’altro venimmo in loco sacro,
Ov’è più reo qualsiasi inganno, aperto
Parla e domanda; e con bei detti indarno
Non lusingarmi, perocchè promesso
Alla tua suora hai già di farmi dono
1285Di lenïenti farmachi. Ti prego
Or per Ecate stessa e per li tuoi
Genitori e per Giove, il qual sua mano
Su gli stranieri e supplici protende;
Chè supplice e straniero a un tempo stesso
1290Io vengo a te. Necessità mi sforza
Di supplicar; chè senza voi non fia
Che sì fiero conflitto io vincer possa.
Del prestato favor giusta mercede
Ti darò poi, qual dar si può da genti
1295Di lontana contrada: un glorïoso
Io ti farò nome onorando; e gli altri
Eroi del paro, al patrio suol tornati,
Celebreranti, e degli eroi le spose
E le madri che forse or già sedute
1300Su le spiaggie del mar per noi sospirano,
Poi che tu dissipate avrai le triste
Angosce loro.... Anco Teséo fu salvo
Di periglio feral dalla Minoide
Benevolente vergine Arïanna,
1305La cui madre Pasìfe è del Sol figlia;
E con esso ella poi, l’ira placata
Del genitor, sovra la nave ascesa,
Dalla patria partissi; e l’ebber cara
Fin gli stessi Immortali; e in mezzo all’etra
1310Una stellante fulgida corona
Cui d’Arïanna appellano, suo giro
Fa nella notte fra i celesti segni.
E a te pur dagli dei verrà favore,
Se a tanto stuolo di prestanti eroi
1315Darai salute: e dal gentile aspetto
Ben si par che t’adorna alma gentile.
Sì d’onor la blandiva. Ella chinando
Gli occhi, divinamente sorridea,
E della lode al suon l’animo in petto
1320Le si stemprava. Indi lo sguardo in lui
Alzò, ma la parola, onde il discorso
Cominciar, non avea: tutto, dir tutto
Voleagli insieme; e nulla disse; e trasse
Dall’odorato lin che il sen le fascia,
1325Il farmaco; e giulivo ei tosto il prese;
Ed ella anco dal petto avrìa fuor tratta
Tutta l’anima, e a lui volonterosa
Data l’avrìa; tal dalla bionda testa
Dell’Esonide un vago almo splendore
1330Lampeggiò Amor, che in dolce incanto a lei
Gli occhi rapì. Sciogliersi dentro il cuore
Di calor si sentìa, qual su le rose
La rugiada si scioglie ai mattutini
Raggi del Sole; ed ambo or gli occhi a terra
1335Chinavan pudibondi, or le pupille
S’affissavano in volto, ed amoroso
Un sorriso scambiavansi disotto
Ai lieti sopraccigli. Al fin di sforzo
Queste parole la donzella espresse:
1340Odi ora il come io ti darò soccorso.
Quando innanzi venuto al padre mio,
Ei t’avrà porto a seminar gl’infesti
Denti del drago, allor tu il punto osserva
Del mezzo della notte, e di perenne
1345Fiume ti lava alle correnti, e solo
Da tutti gli altri, in bruna veste avvolto,
Scava in tondo una fossa; in quella un’agna
Svena, e intera a bruciar ponla su ’l rogo
Ch’entro la fossa avrai composto, e placa
1350L’unigena di Perse Ecate figlia,
Dalla coppa libando all’arnie tolto
Il lavoro dell’api. Indi, la dea
Propizïata, dalla pira il passo
Via riporta, nè sia che a retro il guardo
1355Volger ti faccia o calpestìo di piedi
O di cani latrar, sì che d’effetto
Scema l’opra non resti, e tu ne rieda
Non orrevolemente a’ tuoi compagni.
Questo farmaco poi tosto al mattino
1360Stempra a guisa d’unguento, e il nudo corpo
Spalmati: in esso è un’infinita forza,
Un possente vigor; nè agli altri umani
Esser simìl ti sembrerà, ma pari
Agl’immortali dei. L’asta e lo scudo
1365Anco n’ungi, e la spada; indi non fia
Che di quei dal terren nati guerrieri
Ti fiedan l’armi, e de’ feroci tauri
La fiamma impetuosa. Un lungo tempo
Non però invulnerabile sarai,
1370Ma solo un dì; nè ti ristar pertanto
Dall’impreso certame: altro a tal uopo
Ti dirò stratagemma. Al giogo avvinti
Quand’abbi i fieri bovi, e col potente
Braccio e valor tutto quel campo arato,
1375Se da gli sparsi su le nere glebe
Anguinei denti pullular ne’ solchi
De’ Giganti vedrai folta la mèsse,
Tu d’ascoso fra lor gitta un gran sasso;
E quei su v’accorrendo, come cani
1380Famelici su ’l cibo, ei stessi in gara
Struggerannosi. Allor sovr’essi piomba
A battagliarli, e vincitore il Vello
Teco alla Grecia recherai, lontano
D’Ea navigando; o vanne in somma ovunque
1385Andar ti giova, ovunque andar ti piace.
Così detto, ammutì; gli occhi alla terra
Fisse innanzi a’ suoi piedi, e largamente
Bagnò di calde lagrime le gote,
Dolente assai ch’ei per lo mar sì lunge
1390Da lei n’andasse. Con meste parole
Quindi il tenta di nuovo, e per la destra,
Orinai lasciato il vergognar, lo piglia:
Sovvengati, se torni alle tue case,
Del nome di Medea: ricorderommi
1395Ben io di tal che fia da me lontano;
Ma ciò dimmi fra tanto amicamente,
Ove son le tue case, ove su l’onde
Farai quinci tragitto, o se d’andarne
All’opulenta Orcómeno disegni,
1400O se all’isola Eea. Dimmi pur anche
Di quella che nomasti egregia figlia
Di Pasifae, che suora è al padre mio.
Qui tacque; e in lui della fanciulla al pianto
Forte amor pur s’accese, e le rispose:
1405No, nè notte nè dì penso che mai
Te in oblìo non porrò, se per te morte
Scampando, in Grecia avvien ch’io torni, e ad altra
Prova maggior non mi condanni Eeta.
Or se intender di mia patria t’è caro,
1410Dirò; chè molto anco ha di ciò diletto
L’animo mio. D’eccelsi monti intorno
Evvi cinta una terra, assai di greggi
E di paschi abbondante, ove già tempo
Il Giapetide Prometèo diè vita
1415Al buon Deucalione, il qual fu primo
Fondator di città, di templi ai numi,
E fra le genti regnator primiero.
I vicini abitanti han la contrada
Nomato Emonia: evvi Saolco in essa,
1420Mia patria, ed altre assai città che il nome
Pur dell’isola Eea mai non udîro.
Fama egli è che di là ne’ prischi tempi
Minia di stirpe Eòlide partito,
Orcòmeno fondalo ha su ’l confine
1425De’ Cadmei.... Ma parlando a che vo indarno
Di queste cose, e della patria nostra,
E dell’illustre di Minosse figlia,
Dell’amabil donzella, onde m’inchiedi,
A cui dato le genti orrevol nome
1430Han d’Arïanna? Oh come allor Minosse
Per la fanciulla con Teséo convenne,
Così amico a noi fosse il padre tuo!
Di sì dolci parole ei la blandìa,
Ma pensieri tristissimi d’affanno
1435Pungeanle il cuore; e dolorosa a lui
Con mesto favellar così dicea:
Bello in Grecia sarà far d’amistade
Patti e serbar; ma non già tale Eeta
È qual esser Minosse a noi dicevi,
1440Nè Arïanna io pareggio. Or qua di fida
Ospital cortesìa non far discorso.
Sol di me, poi che a Jolco sarai giunto,
Abbi memoria; ed io di te, malgrado
Pur de’ parenti miei, ricorderommi.
1445Deh qualche voce di colà mi venga,
O qualche nunzio augel tosto che oblio
Di me ti prenda; o sovra il mar mi portino
Rapidamente le procelle a Jolco,
Perch’io là possa innanzi agli occhi tuoi
1450Rimproverarti, e ricordar che salvo
Fosti per opra mia! Deh ch’io potessi
Improvviso in tue case allor trovarmi!
Di miserande lagrime le gote,
Ciò dicendo, inondava. Ed ei riprese:
1455Lascia, o gentile, ir le procelle vuote;
Lascia ir gli augelli annunzialori: a torto25
Ne domandi l’officio. Oh se a que’ lidi,
Se tu verrai là nell’Ellena terra,
Dalle donne e dagli uomini sarai
1460Riverita, osservata, e come a Dea
Ti faranno onoranza e questi e quelle,
Di cui per favor tuo figli e fratelli
E mariti ed amici a tristo fato
Tornâr salvi scampando alle lor case.
1465E tu sarai del mio letto consorte,
E me nulla sciorrà dall’amor tuo
Pria che d’ombra fatal morte m’avvolga.
All’udir questi accenti il cuore a lei
Si sciogliea di dolcezza. Agli atri fatti
1470Pur mirando, che a far, misera, avea,
Raccapricciò; ma nondimanco a lungo
Ricusar d’irne in Grecia non potea,26
Chè mente è di Giunon, che, abbandonata
La patria terra, nella sacra Jolco
1475Venga Medea del tristo Pelia a danno.
Stavan le ancelle a riguardar da lunge
Senza far motto, e lor dolea che l’ora
Del dì già richiedea nelle sue case
Presso la madre ritornar la figlia.27
1480Ed ella del partir non si ricorda;
Tanto prendea nell’anima diletto
Dal mirar quel sembiante e dall’udirne
Quel soave parlar; ma, benchè tardi
Cauto, Giason sì la ne fece accorta:
1485Tempo egli è di partir pria che del Sole
Ne sorvenga il tramonto, e qualche estrano
Tutto scopra spiando. In questo loco
Altra fïata converrem di poi.
Lungamente così con dolci detti
1490Si tentâr l’uno l’altro; alfin d’insieme
Si spiccarono, e lieto a’ suoi compagni
E alla nave Giason ratto avviossi;
Essa alle ancelle. E queste incontro corsero
Tutte ad una; ma ella non s’accorse
1495Di lor presenza, perocchè di lei
Era alle nubi l’anima volata.
Co’ piè da impulso natural sospinti
Salse il celere cocchio: d’una mano
Le redini pigliò, pigliò con l’altra
1500La sferza acconcia a porre in corso i muli;
E quei traverso alla città per filo
La trassero alla reggia. È giunta appena,
E Calciope ansïosa a domandarla
De’ figli suoi. Ma ne’ pensier di prima
1505Tutta ella assorta, nè parole udìa,
Nè rendeva risposta: s’assettò
Su sgabel basso a piè del letto, e nella
Sinistra mano declinò la gota,
E sotto alle palpebre umidi gli occhi
1510Avea di pianto in meditar qual rea
Opra guidar col suo consiglio imprese.
Giason, poi che raggiunto ebbe i compagni
Là ’ve lasciati aveali pria, con essi
Ragionando ogni cosa a parte a parte
1515Mosse allo stuolo degli eroi. Veduto
L’han quelli appena avvicinarsi, e accorrono
Ad abbracciarlo, a fargli inchieste; ed egli
Della vergine a tutti i saggi espose
Accorgimenti, e il farmaco possente
1520Ne mostrò. Di lor tutti Ida si trasse
Solo in disparte a morder bile: allegri
Gli altri, poi che cessò l’ombra di notte
Il travagliar, cura di sè ciascuno
Tranquillamente prese. All’alba poi
1525Due mandaron de’ loro al sire Eeta
L’inchiesta a far della sementa: il prode
Battaglier Telamone, e di Mercurio
L’inclito figlio Etàlide. Lor via
Compieano quelli, e non fallìan d’effetto,
1530Chè ad essi Eeta i perigliosi denti
Diè del dragon che della Marzia fonte
Era custode nell’Ogigia Tebe,
E Cadmo l’uccidea quando là venne
D’Europa in cerca, e vi fermò sua sede,
1535Scòrto dalla giovenca a lui per guida
Prenunziata da Febo. Al drago estinto
Dalle mascelle la Tritonia diva
Svelse i denti, e li diè parte ad Eeta,
E parte in dono all’uccisore. E Cadmo
1540Disseminolli negli Aonii campi,
E un terrigeno popolo fondava
Di quei che la mietente asta di Marte
Lasciò viventi. Ed or buon grado Eeta
Gli altri diè per Giason, cui non avvisa
1545Che, se a’ tauri pur anche il giogo imponga,
Trar possa poi la grande impresa a fine.
Già il Sol da lunge declinando a sera
Scendea sotto alla terra ottenebrata,
Là oltre i monti d’Etiopia estremi,
1550E la Notte i cavalli al cocchio aggioga.
Allor presso alle amarre i letti loro
Stesero i Minii; ma dell’Orsa appena
S’inclinò il lucid’astro e il cielo e l’aere
Tacque in alta quïete, ad un solingo
1555Loco Giason, come notturno ladro,
Furtivamente s’avviò con tutto
Che gli fa d’uopo, e che nel dì s’avea
Già procacciato: un’agnelletta e latte,
Cui da un ovile Argo ebbe tratto; il resto
1560Dalla nave ei ne tolse. E poi che vide
Fuor della pesta della via comune
Un tranquillo recesso in mezzo a prati
Che di chiare acque irrigansi, da pria
Là, com’è rito, si lavò nel sacro
1565Fiume il nobile corpo; un bruno ammanto
Poi si vestì, di che gli fêa già dono
Issipile di Lenno in ricordanza
D’amor malventuroso. Indi, scavata
Cupa e larga d’un cubito una fossa,
1570V’alzò dentro di legna una catasta;
Scannò l’agnella, e la vi stese sopra;
Poi, posto sotto a quelle schegge il foco,
Ne fe’ sorger la fiamma, e su v’effuse
Le miste libagioni, a’ suoi cimenti
1575Adiutrice invocando Ecate Brimo.
Fatto il priego, partissi. Udì quel priego
La terribile diva, e di sotterra
Dagl’imi penetrali al sagrificio
Dell’Esònide venne. Orridi serpi
1580Fra vermene di quercia attorcigliati
Le cingeano la fronte: lampeggiava
D’un gran chiaror di faci, e torma intorno
D’inferni cani le venìan latrando
Con acuto ululato. Tremò tutto
1585All’incesso di lei l’irriguo campo,
E un grido alzâr le fluvïali Ninfe,
Che s’aggiran per quella umida landa
Dell’Amarantio Fasi. Anco terrore
Prese Giason, ma il piè via via portollo
1590Senza che addietro a riguardar si volga;
Finchè giunse a’ compagni. E già sorgendo
In su ’l nevoso Caucaso spargea
Il nuovo albor la mattutina Aurora.
Eeta allora intorno al petto induce
1595Una salda lorica, onde a lui Marte
Fêa don poi ch’ebbe con le proprie mani
Morto il Flegrèo Mimante; un aureo in testa
Irto di quattro coni elmo si pose,
Sfolgoreggiante come appar del Sole
1600Il tondo disco allor che fuor si leva
Dall’Oceàno; indi uno scudo imbraccia
Di molti cuoi conserto, e vibra un’asta
Ponderosa così che sostenerla
Nullo varrebbe di que’ Greci eroi,
1605Dacché Alcide n’è lungi,’il sol che a fronte
Star può d’Eeta. Un ben construtto cocchio
A lui pronto con celeri cavalli
Tenea Fetonte; ed ei vi salse, e in mano
Le redini ne tolse, e fuor si spinse
1610Della città su la maestra via,
A veder la gran prova; e gli correa
Dietro di genti una turba infinita.
E qual Nettun su ’l carro all’Istmio ludo
Muove, o a Ténaro, o al suo fonte di Lerna,
1615O alla foresta dell’Iantio Onchesto,
Ed a Calavria ed all’Emonia Pietra
E al selvoso Geresto; era a vedersi
Tale in contegno il re de’ Colchi Eeta.
Giason fra tanto di Medea gli avvisi
1620Ben rimembrando, i farmachi stemprava,
E lo scudo n’asperse, e la robusta
Asta e la spada. Intorno a lui raccolti
I compagni a tentar diêrsi quell’armi
Con tutte forze, e nè d’un punto pure
1625Valser l’asta a piegar, che assai più salda
Ne’ lor pugni tenaci anzi si fêa.
Ma fervido di rabbia Ida contr’essi,
Il figliuol d’Afarèo, su ’l calcio a quella
Un fendente scagliò col suo gran brando,
1630E ripercossa risaltò la lama,
Come martello dall’incude. Un fremito
Diêr di gioja gli eroi, fatti più arditi
A sperar la vittoria; ed ei medesmo
Giason se n’unse, e gli s’infuse in corpo
1635Un’intrepida, invitta, oltre ogni dire
Gagliarda possa, e turgide le braccia
Gli si fêr di vigore. E qual bramoso
Della battaglia il marzïal destriero
Scalpita, il suol zappa nitrendo, e rizza
1640Orgoglioso gli orecchi, e il collo inalbera,
Tal l’Esónide anch’ei nella fortezza
Esultò di sua membra, ed alto il passo
Qua e là slanciava, il bronzeo scudo e l’asta
In man squassando, e lo diresti un fulmine
1645Che nell’aer tenebroso e tempestoso
Ad or ad or lampeggia in fra le nubi
Che d’indi a poco d’una negra pioggia
Giù riversano un nembo. Allor più indugio
Non frapposero i Minii: entro la nave
1650Collocaronsi tutti in ordinanza,
E remigando a tutta voga, al campo
Si spinsero di Marte. Era quel campo
Dinanzi e presso alla città di tanto,
Quanto lungi la mèta è dalle mosse
1655Nell’arringo de’ cocchi, allor che a fanti
E cavalieri è delle corse inditto
Per morto sire un funeral certame.
Trovâr quivi ed Eeta e delle Colche
Genti gran turba, insù Caucasei scogli
1660Stanti queste a prospetto, e il re su ’l margo
Sinuoso del fiume. Ebbero appena
Amarrato il naviglio i Minii eroi,
Ratto Giason d’asta e di scudo armato
Saltò fuori al cimento. In man si tolse
1665Il lucido di bronzo elmo ricolmo
De’ denti aguzzi, ed alle spalle il brando
Sospese, e nuda ha la persona, a Marte
Nelle forme simile e all’almo Apollo.
Girò l’occhio su ’l campo, e il bronzeo vide
1670Giogo de’ tauri, e col dental l’aratro
Di saldo acciajo; indi avanzossi, e in terra
Piantò dell’asta la ferrata punta,
E il ripieno elmo ivi posò; poi mosse
Con lo scudo proteso innanzi il passo,
1675L’orme de’ tori investigando; ed ecco,
Repente fuor da sotterranea buca,
Ove l’orride stalle eran di fumo
Fuliginoso in ogni parte involte,
Quelle due fiere eruppero soffiando
1680Vampe di foco. Ebber gli eroi spavento;
Ma il pro’ Giasone incontro a lor piantossi
Su gli allargati piè saldo qual rupe
Che in mar sta immota agl’irrompenti flutti
Nelle orrende tempeste. A sè dinanzi
1685Parò lo scudo; e quei mugghiando a gara
Vi cozzâr dentro con le forti corna;
Ma nè un punto lo smossero. Conforme
A ben costrutti mantici di cuojo
Che alternando il soffiar nelle fornaci
1690Fan più vivido il fuoco, e un cupo fremito
Rombar s’ode, dal fondo uscendo il vento;
Sì que’ feroci un rumoroso anelito
Mettean, sbuffando ardenti fiamme, e rapido
Come folgore, il foco a lui s’avventa,
1695E lo investe; ma il farmaco lo salva,
Di che Medea fornillo. Al destro toro
Abbrancò in alto il corno, e con sue tutte
Forze gagliardamente strascinollo
Fin presso al bronzeo giogo, e là col piede
1700Forte spingendo i piè di quello addentro,
Il fe’ cader su le ginocchia al suolo;
E l’altro ancor, che ad assalirlo viene,
Fa con pur solo un simil colpo a terra
Inginocchiar. L’ampio suo scudo allora
1705Via gittato, con l’un braccio e con l’altro
L’un di qua, l’un di là fermi li tenne
Sovra i ginocchi anterïor prostrati,
Tuttochè avvolto entro una fiamma. Eeta
Tanto d’uomo vigor meravigliava;
1710E i Tindàridi allor (che a ciò commessi
Erano già) recâr da terra a lui
Quel giogo; ed ei su le cervici a’ tori
L’assettò, lo legò; poi sollevando
Dell’aratro il timon greve di bronzo,
1715L’infilò nell’anello ivi pendente
Del giogo in mezzo. I due germani indietro
Si ritrasser dal foco appo la nave;
Ed ei, lo scudo rilevando, al tergo
Lo si appese, e il ripien d’aguzzi denti
1720Elmo ripiglia, e la lunghissim’asta,
Con la qual poi nel mezzo a’ fianchi i tori
Pungea, come il bifolco instiga i buoi
Con pungolo pelasgo; e con man ferma
La ben conflata di temprato ferro
1725Stiva reggea. Rabbiosamente i tauri
Inferocian dappria, vampe soffiando
Orribili di foco e turbinose,
Come vento che freme in gran tempesta,
E a’ naviganti di paura pallidi
1730Fa le vele ammainar. Ma non a lungo
Riluttâr quelli, e s’avviaron docili
Al governo dell’asta: il terren sodo
Venia dietro fendendosi squarciato
Dalla forza taurina e dall’impulso
1735Del robusto arator. Le grosse zolle
Spaccandosi mettean lunghesso i solchi
Un fragor pauroso; ei col piè greve
Iva il cultro premendo, e da sè lunge
Via via gittava insù l’arate glebe
1740Dall’elmo i denti, e riguardava addietro
Non de’ giganti la feroce mèsse
Sorga repente ad assalirlo. Intanto
Sovra l’unghie di bronzo i buoi pontando
Proseguìano il travaglio; e mentre ancora
1745La terza parte rimanea del giorno,
Quando stanchi i bifolchi il dolce vespro
Invocano che i buoi sciolga dal giogo,
Tutto arato già il campo era da quello
Indefesso aratore, ancor ch’estenso
1750Quattro jugeri fosse, onde all’aratro
Tolse i tori, e a fuggir per la campagna
Li cacciò spaventati; ed ei veggendo
Di terrigeni ancora i solchi vuoti,
Fe’ ritorno alla nave. I suoi compagni
1755Il rinfrancan co’ detti: alle correnti
Ei del fiume attingendo entro l’elmetto,
Spense la sete, e gli agili ginocchi
A riposo piegò; ma la grand’anima
Rinfocolava di guerresco ardore,
1760Simigliante a cinghial che arrota i denti
Incontro a’ cacciatori, e d’ira caldo
Molla schiuma dal grifo a terra sparge.
Ma già pullulan su per ogni parte
Di quel campo i giganti, ed al rilampo
1765De’ metallici scudi e delle acute
Aste ferrate e de’ lucenti elmetti
Brillava orribilmente la campagna
Del mortifero Marte, e dalla terra
All’alto Olimpo ne salìa per l’aere
1770Sfavillante splendore. E qual se dopo
Molta neve fioccata insù ’l terreno
Aure serene nella notte oscura
Spazzan via l’atre nubi, una infinita
Moltitudin di stelle appar nel cielo
1775Sfolgoreggianti, uscian così dal suolo
Quelle turbe lucenti. Allor Giasone
Dell’accorta Medea gli utili avvisi
Arricordossi, e diè di piglio a un grande,
Che su ’l campo giacea, ritondo sasso,
1780Disco immane di Marte, e cui da terra
Punto pur non avrian quattro robusti
Giovani sollevalto; ed ei con mano
Abbrancollo, e ben lunge in mezzo a quelli
Lo slanciò di gran forza; indi acquattossi
1785Senza timor dietro lo scudo. I Colchi
Schiamazzâr con fracasso a par del mare
Che frange e freme a scabri scogli incontro,
Ma del gran masso alla gittata attonito
Stette Eeta. I giganti un sovra l’altro28
1790Corsero urlando come presti cani,
Strage a far l’un dell’altro, e su ’l materno
Campo cadean sotto lor aste, a guisa
Di pini o querce che trabocca a terra
Turbinosa bufera. E qual si spicca
1795Un fulgid’astro illuminando il cielo
Di lunga riga, meraviglia all’uomo
Che per lo tenebroso aere lo vede
Raggiando trasvolar; tal su i giganti
Precipitar d’Esòn si vide il figlio.
1800Nuda in pugno ha la spada, e taglia e miete
Rinfusamente e quei che fuor del suolo
Sporgeano ancor con solo il ventre e i fianchi,
E quei che con le spalle, e a cui già tutta
Fuori sta la persona, e chi già corre
1805A far battaglia. E come avvien che quando
Rumoreggia la guerra insù ’l confine,
Paventando il villan non gl’inimici
Gli precidan le biade, adunca falce
Ben affilata in man si piglia, e ratto
1810Ne miete acerbe tuttavìa le spiche,
Nè attender vuol che dell’estivo sole
Il calor le maturi; a tale imago
De’ giganti l’eroe mèsse facea;
E pieni i solchi ne correan di sangue,
1815Come gore di fonti. Ed altri a terra
Cadean proni, e co’ denti il terren duro
Mordean; altri supini, altri di fianco,
Giù il cubito battendo; e di balene
Sembianza avean quelle corporee moli.
1820E i molti che feriti erano pria isso
Di trarre i piè fuor della terra, quanto
Su col busto emergean, tanto su ’l suolo
Co’ gravi capi ripiombavan giù.
Allor, come se i teneri arboscelli
1825Nell’albereta, intorno a cui fatiche
Pose e cure il cultor, per lo soverchio
Di gran pioggie rovescio a terra cascano
Con le rotte radici, acerbo e grave
Duolo al padron che gli allevò, s’apprende;
1830Così forte nel cuor del sire Eeta
Entrò tristezza, e alla città ritorse
Il cammin fra’ suoi Colchi, escogitando
Come a’ Minii avversar più duramente.
Tramontò il giorno, e dall’eroe compiuta
1835Tutta era già la travagliosa impresa.
- ↑ Var. al v. 20. Non preterir prova nessuna all’uopo.
- ↑ Var. al v. 42. De’ colpi ignara di colui, nè impulso
- ↑ Var. al v. 45. Ma tu alla dea favellerai di questo.
- ↑ Var. al v. 73. Ma il cuor pena commosso ad ambe noi,
- ↑ Var. al v. 121. Tornerà, chè scaltrita è quella assai.
- ↑ Var. al v. 148. Mostrar, nè irata rinnovar litigi
- ↑ Var. al v. 207. Ferito il cuor dell’Eetèa donzella.
- ↑ Var. al v. 235. Forse a tutto lo stuol toglie il ritorno.
- ↑
Var. ai v. 279-281. Procedean quelli, e sicurtà l’amica
Sparse nella città, sì che non visti
Giuno a lor provvedendo, un aere bujo
- ↑
Var. ai v. 411-412. Fei nel cocchio gran giro, allor che Circe
Sorella mia d’Esperia ai lidi addusse,
- ↑
Var. ai v. 426-427. Su le scommesse tavole caduti
Dell’isola di Marte alle costiere
- ↑ Var. al v. 444. Degli Eòlidi tutti è il più prestante
- ↑
Var. ai v. 472-474. Contezza te n’ darò. Questo degli altri
Si fêr compagni, egli è Giason nomato,
Capo, a cui della Grecia i più prestanti
- ↑ Dante, Inf., XXIII, 148.
- ↑ Var. al v. 659. (Meglio a far non avea) franco promisi.
- ↑
Var. ai v. 745-746. Gitteremvi le funi. A noi sconviene
Star, tementi la pugna, a lungo ascosi.
- ↑ Var. al v. 802. Tutte sien l’opre sue poi manifeste.
- ↑ Var. al v. 890. Ove nè giunto è pur de’ Colchi il nome!
- ↑
Var. ai v. 935-936. Ma n’attesto (e de’ Colchi è il sommo giuro
Questo a che tu mi spingi) il Ciel superno,
- ↑ Var. al v. 1098. Già le stavan parati; e de’ maggiori
- ↑ Var. al v. 1177. E sì con util molto oggi tornarvi
- ↑
Var. ai v. 1191-1193. Veleno io porga a lui. Da me voi dunque
Traetevi in disparte allor ch’ei giunga.
- ↑
Var. ai v. 1270-1271. Giason conobbe, e con parlar soave
Così prese a blandirla: E perchè mai,
- ↑ Var. al v. 1277. Rossor non t’impedisca il domandarmi
- ↑ Var. al v. 1456. Lascia l’annunzio ir degli augelli: a torto
- ↑ Var. al v. 1472. D’andarne in Grecia non potea ritrarsi,
- ↑
Var. ai v. 1478-1479. Del dì già richiedea che al regio tetto
Presso alla madre sua torni la figlia.
- ↑ Var. al v. 1789. Stette Eeta. I giganti l’un su l’altro