< Gli Argonauti
Questo testo è completo.
Apollonio Rodio - Gli Argonauti (III secolo a.C.)
Traduzione dal greco di Felice Bellotti (1873)
Libro III
Libro II Libro IV

LIBRO III.


Ora deh tu m’assisti, Érato, e dimmi
     Come a Jolco Giason, mercè l’amore
     Di Medea, recò il Vello. E tu sortisti
     Pur le parti di Venere, e le intatte
     5Vergini con le tue dolci lusinghe
     Intenerisci onde amoroso hai nome.
Così tra folte canne inosservati
     Stavano ascosi i Greci eroi; ma Giuno
     Ben li scòrse, e Minerva; e fuor del guardo
     10Pur di Giove e degli altri eterni dei
     Venute insieme ad appartata stanza
     Tenean consulta. E Giuno incominciando
     Tentò Minerva. Or tu primiera (disse)
     Apri, o figlia di Giove, il tuo consiglio.
     15Che far si dee? Forse che fraude alcuna
     Tu ordirai, con che via portin d’Eeta
     L’aureo Vello gli Elleni? O persuaso
     Forse il faran con lusinghieri accenti?
     Fiero, superbo è quegli assai; ma vuolsi

     20Intentata lasciar prova nessuna.1
E Minerva a rincontro: Anch’io volgendo
     Vo in mente, anch’io, quel di che viva inchiesta,
     Giuno, mi fai; ma non avviso ancora
     Aver tale una fraude imaginata,
     25Che lor giovi all’intento; e sì di molti
     Già fra me pensamenti andai librando.
Tacque, ed ambe alla terra affisser gli occhi
     Nanti a’ lor piè, nell’animo diversi
     Agitando consigli. Ed ecco a un tratto
     30Giuno uscir risoluta in questi accenti:
     Tosto a Venere andiamo: entrambe a lei
     Ressa farem che il proprio figlio induca
     Co’ suoi dardi a ferir la malïarda
     Figlia d’Eeta, e per Giason di forte
     35Desio scaldarla. Io mi prometto allora
     Che dall’arti di lei scorto l’eroe
     Riporterà reduce a Grecia il Vello.
Tanto ella disse, ed a Minerva piacque
     La sagace pensata; e di rimando
     40Queste blande parole a lei rendea:
     Giuno, me in vero il genitor produsse
     De’ colui colpi ignara, e nullo impulso2
     D’amoroso desio mai non conobbi;
     Pur se a te ciò gradisce, ed io ti sieguo;
     45Ma innanzi a lei tu parlerai di questo.3

S’affrettâr, così detto, al gran palagio
     Di Venere, che bello a lei costrnsse
     L’ambizoppo marito allor che sposa
     L’ebbe da Giove. Entro al cortil venute,
     50Sotto all’atrio sostâr di quella stanza,
     Ove il letto a Vulcano orna la dea.
     Ito all’alba era il Fabro alla fucina
     E alle incudini sue là nel grand’antro
     Di quell’isola errante, ove li tutti
     55Suoi dedali lavori alla potenza
     Operava del foco; e sola in casa
     Sedea la diva in ben tornita scranna
     In prospetto alla porta. Avea la chioma
     Giù per le spalle candide diffusa
     60D’ambe le parti, e a ravviarla intesa
     Col pettine dorato, in lunghe anella
     A volgerla prendea: viste le dive
     Starle incontro, si tenne; entro le invita;
     Sorge, e le adagia in molli seggi, ed ella
     65Anche poi si rasside, e con man presta
     Lo sparso crin raccoglie, e sorridendo
     Così ad esse dicea söavemente:
     O venerande, e qual pensier, qual uopo
     Di poi tempo sì lungo or qui v’adduce?
     Già non usaste a me spesso venirne,
     Chè le maggiori fra le dee voi siete.
E a lei Giuno così: Tu ne dileggi;
     Ma ad ambe noi pena commosso il cuore,4

     Poi che il figlio d’Esone ha già nel Fasi
     75Ferma la nave, e tutti son con esso
     Quei che il sieguon del Vello alla conquista.
     Presso è il momento della grande impresa,
     E noi molta per tutti abbiam temenza,
     E primamente per Giason, per lui
     80Ch’io, se anco all’Orco navigasse a sciorre
     Issïón colaggiù da’ ferrei lacci,
     Salvo il farei per quanto è in me di possa,
     Perchè Pelia non rida, a grave fato
     Scampando, il reo che con superbo sprezzo
     85Me d’ogni onor di sacrificii ha priva.
     E già molto Giasone anco m’è caro
     Fin d’allor che da caccia ei ritornando,
     Alle gonfie correnti dell’Anauro
     Scontrossi in me che de’ mortali in terra
     90La giustizia esplorava. Eran di neve
     Tutte bianche le falde e l’eminenti
     Vette de’ monti, e di lor cime a valle
     Voltolandosi giù con gran fracasso
     Piombavano i torrenti; ed ei pietade
     95Ebbe di me che preso avea sembianze
     Di vecchia donna, e sovra le sue spalle
     Togliendomi, di là da quelle rapide
     Acque portommi. Indi in onor fu sempre
     Appo me; nè la pena meritata
     100Pelia a me pagherà, se tu non fai
     Tornar salvo Giasone alle sue case.
Disse, e Ciprigna di stupor compresa

     Taceasi, e riverente riguardava
     Giuno a sè supplicante; indi risposta
     105Così le fece con blande parole:
     Augusta dea, nulla pur sia che tristo
     Possa dirsi giammai più di Ciprigna,
     Se a’ desiderii tuoi ritrosa io niego
     O parola o alcun’opra, a cui bastanti
     110Sien le imbelli mie mani; e di ciò nullo
     Di favor contraccambio a me ne venga.
Più non disse Ciprigna, e Giuno a lei
     Scortamente soggiunse: Or nè di forza
     Noi, nè d’opra di mani abbiam bisogno;
     115Ma sì ben che tu solo al figliuol tuo
     Imponer vogli d’instillar nel cuore
     Della vergin d’Eeta un amoroso
     Per Giasone desìo. Se con lui dessa
     Si concorda d’affetto, agevolmente
     120Quegli, cred’io, con l’auree lane a Jolco
     Ritornerà; chè assai scaltrita è quella.5
Ad entrambe le dive allor Ciprigna:
     A voi, Giuno e Minerva, il figliuol mio
     Più che a me stessa obbedirà: di voi,
     125Ben che impudente, alla presenza vostra
     Qualche po’ di vergogna avrà fors’egli:
     Di me non cura, anzi con me fa sempre
     Lite, e mi sprezza, a tal che un dì stizzita
     Della malizia sua, rompergli l’arco
     130Volea con esso i mal fischianti dardi,

     Pubblicamente, perocchè il cattivo
     Minacciommi che s’io lunge le mani
     Non tenessi da lui, mentre lo sdegno
     Egli ancor contenea, di quel che poi
     135Ne seguirebbe accuserei me stessa.
Sorrisero le dive, e l’una e l’altra
     Si guardâr di sottecchi. Corrucciata
     Venere allor così riprese: Agli altri
     Son di riso i miei guai: non mi sta bene
     140Narrarli, no: basta li sappia io sola.
     Or poichè d’ambe voi questo è il desio,
     Prova farò di raddolcirlo, e spero
     Non restìo mi sarà. Disse, e Giunone
     Le prese in man la dilicata mano,
     145E con dolce sorriso le soggiunse:
     Or così, Citerea; fa tosto adunque
     Come far ne prometti, e nè disdegno
     Non mostrar, nè rancore, e non far lite6
     Col figliuol tuo: s’abbonirà dappoi.
150Surse in quel dire, e Palla anch’essa, ed ambe
     Fêr di quivi partita. Allor Ciprigna
     Mosse in traccia di lui per li recessi
     Qua e là d’Olimpo, e in appartato loco
     Lo rinvenne, di Giove entro un fiorito
     135Orto, con Ganimede, il giovinetto
     Cui Giove in ciel fra gl’immortali assunse,
     Di sua bellezza innamorato. Insieme
     Stavano là come fanciulli amici

     Con dorati alïossi ambo giocando;
     160E già l’un d’essi, il furfantello Amore,
     Balzato in piè si tenea stretta al seno
     Della sinistra man piena la palma
     Degli astrágali vinti e per la gioja
     Fiorite avea di un bel rossor le gote.
     165L’altro lì presso coccolon sedendo,
     Stava muto e dolente con due soli
     Astràgali; chè avea l’un dopo l’altro
     Male i primi gittati; e arrovellato
     Contro quel che ghignava, anco perdette
     170Que’ due di resto, e con le mani vuote
     Sì confuso partì, che non s’accorse
     Del venir di Ciprigna. Ella dinanzi
     Stette al figlio, e una gota a lui pigliando
     Con la mano, gli disse: E di che ridi,
     175Mala peste che sei? Forse truffato
     L’hai tu nel giuoco, e lui maldestro e soro
     Sopraffatto hai? Ma or via m’ascolta, e pronto
     Fammi quel che ti dico, ed io vo’ darti
     Un balocco bellissimo di Giove,
     180Quel che Adrastéa, la sua cara nudrice,
     Gli fe’ quando tuttor nell’antro Ideo
     Bamboleggiava: un ben rotondo globo,
     Di cui tu non potresti aver più bello
     Dalla man di Vulcano altro lavoro.
     185D’oro i cerchi son fatti, e a ciascun d’essi
     Doppii girano intorno altri bei cerchi;
     Nè commessura appar, poichè su tutte

     Corre azzurra una fascia; e se tu il balzi
     Con le tue mani in alto, a par di stella
     190Una lucida striscia in aria segna.
     Io te ’l darò, ma tu ferisci pria
     La vergine d’Eeta e per Giasone
     Tutta l’accendi. E non vi porre indugio,
     Chè del favor sarìa minore il merto.
195Piacque assai la profferta a quel fanciullo:
     Gittò via gli alïossi, e ad ambe mani
     Della madre alla tunica aggrappandosi.
     Di qua, di là con la sua forza tutta,
     Pregavala di dargli immantinente
     200Il bel globo; e la diva sorridendo,
     E del figlio le gote alle sue labbra
     Accostando, baciollo, al sen lo strinse,
     E con dolci parole gli rispose:
     Io per questo tuo capo a me sì caro,
     205E per lo mio l’attesto: il bel regalo
     (No, non t’inganno) io ti farò quand’abbi
     Della figlia d’Eeta il cuor ferito.7
Disse, e il garzon gli astràgali raccolse,
     E ben tutti contati, della madre
     210Nello splendido grembo riversolli.
     Ratto poi la faretra, ivi ad un tronco
     Appoggiata, si appese ad armacollo
     Con aurea banda, e l’arco in man si tolse,
     E via n’andò per que’ di Giove ameni
     215Orti, e d’Olimpo alle celesti porte

     Giunto, uscì fuora. Indi la via discende,
     E due poli, del mondo opposti capi,
     Ergon le cime degli eccelsi monti,
     Su’ quali il Sole de’ suoi raggi primi
     220S’imporpora sorgendo. Al basso poi
     E la terra ferace, e delle genti
     Le cittadi e le sacre acque de’ fiumi
     Appariano dall’etra a lui scendendo,
     E l’erte rupi, e tutt’intorno il mare.
225Gli eroi su i banchi della nave intanto
     Sedean là dove il fiume si dilaga,
     Consultando in segreto. Indi Giasone
     Così parlava, e l’ascoltavan tutti
     Attenti e cheti al proprio loco assisi:
     230Amici, aperto io vi dirò quel ch’io
     Stimo il miglior, ma il darne poi sentenza
     S’aspetta a voi; chè affar comune è questo;
     Comune a tutti è la parola; e l’uomo
     Che tace il senno suo, sappia ch’ei solo
     235Allo stuol tutto il ritornar può tòrre.8
     Or voi cinti dell’armi entro al naviglio
     Queti restate, ed io n’andrò co’ figli
     Di Frisso insieme, e due di voi compagni
     Alle case d’Eeta, e pria pregando
     240Prova farò se l’aureo Vello ei voglia
     Ceder buon grado, o no; chè in sua possanza
     Forse fidato sprezzerà l’inchiesta.
     Se avvien così, noi ben instrutti allora

     Del mal talento suo, consulteremo
     245Se commetter battaglia, o se più giovi
     Sceglier, l’armi astenendo, altro partilo.
     Ma ciò ch’è suo non gli si tolga a forza
     Pria di tentar con la parola. Il meglio
     Fia con blando discorso appresentarsi:
     250Ciò che la forza a stento ottien, sovente
     L’ottien di lieve il ragionar, molcendo
     Gli animi ad uopo. E persüaso Eeta
     Dal ragionar già quel buon Frisso accolse,
     Che alle trame sfuggia della madrigna,
     255Ed al cultro del padre. Anco il più audace
     Uom d’ogni uomo, e il più tristo, i santi dritti
     Pur di Giove ospitale osserva e cole.
Così disse; e al suo dir plausero tutti
     Di pien conserto, e non pur v’ebbe un solo
     260Che avvisasse altramente. Allor di Frisso
     Ei tolse i figli a seguitarlo, e i due,
     Telamone ed Augéa; quindi lo scettro
     Impugnò di Mercurio, e dalla nave
     S’avviâr di quell’acque in fra le canne
     265Verso la terra, e un rilevante campo
     Attinsero, che il nome ha di Circeo.
     Quivi di molti e tamarischi e salci
     Crescono in file, e di lor vette pendono
     A una fune legati estinti corpi;
     270Poi che sacro divieto è ancor fra’ Colchi
     Arder de’ maschi le defunte salme
     Su accesa pira, e nè comporle in terra,

     E sopra alzarvi un tumulo; ma involte
     In crudi cuoi bovini insù le piante
     275Le appendon fuor della città. Ma eguale
     Ha con l’aria sua parte anche la terra.
     Perocchè nella terra ai femminili
     Corpi dan tomba. E tale è quivi il rito.
Procedean quelli, e sicurtade ad essi
     280Giuno amica provvide, un aere bujo
     Spargendo per città, sì che non visti9
     Dal numeroso popolo alle case
     Giungessero d’Eeta; e poi che posto
     Ebber piè nella reggia, immantinente
     285Sgombrò Giuno la nebbia. E pria sostáti
     All’ingresso guardâr meravigliosi
     Quel regale recinto e l’ample porte
     E le colonne in lungo ordine erette
     In giro a’ muri, e all’edificio in alto
     290Su triglifi di bronzo una corona
     Di marmorea cornice. Oltre alla soglia
     Passâr poi pianamente, appresso a cui
     Viti di verdi pampini coperte
     Salìan floride in alto, e quattro al basso
     295V’eran fonti perenni che Vulcano
     Scavate avea: l’una di latte, e l’altra
     Scorrea di vino, e conducea fragrante
     Olio la terza, e tal la quarta un’acqua

     Che al cader delle Plejadi calore
     300Avea fumante, e al loro sorger poi
     Fredda qual ghiaccio scaturìa dal sasso.
     Queste d’Eeta entro il palagio avea
     L’artefice Vulcano opre ammirande
     Imaginato; e tauri ancor gli fece
     305Bronzipedi, e di bronzo eran le bocche
     Fuor soffianti di foco orride vampe;
     E costrusse un aratro anco di tutto
     Solido acciar, gratificando al Sole
     Che un dì, quand’egli dal Flegréo conflitto
     310Stanco tornava, entro il suo cocchio il prese.
     Atrio aperto è nel mezzo, e molte in esso
     Porte bivalvi, e dentro quelle ha stanza
     Dall’un lato e dall’altro, e ad ambo i lati
     Sorge dinanzi un bel loggiato adorno,
     315E agli opposti due canti eran quartieri
     Più degli altri elevati; e in un di quelli,
     Che il più nobile è pure, avea sua sede
     Con la propria consorte il sire Eeta;
     Nell’altro, Absirto, il figliuol suo che nato
     320Gli fu d’Asterodèa, Caucasia Ninfa,
     Anzi che a sposa ei si prendesse Idìa,
     Dell’Océano e di Teti ultima figlia;
     Ma i Colchi il nome ne cangiâr d’Absirto
     In Faetonte, perocchè fra tutti
     325Gli adolescenti di beltà splendea.
     Nell’altre stanze si tenean le ancelle
     Ed entrambe le due figlie d’Eeta,

     Calcìope e Medea. Questa allor fuori
     Di sua camera uscìa per girne a quella
     330Della suora (chè Giuno a studio in casa
     Ritenuta l’avea, solita andarne
     D’Ecate al tempio, e tutto il dì, ministra
     Della dea, rimanervi); or quei veggendo
     Colà stanti, diè un grido. Udì quel grido
     335Calcìope, e a terra gomitoli e fusi
     Gittâr le fanti, e tutte fuor con lei
     Corsero; ed essa i figli suoi tra quelli
     Vide, e le mani alto slanciò per gioja;
     E lieti anch’essi in riveder la madre,
     310La salutan, l’abbracciano. Con voce
     D’amoroso lamento ella sì disse:
     No! da me che incuranti abbandonaste,
     Voi lungi andar non potevate: il fato,
     Ecco, addietro vi torna. Oh qual, me lassa!
     345Qual per mala ventura a voi s’apprese
     Della Grecia desio, troppo di Frisso
     Padre vostro al comando obbedïenti?
     Ben ei morendo al nostro cuor gran duolo
     Con tal comando inflisse. E come voi,
     350Per redar d’Atamante, alla cittade
     D’Orcòmeno migrar (qual che cotesto
     Orcòmeno pur sia) bramar poteste,
     La madre vostra abbandonando in pianto?
Sì dicea quella. Indi fuor venne Eeta
     355E la consorte Idìa che il querelarsi
     Di Calciope udì. Tutto in un punto

     Pieno fu quel ricinto, e rumoroso
     Di genti e d’opre. Altri de’ servi intorno
     Stanno occupati ad un gran toro; ed altri
     360Fendon col ferro aride legne; al foco
     Scaldan altri i lavacri, ed uom non evvi
     Che in servigio del Sire inerte stia.
Intanto Amor nel chiaro aere scorrendo
     Invisibile giunse, aspre trafitte
     365Presto a far, come giovani giumente
     Al pasco assale il pungiglioso insetto,
     Cui nomano tafano i mandrïani.
     Dell’atrio stè dietro l’imposte, e l’arco
     Tese, e una nuova addolorante freccia
     370Cavò dalla faretra. Cheto cheto
     Con prestissimo piè passò la soglia,
     Qua e là guatando intentamente, e sotto
     Allo stesso Giason sguisciò col picciolo
     Corpo; la cocca a mezzo il nervo impose,
     375E con ambe le man tirò di forza
     Dritto a Medea. Muto stupor comprese
     A lei gli spirti; ei dal regal palagio
     Scappò ghignando. Alla donzella intanto
     S’accendeva nel cuor l’infisso dardo
     380Simile a fiamma, ed a Giason di contro
     Sempre in lui gli ardenti occhi ella gittava,
     E concitati aneliti d’affanno
     Traea dal petto; nè più d’altra cosa
     Avea memoria, e in un’ambascia dolce
     385L’anima le si stempra. E qual la donna

     Che di sue man co’ lavorii di lane
     Campa la vita, intorno al tizzo aduna
     Nella notte la stipa a fin che possa,
     Quindi innanzi al mattin desta sorgendo,
     390Svegliar la fiamma; e da quel picciol tizzo
     Grande questa si eleva, e tutte in cenere
     Strugge le stoppie: in simil guisa ardeva
     Sotto il cuore a Medea nascosamente
     Amor fiero, e per ansia or di pallore
     395Le belle gote, or di rossor tingea.
Poi che i famigli han di vivande a quelli
     Imbandite le mense, e ristorati
     Si fûr essi con tepidi lavacri,
     Ebber di cibi e di bevande a grado
     400Prender conforto. Al fin del pasto a’ figli
     Della propria sua figlia il sire Eeta
     Volgea queste parole: O voi figliuoli
     Di mia figlia e di Frisso, al qual più feci
     Che ad ogni altr’uomo in nostra casa onore,
     405Perchè ad Ea ne tornate? O qual vi colse
     Nel viaggio sventura? A me credenza
     Dato voi non avete, a me che lunga
     Vi dicea fuor di modo esser la via
     Che tentar volevate, lo già ’l sapea
     410Fin dal dì che del Sol, genitor mio,
     Girai nel cocchio allor che Circe ei volle,
     La mia suora, portar d’Esperia ai lidi,10

     E pervenimmo alla Tirrena riva,
     Dov’ella ha stanza ancor, lunge, assai lunge
     415Dalla Colchica terra. Ma che giova
     Ciò ricordar? Ditene aperto or voi
     Quale v’insorse impedimento; e questi
     Che vi seguon, chi sono? e su qual riva
     Dalla concava nave usciti siete?
420A tali inchieste Argo, il maggior degli altri
     Fratelli suoi, primo rispose; e alquanto
     Per lo stuol dell’Esònide temendo,
     Con blandïente favellar dicea:
     Sire Eeta, la nave in pochi istanti
     425Fiere tempeste han dispezzato, e noi
     Alle scommesse tavole aggrappati
     Dell’isola di Marte insù le coste11
     L’onda gittò nel bujo della notte.
     Certo n’ha salvi un qualche dio; chè i tristi
     430Marzii augelli colà più non trovammo,
     Che infestavanla pria; ch’indi cacciati
     Questi prodi gli avean, che di lor nave
     Eran là scesi il dì precesso, e quivi,
     Restar li fece o il buon voler di Giove
     435A noi pietoso, o una propizia sorte,
     Chè di cibi e di panni essi conforto
     Ne dieron tosto al solo udir di Frisso
     L’inclito nome, e il tuo; poi che alla tua
     Città son vòlti; e lo perchè, se brami

     440Pur di saperlo, io no ’l terrotti ascoso.
     Di Grecia un re, mandar lungi volendo
     Dal patrio suolo e da’ poderi aviti
     Questo eroe, perchè in possa ed in valore
     Su gli Eòlìdi tutti egregio splende,12
     445Qua venir lo costringe a dura impresa,
     E affermò non poter di Giove irato
     Placar lo sdegno, e nè il reato enorme.
     Né le ultrici espiar furie di Frisso
     L’Eólide progenie, ove dappria
     450Alla Grecia non torni il Vello d’oro.
     Però Palla Minerva una costrusse
     Nave a ciò, non già tal quale de’ Colchi
     Sono le navi (e la peggior fu quella
     Che a noi toccò, sì che i marosi e il vento
     455La squarciarono tutta); essa di chiovi
     Ben salda sta, s’anco le danno assalto
     Quante in mare ha procelle, e al par va celere
     O che il vento la spinga, o i naviganti
     Dien con forza di braccia a’ remi impulso.
     460Questi in essa raccolto ha degli eroi
     Di tutta Grecia il fiore, e percorrendo
     Molto cammin di tempestoso mare,
     E città molte, ora alla tua ne viene,
     Se quel Vello dar vuoi. Ma qual ti piace,
     465E tal fatto sarà; ch’egli a rapirlo
     Non vien di forza; e se gliel doni, ha fermo
     Renderne a te degna mercede. Udìa

     Da me narrar che tuoi fieri nemici
     I Sauròmati sono, ed ei promette
     470Soggiogarli al tuo scettro. Or se tu brami
     Saper di questi e nome e schiatta, io piena
     Contezza te ’n darò. Quest’uomo, a cui
     S’aggiunsero compagni i più prestanti
     Prenci di Grecia, egli è Giason nomato,13
     475Figlio d’Esòn Cretide. Or di Cretèo
     Nipote essendo, egli è cugin paterno
     Anco di noi, però che d’Eolo nati
     Cretèo fûro e Atamante, e Frisso nato
     Fu d’Atamante Eòlide. Se udisti
     480Che v’ha del Sole un altro figlio, il vedi:
     È questi Augèa. D’Eaco divin quest’altro,
     Telamon, nacque; e Giove stesso il padre
     D’Eaco si fu. Quanti altri poi con questi
     Vengon compagni al navigar, son tutti
     485Figli e nipoti agl’immortali dei.
Tal fu d’Argo il discorso. Il re di sdegno
     In udirlo s’accese, e gonfi d’ira
     Gli si fêro i precordii, e gli rispose
     Crucciosamente, di Calcìope a’ figli
     490Irato più, poi che da lor condotti
     Venir gli altri credea. Di sotto al ciglio
     Lampeggiavano gli occhi all’iracondo:
     Perfidi! tosto alla mia vista innanzi

     Non vi togliete, e fuor di questa terra
     495Non ite ancor co’ tradimenti vostri,
     Pria che in mal punto e l’aureo Vello e Frisso
     Per voi si vegga? Eh non di Grecia insieme
     Voi per lo Vello or ne venite a Colco,
     Ma per lo scettro mio, per la regale
     500Mia potestà. Che se toccato ancora
     Voi non aveste l’ospital mia mensa,
     Ben io le lingue e di ciascun mozzando
     Ambe le man, via vi farei con soli
     I piè tornar, sì che impediti foste
     505Di tentar nuovo assalto: in sì reo modo
     Mentiste ancora agl’immortali dei.
Così acerbo parlò. D’ira nel petto
     S’enfiò d’Eaco il figliuolo, e ricambiargli
     Volea fiere parole; ma il ritenne
     510Giason, che primo a lui blando rispose:
     Deh prendi, Eeta, il venir nostro in pace!
     Noi nè alla tua città, nè alla tua reggia
     A talento veniam, qual forse credi,
     O per rea cupidigia. E chi vorrebbe
     515Per acquisto stranier di tanto mare
     Varcar la turgid’onda? Il mio destino
     E il comando crudel d’empio tiranno
     Qua m’han compulso. Il tuo favor concedi
     A chi te n’ prega. Io per la Grecia tutta
     520Porterò di te bella immortal fama;
     E a renderti con l’armi anche siam presti
     Di favor contraccambio, o sia che i fieri

     Sauròmati far domi, o che tu brami
     Altre genti al tuo scettro aver soggette.
525Così molcendo ei lo venìa con suono
     Dolce di voce; e di quel re nel petto
     L’animo ondeggia in due pensier diviso,
     O slanciarsi su quelli e improvveduti
     Trarneli a morte, o della possa loro
     530Far prova. E questo, ponderando, il meglio
     Parvegli, e tosto a’ detti suoi rispose:
     Straniero, a che di tutte cose a lungo
     Conto mi dài? Se degli dei voi siete
     Veramente progenie, o in qualsia modo
     535Non di me inferïori a terre estranee
     Venuti siete, io l’aureo Vello in dono
     Ad asportar ti cederò, se il vuoi,
     Poi che di te fatto avrò prova. A’ buoni
     Non avverso son io quale voi dite
     540Quello in Grecia regnante. E fia la prova
     Un di forza cimento e di valore,
     Che, terribil quantunque, io col mio braccio
     Vincer pur soglio. A me nel pian di Marte
     Pascon due tori che di bronzo han l’ugna,
     545Spiran fiamma le bocche. Al giogo avvinti
     Io li spingo ad arar quel duro campo
     Ch’è di quattro misure, e, tutto arato,
     Non di Cerere i semi entro que’ solchi
     Spargo, ma i denti di un orribil drago,
     550D’onde altrettanti poi sorgono corpi
     D’uomini armati, che di guerra assalto

     Mi fanno intorno, ed io con l’asta tutti
     Li metto a morte. Aggiogo i tori all’alba;
     Cesso a sera la mèsse. Or se tal’opra
     555Tu compirai, lo stesso dì quel Vello
     Ne porterai per lo tuo re; ma pria
     No ’l dono io, no; non lo sperar. L’uom forte
     Non si convien che all’uom più fiacco ceda.
Questo ei dicea: tacito l’altro, e gli occhi
     560Fissi a’ piè se ne stava irresoluto
     In sì grave frangente. Assai consigli
     Volse e rivolse entro la mente a lungo,
     Nè una franca trovava util risposta
     A proferir, chè troppo ardua l’impresa
     565Pareagli. Alfin così dicea prudente:
     Eeta, inver, tuo dritto usando, a troppo
     Gran cimento mi stringi: io non per tanto,
     Quantunque immane, il sosterrò, se morte
     Anco me n’ venga. Altro più l’uom non urge
     570D’una fatal necessitade, e dessa
     Me qua venir per lo re Pelia astrinse.
Tristo e dolente ei sì diceva; e quegli
     Tali a lui sopraggiunse aspre parole:
     Va dunque a’ tuoi, poi che il cimento accetti;
     575Ma se poi temerai porre a que’ tauri
     Su ’l collo il giogo, e sfuggirai da quella
     Mèsse omicida, io ben farò che altr’uomo
     Tremi innanzi venirne ad uom più forte.
Aspramente sì disse. Allor dal seggio
     580Surse Giasone, e surse Augéa con esso,

     E Telamone. Argo li segue, ei solo,
     Chè a’ fratelli accennò di restar quivi.
     Tosto uscìan dalla reggia, e fra lor tutti
     Mirabilmente di beltà, di garbo
     585Splendea d’Esone il figlio, e sovra lui
     A traverso il sottil velo Medea
     Tenea fisso lo sguardo obbliquamente,
     Consumandosi in cuore; e come in sogno
     La sua mente rapita, a vol correa
     590Dietro alle poste delle care piante.14
     Quei partirono mesti, e immantinente
     Calcìope, del re l’ira temendo,
     Si ritrasse co’ figli alle sue stanze;
     Ed anch’essa Medea; ma quanti affanni
     595Soglion gli Amori suscitar, nell’animo
     Ella tutti li volge. Innanzi agli occhi
     Le si para ogni cosa, e quale egli era,
     Qual vestìa vestimento, e ciò che disse,
     Con che garbo sedea, come dall’aula
     600Uscìa: null’altro in quel bollor di mente
     Ella estima esser tale; e negli orecchi
     Sempre udìa quella voce e quel soave
     Suo parlamento; e assai temea per lui,
     Non que’ tauri, o lo stesso Eeta forse
     605Ne lo traggano a morte; anzi lo piange
     Qual se già non più vivo, e per le gote
     Una pietosa lagrima le scorre
     Di mestissimo affetto, e pianamente

     Dolendosi mettea questi lamenti:
     610Perchè, misera me! perchè mi prende
     Cotesta angoscia? O di que’ Greci eroi
     Perir debba il più prode o il più codardo,
     Pêra!... Ma quegli ah salvo scampi e illeso!
     Deh sì ciò avvenga, o veneranda dea,
     615Di Perse figlia! Alle sue case ei torni,
     Sfuggito a morte. E se destin pur fosse
     Che da’ tori sia spento, oh sappia almeno.
     Sappia egli pria, ch’io del suo mal non godo!
Conturbata così, così la mente
     620Agitata ha Medea. Fuor quelli intanto
     Della città venìan la via, che pesta
     Avean già, ricalcando. Ed Argo allora
     A Giason rivolgea queste parole:
     Figlio d’Eson, quel ch’io dirò, tu forse
     625Non loderai; ma nelle afflitte cose
     Niuna prova lasciar vuoisi intentata.
     Dir già udisti da me che una donzella
     È in quella reggia, delle magich’arti
     Dalla stessa Perseide Ecate instrutta.
     630Se farla a noi possiam propensa, io stimo,
     Più non evvi timor che nel cimento
     Vinto tu resti. Assai sospetto ho in vero,
     Che a me la madre mia ciò non assenta,
     Ma ogni modo io colà fatto ritorno
     635Del favor suo la pregherò; chè morte
     A noi tutti commun pende su ’l capo.
Tal fe’ saggia proposta; e l’altro a lui:

     O mio caro, se a te pur così piace,
     Non io m’oppongo. Or ben, là vanne, etenta
     640Con accorte parole e con preghiere
     Vincer la madre tua; ma speme ho fiacca,
     Se ci affidiam del buon successo a donne.
Giunser, ciò ragionando, alla palude.
     S’allegrâr del vederli i lor compagni,
     645E li assalser d’inchieste. In mesto aspetto
     Porse ad essi Giason questa risposta:
Oh amici! duro egli è d’Eeta il cuore,
     E apertamente irato a noi; chè il tutto
     Nè a me giova narrar partitamente,
     650Nè udirlo a voi. Questo egli disse insomma,
     Che nel campo di Marte havvi due tori
     Co’ piè di bronzo, e dalle bocche accesa
     Fiamma soffianti. Arar m’impon con essi
     Un di quattro misure esteso campo,
     655E i denti in quello seminar d’un drago,
     Che produrran terrigeni guerrieri
     D’armi ferree vestiti; e in quel dì stesso
     È mestier ch’io li uccida. Ed io ciò tutto
     (Nulla meglio potea) franco promisi.15
660Sì disse, e a tutti la proposta impresa
     Impossibile parve. A lungo in faccia
     L’un l’altro si guardâr taciti, muti,
     Attoniti, confusi. Alfin fra tutti
     Arditamente favellò Peléo.
     665Tempo or è di fermar ciò che far dêssi;

     Nè consiglio cred’io tanto qui giovi,
     Quanto forza di mano. E se tu pensi,
     Eroe Giason, poter d’Eeta i tori
     Sopporre al giogo, e sostener l’incarco,
     670Via! la promessa ad osservar t’accingi.
     Ma se l’animo tuo non ben s’affida
     Del poter tuo, nè là tu andar, nè gli occhi
     Gittar sovra veruno altro di noi;
     No ’l soffro io, no. D’ogni travaglio alfine,
     675L’ultimo fia d’ogni dolor la morte.
L’Eácide sì disse. A Telamone
     L’animo si riscosse, e in piè repente
     Concitato balzò. Surse per terzo
     Ida che assai di suo valor presume;
     680Poi di Tindaro i figli, e quel d’Eneo,
     Che fra’ prodi garzoni ha già suo loco,
     Benchè sovra la guancia il primo pelo
     Non ancor gli fiorisca: in tanta forza
     Il suo spirto s’eleva. A questi gli altri
     685Cesser tacendo; ed Argo allor sì disse
     A quei che ardean di far battaglia: Amici,
     Questa esser debbe ultima cosa. Io spero
     Che d’aita opportuna utile a voi
     Sarà la madre mia. Però la brama
     690Del pugnar contenete, e nella nave
     State ancor per alquanto. Il raffrenarsi
     Val meglio assai, che abbandonatamente
     Avventarsi a mal fine. È nelle case
     D’Eeta una donzella, a cui la diva

     695Ecate finamente insegnò l’arte
     Di farmachi temprar quanti la terra,
     Quanti l’acqua produce; ed ella attuta
     L’ardor con essi del potente foco,
     E de’ rapidi fiumi arresta il corso,
     700E delle stelle e della sacra luna
     Ferma le vie.... Di lei lungo il cammino
     Nel tornar dalla reggia mi sovvenne,
     Se la madre di noi, ch’è a lei sorella,
     Süader la potesse a darne aita
     705Nel gran cimento. Or s’anco a voi ciò piace,
     Oggi stesso io là torno a farne prova.
     Forse che fausta avrommi in ciò la sorte.
Tacque a tanto, e gli dei mandaron tosto
     Del lor favore un segno. Una colomba
     710Che trepidante uno sparvier fuggìa,
     D’alto a cader venne a Giasone in grembo,
     Mentre che lo sparviero insù l’aplustre
     Della nave cascò. Mopso all’istante
     Profeteggiando in questo dir proruppe:
     715Amici, a voi questo segnal mandato
     È dalla mente degli dei; nè meglio
     Interpretar si può, che la donzella
     Con preghiera doversi, e studio ed arte
     A noi render propizia. E non avversa,
     720Cred’io, sarà, se disse il ver Finéo,
     Che starà da Ciprigna il tornar nostro.
     Or ecco, il mite e caro augel di lei
     S’è da morte sottratto. Oh ciò n’avvenga,

     Che per questo presagio il cuor mi dice!
     725Su via, compagni! Or Venere invocando,
     D’Argo obbedite al consigliar sagace.
Tutti fêr plauso a’ detti suoi, gli avvisi
     Di Finéo rammentando. Ida sol esso
     Balzò in piè corruccioso, e con gran voce:
     730Oh Dei (sciamò)! noi qua venimmo adunque
     Con di donne uno stuol che di Ciprigna
     Implorano l’ajuto, e non di Marte
     L’alta possa. A mirar colombe e falchi
     Quindi attendete, e ad evitar cimenti.
     735Via di qua, vili! e più pensiero in voi
     Non sia d’opre di guerra: ite co’ preghi,
     Ite a sedurre giovinette imbelli.
Sì dicea dispettoso; e un sordo murmure
     Molti ne fêan, ma di risposta verbo
     740Nessun proferse. Ei s’assettò sdegnato;
     Di che tosto Giasone, i proprii spirti
     Incitando, sì disse: Argo là vada,
     Poi che a tutti ciò piacque; e noi, dal fiume
     Tratta a terra la nave, apertamente
     745L’amarreremo. È sconvenevol cosa
     Lo star più ascosi, e paventar la pugna.16
Detto ciò, senza indugio Argo di nuovo
     Alla città spedìa: gli altri al comando
     Di Giasone obbedìan, l’áncora in nave
     750Su ritraendo, e dal palude a terra

     Venner co’ remi sospingendo il legno.
Eeta intanto a parlamento i Colchi
     Raccolti avea fuor di sua reggia in loco
     Alle adunanze usato, macchinando
     755Orrendi a’ Minii e tradimenti e danni;
     E asseverò che, poi che i tori avranno
     Di quell’uom fatto scempio, il qual la grave
     Impresa assunse, ei su boscoso monte
     Molta selva troncando, arder lor nave,
     760Entrovi tutti i naviganti, intende,
     Sì ch’esalino fuor dall’estuante
     Petto il superbo ingiurioso ardire
     Del tentar grandi cose. E disse, accolto
     Pur l’Eólide Frisso ei non avrebbe
     765Ben che assai ne ’l pregasse, e di pii sensi
     Fosse su tutti, e di bei modi adorno,
     Se Giove stesso a lui nunzio dal cielo
     Non mandava Mercurio a far che onesta
     Gli prestasse accoglienza; onde non fia
     770Che ladroni or venuti al suo reame
     Sien salvi a lungo, essi a cui sol talenta
     Stender la mano insù gli averi altrui,
     Congegnar fraudi, e de’ pastori invadere
     Furiosamente e disertar gli ovili.
     775Poi dicea che di Frisso i figli a parte
     Convenevole pena a lui daranno
     Del ritornarne in compagnia di genti
     Scellerate a rapirgli onore e scettro,
     Come già tempo inteso avea dal Sole,

     780Genitor suo, ch’uopo era a lui gli astuti
     Scansar della sua schiatta inganni ed arti,
     E i moltiformi maleficii; ond’egli
     Li mandò, desïanti anco il comando
     Compier del padre, alle contrade Achee,
     785Lungo viaggio. Alcun timor diss’egli
     Non aver che le figlie o il figlio Absirto
     Nulla ordiscan di reo, ma nella prole
     Di Calcíope bensì questa di mali
     Macchina elaborarsi. A’ cittadini
     790Quindi imponea non sopportabil’ opra
     Tumido d’ira, con minacce gravi
     Comandando e la nave e d’essa ogni uomo
     Vegliar così che non ne scampi alcuno.
Giunto Argo intanto al regio tetto, intorno
     795Alla madre si pose ad esortarla
     Con di tutti argomenti a far che implori
     A soccorso Medea. Di ciò pensiero
     Ben già fatto ella avea; ma la ritenne
     Timor non fosse inconveniente e vano
     800Lei pregar, cui la fiera ira del padre
     Atterrìa forse, o s’ella cede a’ prieghi,
     Le segrete opre sue sien poi scoperte.17
Metteo tregua in quel mentre un cupo sonno
     All’affannato cuor della donzella
     805Posante in letto; ed ecco a un tratto infausti
     Sogni falsi agitarla, in gran tristezza
     Già sommersa la mente. E pria le parve

     Lo stranier sobbarcarsi all’alta impresa,
     Non già venuto alla città d’Eeta
     810Per asportarne del monton la pelle,
     Ma sì per trarne alle sue patrie case
     Lei per propria consorte. Anco le parve
     Ch’ella stessa de’ tori agevolmente
     Il conflitto vincea, ma la promessa
     815Non le atteneano i genitori suoi,
     Chè non ad essa l’aggiogar que’ tori,
     Ma proposto era a quello. Indi una lite
     Sorgea fra il padre e gli stranieri, e lei
     Ambe le parti arbitra fêan di scerre
     820Quel che all’animo suo fosse più grato.
     Scelse essa tosto il forestier garzone,
     Abbandonando i genitori, ond’essi
     Ne sentîr gran dolore, e un alto grido
     Miser di sdegno. A quel clamore il sonno
     825Le fuggì: scossa sobbalzò per tema;
     Girò attoniti gli occhi intorno intorno
     Alle pareti della stanza, e a stento
     Raccogliendo gli spirti, in meste voci
     Poi querelossi. Oh me misera! Oh come
     830M’atterrîr tristi sogni! Ah ch’io pavento
     Questa venuta degli eroi non porti
     Forse qualche gran male. In me sospesi
     Stan per quello straniero il cuor, la mente.
     Tolga ei lungi di qua, sposa si tolga
     835Nel popol suo qualche donzella Achea;
     Vergin serbarmi a me fia caro, e il tetto

     De’ genitori miei. Che s’io potessi
     Piegar mai questo saldo animo mio,
     Nulla senza la suora io tenterei;
     840E se in pro de’ suoi figli ella d’aïta
     Mi richiedesse nel feral cimento,
     Ciò il fiero duol mi ammorzerebbe in cuore.
Disse, e in piè surta aprì le porte, e scalza
     E con sola una veste, impazïente
     845Di trovar la sorella, oltre la soglia
     Fuor si spinse; ma poi dalla vergogna
     Rinfrenata arrestossi, e si ristette
     Nel vestibolo a lungo, e indietro volta
     Poi tornò dentro, e fuor n’uscì di nuovo,
     850E nuovamente entro fuggì, siccome
     Or qua or là l’insano piè la porta.
     Quando fuor prorompea, dentro il pudore
     La ritirava, indi il desio più audace
     Fuori ancor la spingea. Tentò tre volte
     855Uscir; tre volte s’arrestò; la quarta
     Cadde prona nel letto, e vi s’involse.
     Come se giovinetta il bel garzone
     Piange, a cui fidanzata era dal padre
     E da’ fratelli, e pudibonda e saggia
     860Non con le ancelle sue si mesce, e siede
     Nel più interno recesso addolorata
     Per lui, cui trasse avverso caso a morte
     Pria che de’ mutui loro intendimenti
     Godessero il diletto: ella, quantunque
     865Il duol la strazii, ad or ad or mirando

     Il suo letto solingo, piange e tace,
     Perchè beffarde un oltraggioso scherno
     Non ne faccian le donne; in simil guisa
     Dolevasi Medea. Di ciò s’accorse
     870Quivi sopraggiungendo una di sue
     Giovani ancelle, e incontanente avviso
     A Calcìope ne diè, che fra’ suoi figli
     Stavasi appunto a consultar del come
     Procacciarsi il favor della sorella.
     875Nè l’annunzio impensato ella restìa
     A creder fu, ma paventosa corse
     Dalla sua stanza a quella ove l’afflitta
     Giacea gemendo, e con ambe le mani
     Graffiandosi le gote; e a lei suffusi
     880Visto gli occhi di lagrime, le disse:
     Ohimè, Medea! che hai? perchè ne versi
     Queste lagrime? di’ che mai t’avvenne?
     Quale acerbo t’assale aspro cordoglio?
     T’incolse forse alcun morbo le membra
     885Per divino volere, o forse udisti
     Qualche dal genitor fiero rabbuffo
     Contro a me, contro a’ figli? Oh me veduta,
     Nè questa casa avesse mai, nè questa
     Città, ma stato ognor foss’egli in terra
     890Ove fosse de’ Colchi ignoto il nome!18
Sì disse, e all’altra s’infìammâr le gote;
     E risponder volea, ma virginale
     Pudore a lungo dal parlar la tenne.

     Ben talor la parola insù la punta
     895Le sorgea della lingua, e tosto poi
     Giù scorreale nel petto. Anco sovente
     Movea bramosa di parlar le labbra,
     Ma fuor la voce non uscìa. Sospinta
     Dalla forza d’amor pur finalmente
     900Tali ad arte proferse infinti accenti:
     Calcìope, a me per li tuoi figli in pena
     L’animo sta, che non li uccida insieme
     Con que’ stranieri il genitor; sì tristi
     Sogni vid’io, mentre testè sopita
     905Breve sonno m’avea. Deh un qualche dio
     Li mandi a vuoto, e che tu mai non abbi
     Tal dolore a provar per li tuoi figli!
Così la suora ella venìa tentando,
     Se primiera volea chiederle aita
     910A’ figli suoi. L’altra, che in grave angoscia
     L’animo immerso avea per la temenza
     Di ciò che udìa, così rispose a lei:
     E anch’io tutti agitai questi pensieri,
     E venni a te, se consultarne insieme,
     915E recar tu ne vogli alcun soccorso.
     Ma per la Terra e per lo Ciel mi giura
     Che quant’io ti dirò, terrai nel petto
     Ben chiuso, ed opra a mio favor farai.
     Ah! per gli dei te n’ prego, e per te stessa,
     920E per li genitori, ah! ch’io non vegga
     I figli miei da strazio miserando
     Perir disfatti; — o morta anch’io co’ figli

     T’inseguirò Furia crudel dall’Orco.
Diè, ciò dicendo, in un profuso pianto,
     925E le ginocchia con ambe le mani
     A lei strinse, e la testa in sen le pose.
     Quindi alzarono insieme un doloroso
     Gemito, e per le stanze un di lamenti
     Fioco suon si diffuse. E pria con mesto
     930Accento di dolor disse Medea:
     Cara! e qual mai rimedio oprar poss’io
     A cessar le tue dire imprecatrici
     E l’Erinni onde parli? Oh de’ tuoi figli
     Fosse certo lo scampo in me riposto!
     935Ma pur n’attesto — e giuramento sommo
     Quest’è de’ Colchi, — il magno Ciel n’attesto,19
     E l’ima Terra, degli dei gran madre,
     Che, quanto è in me, se di possibil cosa
     Mi chiederai, non mancherò nell’uopo.
940Tacque, e Calcìope soggiungea: Tu dunque
     Pur non vorrai per quell’eroe straniero
     (Che il brama anch’esso) una qualch’arte, un qualche
     Mezzo trovar che nel certame il salvi.
     Per amor de’ miei figli? Argo qua mosse
     945Or mandato da lui per incitarmi
     A cercar tuo soccorso; ond’io, lasciato
     Lui fra tanto in mie stanze, a te ne vengo.
Si commosse di gioja il cuor nel petto
     Per quei detti a Medea. Di bel vermiglio

     950Si tinse in volto, ma di nebbia un velo
     Tosto lo ricoperse, e sì rispose:
     Come, o sorella, è a voi gradito e caro,
     Così farò. Non del diman riluca
     L’aurora agli occhi miei, nè tu mi vegga
     955Vivere ancor, se alcuna cosa io stimo
     Più della vita tua, più de’ tuoi figli
     Che a me son cari di fraterno affetto,
     E d’età pari; ed io stessa mi tengo
     E suora e figlia tua, però che infante
     960M’hai col latte del tuo petto nudrita
     Al par de’ figli tuoi, com’io narrarmi
     Sempre udii dalla madre. Or va, ma cela
     Nel silenzio il favor che ti promisi,
     A’ genitori miei. Col dì novello
     965N’andrò d’Ecate al tempio, ivi portando
     Farmachi acconci ad ammansar que’ tori
     All’uom, cagion che tanta lite insurse.
Calcìope allora uscì di quivi, e a’ figli
     N’andò l’aita ad annunziar promessa
     970Dalla sorella sua. Pudor, timore
     Prese questa di nuovo allor che sola
     Si ritrovò, che fermo abbia tal cosa
     Far per quell’uomo, inconsultato il padre.
La notte intanto su la terra steso
     975L’oscuro velo avea. D’insù le navi
     I nocchieri nel mar fisso lo sguardo
     Tenean dell’Orsa e d’Orïone agli astri;
     E già brama del sonno il viandante

     Sente, e il custode delle porte, e un grave
     980Confortante sopore i sensi invade
     Pur d’una madre, a cui son morti i figli;
     Nè latrato di cani per le vie
     Della città, nè mormorio di genti
     Più s’udiva echeggiar: silenzio regna
     985Su le nere tenébre. Il dolce sonno
     Però Medea non occupò; chè molte
     Per l’amor di Giason la tengon desta
     Ansie cure, e il timor del prepotente
     Furor de’ tauri, onde perir fra poco
     990Ei dovea con indegno orrido scempio
     Là nel campo di Marte. Il cuor nel petto
     Irrequïeto a lei sussulta e sbalza,
     Come raggio di Sol ch’entro la stanza
     Ripercosso dall’acqua in secchia o in largo
     995Bacin versata e ondoleggiante ancora,
     Salta qua e là con presto guizzo intorno;
     Tale in sen della vergine amorosa
     Dibattevasi il cuor; pietose lagrime
     Le pioveano dagli occhi; un dolor cupo
     1000Entro i visceri n’arde, e le sottili
     Fibre, e fin del cerébro il più riposto
     Nervo, dove più acuto il duol penètra.
     Quando indomiti amori invadon l’alma.
     Ella or de’ tauri i farmachi ammansanti
     1005Dargli risolve, ed or non più; chè seco
     Perir vuole ella stessa; a un tratto poi
     Cangia pensiero, e nè morir vuol essa,

     Nè i farmachi a lui dar, ma inoperosa
     Sostener la sua sorte. Indi s’asside
     1010In gran dubbii ondeggiando, e sì favella:
     Trista me! d’ogni parte in guai mi trovo:
     È la mia mente attonita; non evvi
     Rimedio alcuno a questo mal; più sempre
     Forte divampa. Oh da’ volanti strali
     1015D’Artemide foss’io stata trafitta
     Pria di vederlo, pria che all’Achea terra
     Si fosser vòlti di Calcìope i figli
     Che un dèmone o un Erinne or qua per nostra
     Dolorosa sventura ha ricondotti!...
     1020Ch’egli pêra pugnando, se destino
     Gli è di perir là su quel campo. E come
     Poss’io d’ascoso da’ parenti miei
     I farmachi apprestar? che dirne ad essi?
     Quale inganno adoprar? come soccorso
     1025Porgere a lui furtivamente? O forse
     Lui sol disgiunto da’ compagni suoi
     Di veder farò prova, e d’abbracciarlo?
     Misera me! chè s’ei pur muore, io pace
     Non però sperar posso; anzi gran duolo
     1030Allor n’avrò che spento ei fia di vita.
     Orsù, bando al pudor, bando al decoro!
     Salvo ei sia per mio mezzo, e illeso poi
     Vadane ovunque andar gli piace; ed io,
     Io, poi ch’egli compiuto avrà il certame,
     1035Quel di stesso morrò, sia che dal palco
     Penda avvinta alla gola, o che trangugi

     Letal veleno.... Ah! ma ludibrio e strazio
     Faran di me, se così muojo, e tutta
     Risuonar lungi la città di tale
     1040S’udrà mio caso; ed in lor bocche a gara
     Me le Colchiche donne rimestando,
     Mi daran turpe biasmo: Or ve’ costei
     Che per tanto curar d’uomo straniero
     Morì; costei che ad impudico impulso
     1045Cesse, e la casa ed i parenti suoi
     Contaminò. Qual non sarà la mia
     Ignominia! Oh me lassa! Oh trista sorte!
     Meglio, sì, meglio è in questa notte istessa
     Chiusa in mia stanza abbandonar la vita
     1050Fuor d’ogni altrui sospetto, e fuggir tutte
     Obbrobrïose accuse anzi che tali
     Vergognose a far prenda opre nefande.
Mosse a pigliar, così dicendo, un’arca,
     In cui farmachi molti e salutari
     1055E mortiferi accoglie; e sui ginocchi
     La si reca, e sospira, e bagna il seno
     Di lagrime che in copia ed incessanti
     Giù le scorrean, per lo dolor che l’ange
     Della propria sua morte. E ben volea
     1060Scerre a ingojar de’ più possenti toschi,
     E per trarneli fuor già dello scrigno
     I legami sciogliea; ma di repente
     Un brivido d’orror del päuroso
     Orco l’assalse, e attonita ristè.
     1065Tutte allor della vita le dolcezze

     Le rinvennero a mente: i bei diletti
     Ripensò, che a’ viventi allegran l’alma;
     Ripensò delle pari a lei donzelle
     La gioconda letizia; e in sua ragione
     1070D’ogni cosa avvisando il vero aspetto,
     Le si fe’ più di pria dolce a vedere
     Del Sol la luce; e di pensier mutata
     Per voler di Giunon, l’arca si toglie
     Giù da’ ginocchi, e più non pende incerta
     1075Fra’ diversi consigli. Or sol desìa
     Che presto appaja la risorta aurora,
     Perchè i promessi farmachi ammansanti
     A lui dar possa, e conversar con lui.
     Della porta i serrami ad ogni istante
     1080Dischiudeva a spiar se lume appare;
     Ed ecco alfìn la cara luce ad essa
     Vibra l’aurora, e per città già tutti
     Muovono l’opre a ripigliar del giorno.
Argo allora a’ fratelli impose quivi
     1085Sostarsi ad esplorar la mente e gli atti
     Della giovane zia, mentre ch’ei solo
     Fa ritorno al naviglio; ed ella appena
     Vide il cielo albeggiar, le bionde chiome
     Da sè stessa annodò, che giù disciolte
     1090Neglettamente erravano; si terse
     Le gote arsicce di rasciutto pianto,
     Ed unguento nettarëo cosparse
     Su la persona; indi un bel peplo indossa,
     Cui ben adunchi ornan fermagli; e un candido

     1095Velo si getta in su l’ambrosia testa.
     Così nelle sue stanze indi s’aggira
     Immemore de’ guai che tanti innanzi
     Già le stavan parati, e d’altri molti20
     Che venir dovean poi. Chiamò le ancelle,
     1100Che dodici, d’età pari, e non anco
     Partecipi di nozze, avean lor sede
     Nell’atrio innanzi al talamo odorato,
     E comandò che immantinente al cocchio
     Giungano i muli che condur la denno
     1105D’Ecate al ricco tempio. E quelle il cocchio
     S’affrettâr d’apprestarle; ed ella trasse
     Quel farmaco dall’arca, al qual dan nome
     Di Prometèo. L’uom che propizia pria
     Fatta a sè con notturni sagrificii
     1110Ha la diva Proserpina, e di quello
     Indi il corpo si spalma, ei nè piagato
     È da colpi di ferro, e nè pur cede
     A foco ardente, e di valor per tutto
     Quel dì più forte e di vigor diviene.
     1115Pria dal sanguigno umor dell’infelice
     Prométeo, cui la cruda aquila in terra
     Cader lasciò là ne’ Caucasei monti,
     Nato su doppio stelo un fiore apparve
     Alto un cubito quasi, e di colore
     1120Pari al Coricio croco, e nel terreno
     Rossa, qual carne allora allora incisa,
     Si stendea la radice, ond’ella espresse

     Negro un licor, qual da montano faggio,
     In Caspio nicchio, e un farmaco ne fece,
     1125Poi che preso in perenni acque lavacro
     Ebbe pria sette volte, ed altrettante
     Brimo invocata, di garzoni altrice,
     Brimo notlivagante, e giù nell’Orco
     Degli estinti regina. E ciò nel bujo
     1130Fêa della notte, in negre vesti avvolta;
     E la terra di sotto orribilmente
     Muggendo si scotea, quando recisa
     Venìa quella Titanica radice,
     E per grave dolor lo stesso figlio
     1135Di Giapeto piangea. Tolto dall’urna
     Quel farmaco Medea, lo si ripose
     Nel profumato lin che le ricinge
     L’ambrosio petto, e fuori uscendo ascese
     Sovra il celere cocchio, e due con lei
     1140Vi montarono ancelle ad ambo i lati.
     Pigliò dessa le guide, e nella destra
     La scutica impugnata, i muli spinse,
     La città traversando, e l’altre ancelle
     Dietro alla conca del cocchio aggrappatesi
     1145Con l’una man, per l’ampia via correvano,
     E con altra tenean le lievi tuniche
     Al candido ginocchio alto levate.
     Quale dappoi che nelle tepid’acque
     Si bagnò del Partenio o dell’Amniso
     1150La figlia di Latona, in aureo cocchio
     Tratta ne va dalle veloci damme

     Via per li colli, ove il nidor lontano
     D’ecatombe la invita: a lei compagne
     Seguon le Ninfe dell’Amnisia fonte
     1155E l’altre delle selve e delle balze
     D’acquee vene stillanti; e d’ogni parte
     Col gannir della voce trepidante
     Onor le fanno al suo passar le fiere:
     Tal ne va quel corteggio, e rispettose
     1160Le genti si ritraggono, evitando
     Mirar nel volto la regal donzella.
     Poi ch’essa fuor della cittade uscita,
     Per li campi scorrendo al tempio è giunta,
     Là dal rapido cocchio prestamente
     1165Scese, e sì disse alle compagne: Oh amiche,
     Un gran fallo io commisi. Io non pensai
     Fra stranieri venir che intorno vanno
     Per la nostra contrada. È di stupore
     Tutta compresa la città, nè il passo
     1170Quindi qua vòlto ha delle donne alcuna,
     Che farvi han uso in ogni di concorso.
     Ma poichè noi venimmo, ed uom nessuno
     Ne sopraggiunge, or via! col dolce canto
     Lieto facciam, fin che n’è sazio, il cuore,
     1175I bei fioretti in fra l’erbetta molle
     Cogliendo; a casa indi farem ritorno,
     E sì tornarvi con assai guadagno21
     Potrete pur, sol che con me di questo
     Convenir vi sia grato — Argo (e la stessa

     1180Calciope anch’ella) assai di ciò mi prega;
     Ma voi chiuso tenete in vostra mente
     Quanto udrete da me, sì che del mio
     Padre agli orecchi aura di ciò non venga.
     Pregan che lo straniero, il qual de’ tori
     1185Tolse l’impresa, dal feral cimento,
     Ricevendo suoi doni, io tragga in salvo.
     Accettai la proposta, e lui qui solo
     Invitai di venir senza compagni,
     A fin che i doni, ch’ei verrà recando,
     1190Sien fra voi compartiti, ed un possente
     Veleno io porga a lui. Dunque in disparte
     Voi da me vi traete allor ch’ei giunga.
Così disse infingendo, e piacque a tutte22
     L’ingannevol consiglio. Argo fra tanto,
     1195Che da’ fratelli inteso avea com’ella
     D’Ecate al tempio in sul mattin verrebbe.
     Colà il figlio d’Esòn, sol da’ compagni,
     Conducea per li campi; e li seconda
     Mopso d’Ampico figlio, ottimo il volo
     1200A spiegar degli augelli, ottimo in via
     A ben guidar chi fa con lui cammino.
Mai fra gli uomini prischi, e mai fra quanti
     Nacquero eroi da Giove stesso o d’altri
     Eterni dei, mai non fu visto un tale
     1205Qual fe’ Giuno in quel giorno esser Giasone
     All’aspetto e all’eloquio. I suoi compagni

     Stavan meravigliando a riguardarlo
     Radïante di grazie, e l’Ampicìde
     Gioío, di tutto l’avvenir presago.
1210È sulla via del campo, al tempio appresso,
     Un pioppo che di frondi ha folta chioma,
     Ove cornacchie garrule son use
     Far lor soggiorno. Una di quelle allora
     Da un alto ramo diguazzando l’ali,
     1215Sì di Giunon fe’ indovinar l’intento:
     Meschin profeta è in ver quei che in sua mente
     Pensar non sa ciò che i fanciulli sanno,
     Che donzella a garzon nè graziosa
     Nè amorosa parola unqua non dice,
     1220Se d’intorno le stanno estranee genti.
     Via di qua, mal profeta e mal consiglio!
     Certo, nè te mai Citerea, nè i cari
     Inspiran mai benevolenti Amori.
Sì dispettosa lingueggiò: sorrise
     1225Mopso quel verso in ascoltar, che un nume
     All’augello indettava, e così disse:
     Tu, d’Esone figliuol, tu della diva
     Entra nel tempio, e la donzella quivi
     Ritroverai, che molto a te propensa
     1230Per consiglio di Venere, ti fia
     In quel duro travaglio ajutatrice,
     Qual Finéo già predisse. Ambo noi due,
     Argo ed io, qui sostando aspetteremo
     Che fuor tu rieda. Or vanne solo, e lei
     1235Con acconce parole esorta e prega.

Così disse l’accorto, e gli altri due
     Gliene diêr lode. Altro pensier frattanto,
     Fuor che di lui, non volge in cuor Medea,
     Benché d’altro pur canti; e qual canzone
     1240Mutando va, niuna già più le piace.
     Poi cessò come attonita, nè gli occhi
     Tenea mai fermi tra le sue compagne,
     Ma la faccia inclinando, obliquamente
     Spingea lontan su per la via lo sguardo;
     1245E il cuor le si fendea, se stropiccio
     Pareale udir di piedi, o se di vento
     Passava un soffio. E quei però non molto
     Stette che innanzi all’ansïosa apparve
     Surto su, come fuor dell’Oceàno
     1250Sirio s’estolle, di beltà, di luce
     Sfolgorante a veder, ma di gran danno
     Portatore agli armenti; e tal Giasone
     Mostrossi a lei d’alta bellezza adorno,
     Ma gran travaglio anco eccitolle. Il cuore
     1255Le svenne in petto; una caligin buja
     Le oscurò gli occhi; le infiammò le gote
     Caldo rossor, nè innanzi più, nè retro
     Potea dar passo, chè de’ piè le piante
     S’irrigidiro. Eransi tutte intanto
     1260Quinci le ancelle allontanate; ed essi
     Taciti, muti, a fronte l’un dell’altro
     Stetter, simili a querce o ad alti abeti
     Che radice nel monte han messa appresso,
     Immoti ad äer queto, e quando poi

     1265Scossi sono dall’impeto del vento,
     Fan gran murmure insieme: e sì que’due
     Tacean, parati a favellar gran cose
     Allo spirar d’Amore. In quale ambascia
     Caduta ell’era per voler divino,
     1270Giason conobbe, e con soavi accenti
     Così a molcer la prese: E perchè mai,23
     O vergine, di me tanto hai timore,
     Che son qui solo? Io non son già com’altri
     Gonfi di fasto insultator, nè tale
     1275Io fui giammai nella mia patria terra.
     Di me quindi, o donzella, un pauroso
     Rispetto il domandar non t’impedisca24
     Ciò che intender t’è caro, o il dir tu stessa
     Il tuo pensiero. E poi ch’entrambo amici
     1280L’uno all’altro venimmo in loco sacro,
     Ov’è più reo qualsiasi inganno, aperto
     Parla e domanda; e con bei detti indarno
     Non lusingarmi, perocchè promesso
     Alla tua suora hai già di farmi dono
     1285Di lenïenti farmachi. Ti prego
     Or per Ecate stessa e per li tuoi
     Genitori e per Giove, il qual sua mano
     Su gli stranieri e supplici protende;
     Chè supplice e straniero a un tempo stesso
     1290Io vengo a te. Necessità mi sforza

     Di supplicar; chè senza voi non fia
     Che sì fiero conflitto io vincer possa.
     Del prestato favor giusta mercede
     Ti darò poi, qual dar si può da genti
     1295Di lontana contrada: un glorïoso
     Io ti farò nome onorando; e gli altri
     Eroi del paro, al patrio suol tornati,
     Celebreranti, e degli eroi le spose
     E le madri che forse or già sedute
     1300Su le spiaggie del mar per noi sospirano,
     Poi che tu dissipate avrai le triste
     Angosce loro.... Anco Teséo fu salvo
     Di periglio feral dalla Minoide
     Benevolente vergine Arïanna,
     1305La cui madre Pasìfe è del Sol figlia;
     E con esso ella poi, l’ira placata
     Del genitor, sovra la nave ascesa,
     Dalla patria partissi; e l’ebber cara
     Fin gli stessi Immortali; e in mezzo all’etra
     1310Una stellante fulgida corona
     Cui d’Arïanna appellano, suo giro
     Fa nella notte fra i celesti segni.
     E a te pur dagli dei verrà favore,
     Se a tanto stuolo di prestanti eroi
     1315Darai salute: e dal gentile aspetto
     Ben si par che t’adorna alma gentile.
Sì d’onor la blandiva. Ella chinando
     Gli occhi, divinamente sorridea,
     E della lode al suon l’animo in petto

     1320Le si stemprava. Indi lo sguardo in lui
     Alzò, ma la parola, onde il discorso
     Cominciar, non avea: tutto, dir tutto
     Voleagli insieme; e nulla disse; e trasse
     Dall’odorato lin che il sen le fascia,
     1325Il farmaco; e giulivo ei tosto il prese;
     Ed ella anco dal petto avrìa fuor tratta
     Tutta l’anima, e a lui volonterosa
     Data l’avrìa; tal dalla bionda testa
     Dell’Esonide un vago almo splendore
     1330Lampeggiò Amor, che in dolce incanto a lei
     Gli occhi rapì. Sciogliersi dentro il cuore
     Di calor si sentìa, qual su le rose
     La rugiada si scioglie ai mattutini
     Raggi del Sole; ed ambo or gli occhi a terra
     1335Chinavan pudibondi, or le pupille
     S’affissavano in volto, ed amoroso
     Un sorriso scambiavansi disotto
     Ai lieti sopraccigli. Al fin di sforzo
     Queste parole la donzella espresse:
     1340Odi ora il come io ti darò soccorso.
     Quando innanzi venuto al padre mio,
     Ei t’avrà porto a seminar gl’infesti
     Denti del drago, allor tu il punto osserva
     Del mezzo della notte, e di perenne
     1345Fiume ti lava alle correnti, e solo
     Da tutti gli altri, in bruna veste avvolto,
     Scava in tondo una fossa; in quella un’agna
     Svena, e intera a bruciar ponla su ’l rogo

     Ch’entro la fossa avrai composto, e placa
     1350L’unigena di Perse Ecate figlia,
     Dalla coppa libando all’arnie tolto
     Il lavoro dell’api. Indi, la dea
     Propizïata, dalla pira il passo
     Via riporta, nè sia che a retro il guardo
     1355Volger ti faccia o calpestìo di piedi
     O di cani latrar, sì che d’effetto
     Scema l’opra non resti, e tu ne rieda
     Non orrevolemente a’ tuoi compagni.
     Questo farmaco poi tosto al mattino
     1360Stempra a guisa d’unguento, e il nudo corpo
     Spalmati: in esso è un’infinita forza,
     Un possente vigor; nè agli altri umani
     Esser simìl ti sembrerà, ma pari
     Agl’immortali dei. L’asta e lo scudo
     1365Anco n’ungi, e la spada; indi non fia
     Che di quei dal terren nati guerrieri
     Ti fiedan l’armi, e de’ feroci tauri
     La fiamma impetuosa. Un lungo tempo
     Non però invulnerabile sarai,
     1370Ma solo un dì; nè ti ristar pertanto
     Dall’impreso certame: altro a tal uopo
     Ti dirò stratagemma. Al giogo avvinti
     Quand’abbi i fieri bovi, e col potente
     Braccio e valor tutto quel campo arato,
     1375Se da gli sparsi su le nere glebe
     Anguinei denti pullular ne’ solchi
     De’ Giganti vedrai folta la mèsse,

     Tu d’ascoso fra lor gitta un gran sasso;
     E quei su v’accorrendo, come cani
     1380Famelici su ’l cibo, ei stessi in gara
     Struggerannosi. Allor sovr’essi piomba
     A battagliarli, e vincitore il Vello
     Teco alla Grecia recherai, lontano
     D’Ea navigando; o vanne in somma ovunque
     1385Andar ti giova, ovunque andar ti piace.
Così detto, ammutì; gli occhi alla terra
     Fisse innanzi a’ suoi piedi, e largamente
     Bagnò di calde lagrime le gote,
     Dolente assai ch’ei per lo mar sì lunge
     1390Da lei n’andasse. Con meste parole
     Quindi il tenta di nuovo, e per la destra,
     Orinai lasciato il vergognar, lo piglia:
Sovvengati, se torni alle tue case,
     Del nome di Medea: ricorderommi
     1395Ben io di tal che fia da me lontano;
     Ma ciò dimmi fra tanto amicamente,
     Ove son le tue case, ove su l’onde
     Farai quinci tragitto, o se d’andarne
     All’opulenta Orcómeno disegni,
     1400O se all’isola Eea. Dimmi pur anche
     Di quella che nomasti egregia figlia
     Di Pasifae, che suora è al padre mio.
Qui tacque; e in lui della fanciulla al pianto
     Forte amor pur s’accese, e le rispose:
     1405No, nè notte nè dì penso che mai
     Te in oblìo non porrò, se per te morte

     Scampando, in Grecia avvien ch’io torni, e ad altra
     Prova maggior non mi condanni Eeta.
     Or se intender di mia patria t’è caro,
     1410Dirò; chè molto anco ha di ciò diletto
     L’animo mio. D’eccelsi monti intorno
     Evvi cinta una terra, assai di greggi
     E di paschi abbondante, ove già tempo
     Il Giapetide Prometèo diè vita
     1415Al buon Deucalione, il qual fu primo
     Fondator di città, di templi ai numi,
     E fra le genti regnator primiero.
     I vicini abitanti han la contrada
     Nomato Emonia: evvi Saolco in essa,
     1420Mia patria, ed altre assai città che il nome
     Pur dell’isola Eea mai non udîro.
     Fama egli è che di là ne’ prischi tempi
     Minia di stirpe Eòlide partito,
     Orcòmeno fondalo ha su ’l confine
     1425De’ Cadmei.... Ma parlando a che vo indarno
     Di queste cose, e della patria nostra,
     E dell’illustre di Minosse figlia,
     Dell’amabil donzella, onde m’inchiedi,
     A cui dato le genti orrevol nome
     1430Han d’Arïanna? Oh come allor Minosse
     Per la fanciulla con Teséo convenne,
     Così amico a noi fosse il padre tuo!
Di sì dolci parole ei la blandìa,
     Ma pensieri tristissimi d’affanno
     1435Pungeanle il cuore; e dolorosa a lui

     Con mesto favellar così dicea:
     Bello in Grecia sarà far d’amistade
     Patti e serbar; ma non già tale Eeta
     È qual esser Minosse a noi dicevi,
     1440Nè Arïanna io pareggio. Or qua di fida
     Ospital cortesìa non far discorso.
     Sol di me, poi che a Jolco sarai giunto,
     Abbi memoria; ed io di te, malgrado
     Pur de’ parenti miei, ricorderommi.
     1445Deh qualche voce di colà mi venga,
     O qualche nunzio augel tosto che oblio
     Di me ti prenda; o sovra il mar mi portino
     Rapidamente le procelle a Jolco,
     Perch’io là possa innanzi agli occhi tuoi
     1450Rimproverarti, e ricordar che salvo
     Fosti per opra mia! Deh ch’io potessi
     Improvviso in tue case allor trovarmi!
Di miserande lagrime le gote,
     Ciò dicendo, inondava. Ed ei riprese:
     1455Lascia, o gentile, ir le procelle vuote;
     Lascia ir gli augelli annunzialori: a torto25
     Ne domandi l’officio. Oh se a que’ lidi,
     Se tu verrai là nell’Ellena terra,
     Dalle donne e dagli uomini sarai
     1460Riverita, osservata, e come a Dea
     Ti faranno onoranza e questi e quelle,
     Di cui per favor tuo figli e fratelli
     E mariti ed amici a tristo fato

     Tornâr salvi scampando alle lor case.
     1465E tu sarai del mio letto consorte,
     E me nulla sciorrà dall’amor tuo
     Pria che d’ombra fatal morte m’avvolga.
All’udir questi accenti il cuore a lei
     Si sciogliea di dolcezza. Agli atri fatti
     1470Pur mirando, che a far, misera, avea,
     Raccapricciò; ma nondimanco a lungo
     Ricusar d’irne in Grecia non potea,26
     Chè mente è di Giunon, che, abbandonata
     La patria terra, nella sacra Jolco
     1475Venga Medea del tristo Pelia a danno.
Stavan le ancelle a riguardar da lunge
     Senza far motto, e lor dolea che l’ora
     Del dì già richiedea nelle sue case
     Presso la madre ritornar la figlia.27
     1480Ed ella del partir non si ricorda;
     Tanto prendea nell’anima diletto
     Dal mirar quel sembiante e dall’udirne
     Quel soave parlar; ma, benchè tardi
     Cauto, Giason sì la ne fece accorta:
     1485Tempo egli è di partir pria che del Sole
     Ne sorvenga il tramonto, e qualche estrano
     Tutto scopra spiando. In questo loco
     Altra fïata converrem di poi.
Lungamente così con dolci detti

     1490Si tentâr l’uno l’altro; alfin d’insieme
     Si spiccarono, e lieto a’ suoi compagni
     E alla nave Giason ratto avviossi;
     Essa alle ancelle. E queste incontro corsero
     Tutte ad una; ma ella non s’accorse
     1495Di lor presenza, perocchè di lei
     Era alle nubi l’anima volata.
     Co’ piè da impulso natural sospinti
     Salse il celere cocchio: d’una mano
     Le redini pigliò, pigliò con l’altra
     1500La sferza acconcia a porre in corso i muli;
     E quei traverso alla città per filo
     La trassero alla reggia. È giunta appena,
     E Calciope ansïosa a domandarla
     De’ figli suoi. Ma ne’ pensier di prima
     1505Tutta ella assorta, nè parole udìa,
     Nè rendeva risposta: s’assettò
     Su sgabel basso a piè del letto, e nella
     Sinistra mano declinò la gota,
     E sotto alle palpebre umidi gli occhi
     1510Avea di pianto in meditar qual rea
     Opra guidar col suo consiglio imprese.
Giason, poi che raggiunto ebbe i compagni
     Là ’ve lasciati aveali pria, con essi
     Ragionando ogni cosa a parte a parte
     1515Mosse allo stuolo degli eroi. Veduto
     L’han quelli appena avvicinarsi, e accorrono
     Ad abbracciarlo, a fargli inchieste; ed egli
     Della vergine a tutti i saggi espose

     Accorgimenti, e il farmaco possente
     1520Ne mostrò. Di lor tutti Ida si trasse
     Solo in disparte a morder bile: allegri
     Gli altri, poi che cessò l’ombra di notte
     Il travagliar, cura di sè ciascuno
     Tranquillamente prese. All’alba poi
     1525Due mandaron de’ loro al sire Eeta
     L’inchiesta a far della sementa: il prode
     Battaglier Telamone, e di Mercurio
     L’inclito figlio Etàlide. Lor via
     Compieano quelli, e non fallìan d’effetto,
     1530Chè ad essi Eeta i perigliosi denti
     Diè del dragon che della Marzia fonte
     Era custode nell’Ogigia Tebe,
     E Cadmo l’uccidea quando là venne
     D’Europa in cerca, e vi fermò sua sede,
     1535Scòrto dalla giovenca a lui per guida
     Prenunziata da Febo. Al drago estinto
     Dalle mascelle la Tritonia diva
     Svelse i denti, e li diè parte ad Eeta,
     E parte in dono all’uccisore. E Cadmo
     1540Disseminolli negli Aonii campi,
     E un terrigeno popolo fondava
     Di quei che la mietente asta di Marte
     Lasciò viventi. Ed or buon grado Eeta
     Gli altri diè per Giason, cui non avvisa
     1545Che, se a’ tauri pur anche il giogo imponga,
     Trar possa poi la grande impresa a fine.
Già il Sol da lunge declinando a sera

     Scendea sotto alla terra ottenebrata,
     Là oltre i monti d’Etiopia estremi,
     1550E la Notte i cavalli al cocchio aggioga.
     Allor presso alle amarre i letti loro
     Stesero i Minii; ma dell’Orsa appena
     S’inclinò il lucid’astro e il cielo e l’aere
     Tacque in alta quïete, ad un solingo
     1555Loco Giason, come notturno ladro,
     Furtivamente s’avviò con tutto
     Che gli fa d’uopo, e che nel dì s’avea
     Già procacciato: un’agnelletta e latte,
     Cui da un ovile Argo ebbe tratto; il resto
     1560Dalla nave ei ne tolse. E poi che vide
     Fuor della pesta della via comune
     Un tranquillo recesso in mezzo a prati
     Che di chiare acque irrigansi, da pria
     Là, com’è rito, si lavò nel sacro
     1565Fiume il nobile corpo; un bruno ammanto
     Poi si vestì, di che gli fêa già dono
     Issipile di Lenno in ricordanza
     D’amor malventuroso. Indi, scavata
     Cupa e larga d’un cubito una fossa,
     1570V’alzò dentro di legna una catasta;
     Scannò l’agnella, e la vi stese sopra;
     Poi, posto sotto a quelle schegge il foco,
     Ne fe’ sorger la fiamma, e su v’effuse
     Le miste libagioni, a’ suoi cimenti
     1575Adiutrice invocando Ecate Brimo.
     Fatto il priego, partissi. Udì quel priego

     La terribile diva, e di sotterra
     Dagl’imi penetrali al sagrificio
     Dell’Esònide venne. Orridi serpi
     1580Fra vermene di quercia attorcigliati
     Le cingeano la fronte: lampeggiava
     D’un gran chiaror di faci, e torma intorno
     D’inferni cani le venìan latrando
     Con acuto ululato. Tremò tutto
     1585All’incesso di lei l’irriguo campo,
     E un grido alzâr le fluvïali Ninfe,
     Che s’aggiran per quella umida landa
     Dell’Amarantio Fasi. Anco terrore
     Prese Giason, ma il piè via via portollo
     1590Senza che addietro a riguardar si volga;
     Finchè giunse a’ compagni. E già sorgendo
     In su ’l nevoso Caucaso spargea
     Il nuovo albor la mattutina Aurora.
Eeta allora intorno al petto induce
     1595Una salda lorica, onde a lui Marte
     Fêa don poi ch’ebbe con le proprie mani
     Morto il Flegrèo Mimante; un aureo in testa
     Irto di quattro coni elmo si pose,
     Sfolgoreggiante come appar del Sole
     1600Il tondo disco allor che fuor si leva
     Dall’Oceàno; indi uno scudo imbraccia
     Di molti cuoi conserto, e vibra un’asta
     Ponderosa così che sostenerla
     Nullo varrebbe di que’ Greci eroi,
     1605Dacché Alcide n’è lungi,’il sol che a fronte

     Star può d’Eeta. Un ben construtto cocchio
     A lui pronto con celeri cavalli
     Tenea Fetonte; ed ei vi salse, e in mano
     Le redini ne tolse, e fuor si spinse
     1610Della città su la maestra via,
     A veder la gran prova; e gli correa
     Dietro di genti una turba infinita.
     E qual Nettun su ’l carro all’Istmio ludo
     Muove, o a Ténaro, o al suo fonte di Lerna,
     1615O alla foresta dell’Iantio Onchesto,
     Ed a Calavria ed all’Emonia Pietra
     E al selvoso Geresto; era a vedersi
     Tale in contegno il re de’ Colchi Eeta.
Giason fra tanto di Medea gli avvisi
     1620Ben rimembrando, i farmachi stemprava,
     E lo scudo n’asperse, e la robusta
     Asta e la spada. Intorno a lui raccolti
     I compagni a tentar diêrsi quell’armi
     Con tutte forze, e nè d’un punto pure
     1625Valser l’asta a piegar, che assai più salda
     Ne’ lor pugni tenaci anzi si fêa.
     Ma fervido di rabbia Ida contr’essi,
     Il figliuol d’Afarèo, su ’l calcio a quella
     Un fendente scagliò col suo gran brando,
     1630E ripercossa risaltò la lama,
     Come martello dall’incude. Un fremito
     Diêr di gioja gli eroi, fatti più arditi
     A sperar la vittoria; ed ei medesmo
     Giason se n’unse, e gli s’infuse in corpo

     1635Un’intrepida, invitta, oltre ogni dire
     Gagliarda possa, e turgide le braccia
     Gli si fêr di vigore. E qual bramoso
     Della battaglia il marzïal destriero
     Scalpita, il suol zappa nitrendo, e rizza
     1640Orgoglioso gli orecchi, e il collo inalbera,
     Tal l’Esónide anch’ei nella fortezza
     Esultò di sua membra, ed alto il passo
     Qua e là slanciava, il bronzeo scudo e l’asta
     In man squassando, e lo diresti un fulmine
     1645Che nell’aer tenebroso e tempestoso
     Ad or ad or lampeggia in fra le nubi
     Che d’indi a poco d’una negra pioggia
     Giù riversano un nembo. Allor più indugio
     Non frapposero i Minii: entro la nave
     1650Collocaronsi tutti in ordinanza,
     E remigando a tutta voga, al campo
     Si spinsero di Marte. Era quel campo
     Dinanzi e presso alla città di tanto,
     Quanto lungi la mèta è dalle mosse
     1655Nell’arringo de’ cocchi, allor che a fanti
     E cavalieri è delle corse inditto
     Per morto sire un funeral certame.
     Trovâr quivi ed Eeta e delle Colche
     Genti gran turba, insù Caucasei scogli
     1660Stanti queste a prospetto, e il re su ’l margo
     Sinuoso del fiume. Ebbero appena
     Amarrato il naviglio i Minii eroi,
     Ratto Giason d’asta e di scudo armato

     Saltò fuori al cimento. In man si tolse
     1665Il lucido di bronzo elmo ricolmo
     De’ denti aguzzi, ed alle spalle il brando
     Sospese, e nuda ha la persona, a Marte
     Nelle forme simile e all’almo Apollo.
     Girò l’occhio su ’l campo, e il bronzeo vide
     1670Giogo de’ tauri, e col dental l’aratro
     Di saldo acciajo; indi avanzossi, e in terra
     Piantò dell’asta la ferrata punta,
     E il ripieno elmo ivi posò; poi mosse
     Con lo scudo proteso innanzi il passo,
     1675L’orme de’ tori investigando; ed ecco,
     Repente fuor da sotterranea buca,
     Ove l’orride stalle eran di fumo
     Fuliginoso in ogni parte involte,
     Quelle due fiere eruppero soffiando
     1680Vampe di foco. Ebber gli eroi spavento;
     Ma il pro’ Giasone incontro a lor piantossi
     Su gli allargati piè saldo qual rupe
     Che in mar sta immota agl’irrompenti flutti
     Nelle orrende tempeste. A sè dinanzi
     1685Parò lo scudo; e quei mugghiando a gara
     Vi cozzâr dentro con le forti corna;
     Ma nè un punto lo smossero. Conforme
     A ben costrutti mantici di cuojo
     Che alternando il soffiar nelle fornaci
     1690Fan più vivido il fuoco, e un cupo fremito
     Rombar s’ode, dal fondo uscendo il vento;
     Sì que’ feroci un rumoroso anelito

     Mettean, sbuffando ardenti fiamme, e rapido
     Come folgore, il foco a lui s’avventa,
     1695E lo investe; ma il farmaco lo salva,
     Di che Medea fornillo. Al destro toro
     Abbrancò in alto il corno, e con sue tutte
     Forze gagliardamente strascinollo
     Fin presso al bronzeo giogo, e là col piede
     1700Forte spingendo i piè di quello addentro,
     Il fe’ cader su le ginocchia al suolo;
     E l’altro ancor, che ad assalirlo viene,
     Fa con pur solo un simil colpo a terra
     Inginocchiar. L’ampio suo scudo allora
     1705Via gittato, con l’un braccio e con l’altro
     L’un di qua, l’un di là fermi li tenne
     Sovra i ginocchi anterïor prostrati,
     Tuttochè avvolto entro una fiamma. Eeta
     Tanto d’uomo vigor meravigliava;
     1710E i Tindàridi allor (che a ciò commessi
     Erano già) recâr da terra a lui
     Quel giogo; ed ei su le cervici a’ tori
     L’assettò, lo legò; poi sollevando
     Dell’aratro il timon greve di bronzo,
     1715L’infilò nell’anello ivi pendente
     Del giogo in mezzo. I due germani indietro
     Si ritrasser dal foco appo la nave;
     Ed ei, lo scudo rilevando, al tergo
     Lo si appese, e il ripien d’aguzzi denti
     1720Elmo ripiglia, e la lunghissim’asta,
     Con la qual poi nel mezzo a’ fianchi i tori

     Pungea, come il bifolco instiga i buoi
     Con pungolo pelasgo; e con man ferma
     La ben conflata di temprato ferro
     1725Stiva reggea. Rabbiosamente i tauri
     Inferocian dappria, vampe soffiando
     Orribili di foco e turbinose,
     Come vento che freme in gran tempesta,
     E a’ naviganti di paura pallidi
     1730Fa le vele ammainar. Ma non a lungo
     Riluttâr quelli, e s’avviaron docili
     Al governo dell’asta: il terren sodo
     Venia dietro fendendosi squarciato
     Dalla forza taurina e dall’impulso
     1735Del robusto arator. Le grosse zolle
     Spaccandosi mettean lunghesso i solchi
     Un fragor pauroso; ei col piè greve
     Iva il cultro premendo, e da sè lunge
     Via via gittava insù l’arate glebe
     1740Dall’elmo i denti, e riguardava addietro
     Non de’ giganti la feroce mèsse
     Sorga repente ad assalirlo. Intanto
     Sovra l’unghie di bronzo i buoi pontando
     Proseguìano il travaglio; e mentre ancora
     1745La terza parte rimanea del giorno,
     Quando stanchi i bifolchi il dolce vespro
     Invocano che i buoi sciolga dal giogo,
     Tutto arato già il campo era da quello
     Indefesso aratore, ancor ch’estenso
     1750Quattro jugeri fosse, onde all’aratro

     Tolse i tori, e a fuggir per la campagna
     Li cacciò spaventati; ed ei veggendo
     Di terrigeni ancora i solchi vuoti,
     Fe’ ritorno alla nave. I suoi compagni
     1755Il rinfrancan co’ detti: alle correnti
     Ei del fiume attingendo entro l’elmetto,
     Spense la sete, e gli agili ginocchi
     A riposo piegò; ma la grand’anima
     Rinfocolava di guerresco ardore,
     1760Simigliante a cinghial che arrota i denti
     Incontro a’ cacciatori, e d’ira caldo
     Molla schiuma dal grifo a terra sparge.
     Ma già pullulan su per ogni parte
     Di quel campo i giganti, ed al rilampo
     1765De’ metallici scudi e delle acute
     Aste ferrate e de’ lucenti elmetti
     Brillava orribilmente la campagna
     Del mortifero Marte, e dalla terra
     All’alto Olimpo ne salìa per l’aere
     1770Sfavillante splendore. E qual se dopo
     Molta neve fioccata insù ’l terreno
     Aure serene nella notte oscura
     Spazzan via l’atre nubi, una infinita
     Moltitudin di stelle appar nel cielo
     1775Sfolgoreggianti, uscian così dal suolo
     Quelle turbe lucenti. Allor Giasone
     Dell’accorta Medea gli utili avvisi
     Arricordossi, e diè di piglio a un grande,
     Che su ’l campo giacea, ritondo sasso,

     1780Disco immane di Marte, e cui da terra
     Punto pur non avrian quattro robusti
     Giovani sollevalto; ed ei con mano
     Abbrancollo, e ben lunge in mezzo a quelli
     Lo slanciò di gran forza; indi acquattossi
     1785Senza timor dietro lo scudo. I Colchi
     Schiamazzâr con fracasso a par del mare
     Che frange e freme a scabri scogli incontro,
     Ma del gran masso alla gittata attonito
     Stette Eeta. I giganti un sovra l’altro28
     1790Corsero urlando come presti cani,
     Strage a far l’un dell’altro, e su ’l materno
     Campo cadean sotto lor aste, a guisa
     Di pini o querce che trabocca a terra
     Turbinosa bufera. E qual si spicca
     1795Un fulgid’astro illuminando il cielo
     Di lunga riga, meraviglia all’uomo
     Che per lo tenebroso aere lo vede
     Raggiando trasvolar; tal su i giganti
     Precipitar d’Esòn si vide il figlio.
     1800Nuda in pugno ha la spada, e taglia e miete
     Rinfusamente e quei che fuor del suolo
     Sporgeano ancor con solo il ventre e i fianchi,
     E quei che con le spalle, e a cui già tutta
     Fuori sta la persona, e chi già corre
     1805A far battaglia. E come avvien che quando
     Rumoreggia la guerra insù ’l confine,
     Paventando il villan non gl’inimici

     Gli precidan le biade, adunca falce
     Ben affilata in man si piglia, e ratto
     1810Ne miete acerbe tuttavìa le spiche,
     Nè attender vuol che dell’estivo sole
     Il calor le maturi; a tale imago
     De’ giganti l’eroe mèsse facea;
     E pieni i solchi ne correan di sangue,
     1815Come gore di fonti. Ed altri a terra
     Cadean proni, e co’ denti il terren duro
     Mordean; altri supini, altri di fianco,
     Giù il cubito battendo; e di balene
     Sembianza avean quelle corporee moli.
     1820E i molti che feriti erano pria isso
     Di trarre i piè fuor della terra, quanto
     Su col busto emergean, tanto su ’l suolo
     Co’ gravi capi ripiombavan giù.
     Allor, come se i teneri arboscelli
     1825Nell’albereta, intorno a cui fatiche
     Pose e cure il cultor, per lo soverchio
     Di gran pioggie rovescio a terra cascano
     Con le rotte radici, acerbo e grave
     Duolo al padron che gli allevò, s’apprende;
     1830Così forte nel cuor del sire Eeta
     Entrò tristezza, e alla città ritorse
     Il cammin fra’ suoi Colchi, escogitando
     Come a’ Minii avversar più duramente.
     Tramontò il giorno, e dall’eroe compiuta
     1835Tutta era già la travagliosa impresa.



  1. Var. al v. 20. Non preterir prova nessuna all’uopo.
  2. Var. al v. 42. De’ colpi ignara di colui, nè impulso
  3. Var. al v. 45. Ma tu alla dea favellerai di questo.
  4. Var. al v. 73. Ma il cuor pena commosso ad ambe noi,
  5. Var. al v. 121. Tornerà, chè scaltrita è quella assai.
  6. Var. al v. 148. Mostrar, nè irata rinnovar litigi
  7. Var. al v. 207. Ferito il cuor dell’Eetèa donzella.
  8. Var. al v. 235. Forse a tutto lo stuol toglie il ritorno.
  9. Var. ai v. 279-281. Procedean quelli, e sicurtà l’amica
    Giuno a lor provvedendo, un aere bujo

    Sparse nella città, sì che non visti
  10. Var. ai v. 411-412. Fei nel cocchio gran giro, allor che Circe

    Sorella mia d’Esperia ai lidi addusse,
  11. Var. ai v. 426-427. Su le scommesse tavole caduti

    Dell’isola di Marte alle costiere
  12. Var. al v. 444. Degli Eòlidi tutti è il più prestante
  13. Var. ai v. 472-474. Contezza te n’ darò. Questo degli altri
    Capo, a cui della Grecia i più prestanti

    Si fêr compagni, egli è Giason nomato,
  14. Dante, Inf., XXIII, 148.
  15. Var. al v. 659. (Meglio a far non avea) franco promisi.
  16. Var. ai v. 745-746. Gitteremvi le funi. A noi sconviene

    Star, tementi la pugna, a lungo ascosi.
  17. Var. al v. 802. Tutte sien l’opre sue poi manifeste.
  18. Var. al v. 890. Ove nè giunto è pur de’ Colchi il nome!
  19. Var. ai v. 935-936. Ma n’attesto (e de’ Colchi è il sommo giuro

    Questo a che tu mi spingi) il Ciel superno,
  20. Var. al v. 1098. Già le stavan parati; e de’ maggiori
  21. Var. al v. 1177. E sì con util molto oggi tornarvi
  22. Var. ai v. 1191-1193. Veleno io porga a lui. Da me voi dunque

    Traetevi in disparte allor ch’ei giunga.
  23. Var. ai v. 1270-1271. Giason conobbe, e con parlar soave

    Così prese a blandirla: E perchè mai,
  24. Var. al v. 1277. Rossor non t’impedisca il domandarmi
  25. Var. al v. 1456. Lascia l’annunzio ir degli augelli: a torto
  26. Var. al v. 1472. D’andarne in Grecia non potea ritrarsi,
  27. Var. ai v. 1478-1479. Del dì già richiedea che al regio tetto

    Presso alla madre sua torni la figlia.
  28. Var. al v. 1789. Stette Eeta. I giganti l’un su l’altro

Note

    Questa voce è stata pubblicata da Wikisource. Il testo è rilasciato in base alla licenza Creative Commons Attribuzione-Condividi allo stesso modo. Potrebbero essere applicate clausole aggiuntive per i file multimediali.