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Il segreto (Cariclea)
L'ineluttabile (Miss Geraldina) L'ultima lettera (Angelica)

IL SEGRETO.

(Cariclea).

Nella camera chiusa, in quelle giornate di agosto, si soffocava; al mattino vi ronzavano pesantemente le mosche, attirate dalla zuccheriera scoperta sul comodino, dal bicchiere di aranciata, dallo sciroppo di codeina che stillava dal collo di una bottiglina e dall’odor grave di malattia che era nell’aria. Esse si posavano sul volto bruno dell’ammalata, dai pomelli arrossati, mentre ella dormiva, gittata in quei torpori profondi che sono il preludio della morte: il figliuolo invano le scacciava con un ventaglio, esse ritornavano a posarsi su quelle labbra semiaperte da cui sfuggiva breve, rôco, rantoloso, il respiro. Di sera non si poteva aprire la finestra, non un filo d’aria entrava ad agitare la fiammella diritta; di sera, vampe di calore, fra cui mettevano una nota acuta l’acqua di finocchio e il catrame distillato, salivano al cervello di Pietro, il figliuolo che vegliava sua madre. Il silenzio della camera era rotto dal rantolo cupo o dal fischio sottile di quei polmoni agonizzanti; era rotto dallo scoppio di quella tosse dura, insistente.

Egli vegliava, tenendo lo sguardo fisso, immoto, sulla faccia di sua madre. Pareva volesse scolpirsi in mente quel volto affilato, diminuito dal male, volto di cui già alcune linee erano diventate immobili. Egli sapeva che la madre moriva; lo sapeva, e l’anima sua lo mormorava a sè stessa, quasi per convincersene. Non una lagrima saliva agli occhi riarsi di quel figlio, non un singulto lacerava il petto di quel figlio. Era stupefatto. Egli viveva, quasi pietrificato, in quella stanza, andando, venendo, porgendo le medicine, porgendo da bere, accomodando i cuscini, aiutandola a sollevarsi. Viveva come un sonnambulo, con gli occhi spalancati e fissi, prestando tutte le cure più affettuose e più umili, lentamente ma carezzevolmente, meglio di una donna, senza parlare. Non si scuoteva, non trasaliva, avendo costretto all’indifferenza il proprio viso; solo quando la tosse si faceva sentire, egli impallidiva lievemente e voltava la testa in là. Mentre la madre giaceva in quei torpori che lo spaventavano, peggiori della veglia, egli pensava. Che madre era stata quella per lui! Per lui quella era la madre delle madri, era stata l’amor materno come idea fissa, l’amor materno come follia. Dalla nascita fino a quelle ultime giornate, così monotonamente disperate, non si erano lasciati mai un minuto, madre e figlio. Aveva dormito fino a dieci anni nel letto della madre, con la testa appoggiata sul petto di lei; dopo, nella stessa stanza; dopo, nella stanza accanto, con la porta aperta, parlandosi. Ella lo aveva salvato da tutte le terribili malattie d’infanzia, pregandogli la vita con la voce, comunicandogli la vita con lo sguardo magnetico, soffiandogli la vita col respiro; aveva preso da lui una volta il vaiuolo, una volta il tifo. Ma essa si ammalava pel figlio e guariva pel figlio. Ella lo conduceva a scuola, sotto la pioggia; ella veniva a riprenderlo. A casa studiavano insieme le lezioni e lei si stillava il cervello come lui sui problemi di aritmetica. Pietro era impertinente, nervoso; la madre lo sgridava, poi piangeva, e lui scoppiava in lagrime. Andavano insieme a passeggiare, Pietro bello ed elegante, cogli abitini che ella gli cuciva, lei dimessa e sorridente. Parlavano insieme lungamente, nei tramonti estivi, il figlio abbracciato alla madre, guancia a guancia; ella gli diceva con la voce bassa dove mormoravano le note dell’intimità, tutto quello che vi è di bello e di brutto nella vita. Il figlio ascoltava, senza rispondere; poi con la mano accarezzava la faccia della mamma e talvolta la trovava bagnata di lagrime. La mamma non gli parlava mai di sè, mai del proprio passato, mai della propria vita; gli parlava di lui, dell’avvenire. Talvolta, più grandetto, egli domandava:

— Dimmi di te, mamma buona.

— No; non serve, — rispondeva lei brevemente, mentre un’onda di pallore le saliva al viso.

Tale madre era stata la moribonda per lui; madre per il cuore, madre per la mente, madre per il corpo, madre per il sacrifizio, madre per la stravaganza dell’affetto, madre per l’immensità della passione. Il figliuolo le rassomigliava tratto per tratto, tanto era stato fatto da lei. Nell’anima era come lei, tanta era stata la trasfusione del pensiero e del sentimento. Fra quei due vi era un continuo scambio di vita. Si sorridevano col medesimo sorriso; si guardavano e l’idea andava dall’uno all’altro, senza bisogno di parola. Ancora egli sedeva ai piedi della madre e le appoggiava il capo sulle ginocchia, mentre la mano delicata e lieve di lei gli carezzava i capelli, mentre la voce bassa susurrava a lei le parole della vita — ma questo bambino era un uomo, a diciannove anni, forte, virile, coraggioso, apprezzatore sereno degli uomini e delle cose. D’un tratto, come se finita l’opera sua, la madre non avesse più ragione di vivere, tutte le forze della sua robusta salute declinarono: parve colpita fatalmente e sicuramente.

Come la morte si avvicinava, questo scambievole amore di madre e di figlio aumentava d’intensità senza parole, straziante e profondo.

— Mamma, mamma, — si ripeteva egli a sè stesso sperando di impazzire a furia di ripeterlo.

E le girava attorno, incapace di lasciarla un minuto. Ella lo guardava fisamente concentrando nello sguardo tutto il suo amore.

— Come ti senti, mamma?

— Meglio.

— Mamma cara, mamma bella....

E il figliuolo nascondeva il capo nei cuscini. Poi venivano certi lunghi e paurosi silenzi che lo sgomentavano.

— Dimmi qualche cosa, mamma....

Ella faceva cenno che non poteva, chiudeva gli occhi, crollava il capo come stanca. Sempre quel sonno penoso, in cui la faccia s’induriva, le palpebre socchiuse, la bocca storta, la testa inclinata sul lato destro, poichè il polmone sinistro era consumato.

— Mamma.... — mormorava il figlio, piano.

E lei, svegliata, conservava quella durezza di tratti, gli occhi fissi e vitrei.

— Mamma, parlami, dimmi....

Talora quando la vedeva così ritirata in sè stessa, l’anima lontana, con quella indifferenza suprema per cui la mente sembra già staccata dalle cose terrene, con quel disinteressamento per cui il morrente pare già fatto cosa di un’altra sfera, pare già in alto, trattenuto appena da un filo invisibile, egli la chiamava, disperato, con la voce turbata con cui il Redentore dovette chiamare Lazzaro:

— Mamma, mamma!

Ella viveva ancora. Si pigliavano per mano: Pietro le parlava sottovoce, come un bambino, pieno di carezze nella intonazione, dicendole che l’amava, che le voleva bene, che l’adorava, che la idolatrava, che era la sua mamma cara, unica, immensa. Ella stava a sentire, come rianimata da quella voce tutto amore, respirava meglio, la mano non bruciava più tanto, la fronte non aveva più quei sudori gelati. Ma quando, in fondo alle parole del figliuolo, ricompariva, inconscia ma fatale, quella interrogazione; quando quel dimmi, vago ma insistente, ritornava sulle labbra del figliuolo, quando la curiosità ardente e latente trapelava da quanto egli dicesse, allora ella si riversava sui cuscini, chiudeva gli occhi, voltava la testa, come se scegliesse la posizione per morire in pace. Se lui, cieco, disperato, mosso da un istinto egoistico o da un istinto amoroso insisteva su quel dimmi, dimmi, un lamento tetro usciva da quel petto distrutto, un lamento di anima morente e disperata. Il figlio taceva, mortificato, avvilito.

E per dieci giorni, fra questa madre e questo figlio che si adoravano, fra questa madre che non voleva morire per amore e questo figlio che non voleva farla morire per amore, una lotta muta e terribile fu combattuta.

Il segreto si ergeva grande, possente, feroce fra loro, il segreto che faceva balbettare quel figliuolo ai piedi del letto di sua madre, mentre lei si rigettava nell’ostinato mutismo dell’agonia. Fu una lotta accanita, in cui l’anima umana mostrava tutta la sua dolcezza e tutta la sua mostruosità, in cui l’amore era egoismo e l’egoismo amore.

Ardeva la sottile fiammella della candela. Dalla via saliva il suono di un organetto che mandava nell’aria le note di una mazurka. Nella stanza soffiava la morte. Ella aprì gli occhi.

— Perchè hai spento il lume, Pietro?

— Dio! non vede più il lume! mi muore, dunque, — pensò lui.

E allora, buttato accanto al letto, perduto nell’immenso dolore della sua vita, smarrito dalla solitudine in cui entrava, gridando, piangendo, strappandosi i capelli, singhiozzando, gli salì alle labbra la domanda che mai aveva osato pronunziare:

— O mamma bella, dimmelo! O mamma buona, mamma del cuore, mamma, dimmelo! Non vorrò bene che a te, non amerò che te, dimmelo! Per pietà di tuo figlio, dimmelo! Se mi vuoi ancora bene, dimmelo! Mamma, mamma, dimmi il nome di mio padre.

Ella gli spalancò in volto gli occhi vitrei, aprì la bocca per pigliar fiato:

— No, — disse con la voce confusa e pastosa dei morenti.

Poi, volto il capo, dette tre gridi lunghi, striduli, strazianti; non respirò per un minuto secondo; tastò vagamente il lenzuolo con le dita; respirò fortemente e morì.

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