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Il gran Rapporto
Anacronismo L'affare dei quattrini

IL GRAN RAPPORTO


   Cara contessa

Io ebbi, conveniamone, un’eccellente ispirazione lasciando parlare Guy de Maupassant intorno alla Venere di Siracusa. Se ella critica con tanta vivacità le affermazioni del grande scrittore, che cosa avrebbe fatto delle mie? Il Maupassant è morto, e non può difendersi; debbo difenderlo io? L’impresa mi pare, sotto ogni riguardo, inopportuna. Ma è pur necessario che io risponda qualcosa alle sue ultime critiche.

Sì, cara amica, c’è una poesia reale: queste due parole messe insieme dall’autore di Notre Cœur non sono nient’affatto stonate. Se io non m’intrattenessi ora con lei ma con un militare, temerei di dar luogo a qualche curioso equivoco parlandole d’un «gran Rapporto». Il militare intenderebbe quell’adunanza alla quale il comandante chiama tutti i suoi ufficiali dopo la manovra. Con lei, ed al punto al quale siamo della nostra controversia, non ho bisogno di spiegare che il gran Rapporto del quale ho da occuparmi è quello che intercede fra il sentimento e l’istinto. E la quistione è così posta: l’amore non può esser fatto di sola poesia, senza di che avrebbe ragione quel capitano di cui le narrai tempo addietro la pietosa avventura: e neppure di sola prosa, cioè di soli appetiti, senza di che nulla ci distinguerebbe dai semplici bruti; ma le due cose, preceda l’una o pur l’altra, debbono poi andare insieme e darsi la mano. Ora, se noi dobbiamo cercare il peso di questa poesia e di questa prosa insieme operanti, bisogna riconoscere che, sebbene il peso della poesia sia grandissimo, pure quello della prosa è ancora un poco più grande.

Consideri una pianta. Il tronco s’erge nobilmente, al pari d’una colonna; i rami, via via più sottili, delicati e graziosi, si distendono tutt’intorno bizzarramente; le foglie, tinte di un verde purissimo, venate come da una sottilissima rete, sono cose di bellezza. Che dire del fiore? della sua forma, dei suoi colori, del suo profumo? Orbene: tutte queste cose nobili, delicate, belle, squisite, sono pure sopportate, anzi derivate dall’oscura, dalla nera, dalla poco netta radice. Noi potremo tagliare il nobile tronco e i rami bizzarri, potremo spiccare le foglie delicate e i fiori balsamici; ci parrà, sì, che essi stiano da soli, che vivano d’una propria lor vita indipendente; ma la radice è sempre quella alla quale essi tutti la debbono. Ogni qual volta l’amore sembra un purissimo spasimo, il meno puro istinto — ma questa distinzione di diversi gradi di purezza non esiste in natura, è tutta opera nostra! — l’istinto a nostro giudizio meno puro si trova alla sua origine. Esso potrà restare e resta moltissime volte nascosto, ignoto allo stesso amante nel quale opera; ma da un momento all’altro, e quando meno si pensa, può rivelarsi. Di queste subitanee, impreviste, imprevedibili e quasi direi intempestive rivelazioni io voglio oggi darle due curiosissimi esempii.

C’era una volta un uomo, un marito, il quale, amando d’un indicibile amore sua moglie, d’un amore che era poesia e prosa, spasimo ideale e reale, sentimento dell’anima e impeto dei sensi, una cosa insomma perfetta, ne era ripagato tanto male che da più tempo portava quello che il nostro grande poeta Ariosto chiama araldicamente il cimier di Cornovaglia. Tuttavia la destra infedele aveva saputo tenergli nascosta l’immeritata disgrazia; e tanto più facilmente era riuscita ad ottenere l’intento, quanto che, come dice sempre il nostro divino Lodovico,

   L’incarco delle corna è lo più lieve
   Che al mondo sia, se ben l’uom tanto infama:
   Il vede quasi tutta l’altra gente,
   Ma chi l’ha in capo poi non se lo sente...

Un triste giorno questo marito amante scoprì l’orrenda verità. Il grido del suo dolore fu così acuto, che la stessa adultera ne rabbrividì. Ma il sentimento della dignità, dell’onore ferito e calpestato insorse formidabile in quest’uomo, che scacciò l’indegna. Tutti gli diedero ragione. Ella non aveva nessuna scusa, e solo la perversità dell’indole sua l’aveva spinta alla colpa; ciò si dimostrò tanto più vero, quando si vide che, non contenta d’aver tradito il marito, tradì poi anche l’amante; e a poco a poco, di tradimento in tradimento, scese sino in fondo alla lubrica scala del vizio.

Il marito fu visto cercare altre donne e vivere della vita degli altri uomini liberi. Nessuno sospettava la piaga che nel cuore di lui grondava sangue, continuamente. Non tanto nell’amor proprio egli era stato ferito, quanto nell’amore; egli non si doleva tanto del disonore quanto del disamore. E lontano da lei, dall’infedele, dall’adultera, dall’indegna, egli pensava a lei come alla sola donna che meritasse d’essere amata. I suoi sensi erano appagati da altre femmine, più belle, più esperte; egli non pensava più al corpo di quella creatura: piangeva sconfortatamente il puro, il sincero, il fedele sentimento dell’anima amante. Egli non sapeva più nulla di lei, imaginava che un altro solo possedesse il tesoro dell’anima sua; e un’invidia immensa e un infinito rancore l’occupavano e l’opprimevano. Quando la gente lo credeva contento d’essersi sbarazzato di quella infame, il rimorso lo straziava. Egli era pentito d’avere scacciata sua moglie, la donna sua; egli pensava che il suo dovere, il suo piacere, il suo bisogno era di perdonarle. Doveva perdonarla per riscattarne l’errore, per non darla ad altri, per averla sempre con sè. Il suo perdono l’avrebbe fatta accorta del momentaneo inganno, l’avrebbe ridata a lui migliore, più grata, più amante... E un giorno egli seppe la vita di lei. Allora, sapendo che quella donna, la creatura che egli aveva eletta fra tutte, era passata da un uomo all’altro, continuamente, senza amore, senza pudore; nel sapere questa cosa, quando lo sdegno e il disgusto dovevano invaderlo, quando egli doveva ridere di sè stesso, delle sue velleità di perdono, delle speranze di redenzione, della fede ancora riposta in quell’indegna: allora sa ella che cosa provò? Egli lo confessò più tardi a una persona di mia conoscenza: vedendo che quell’impudica si dava a tanti uomini, ai primi venuti, egli, il marito offeso, l’amante tradito, lo spasimante dell’anima, si sentì.... come dirò? si sentì acceso da una brama veemente, si sentì spinto a tornare da quella donna per chiederle, come tutti quegli altri, come i primi venuti, un’ora di ebbrezza...

La ragione subitamente intervenuta sedò costui. Diversamente andarono le cose nel secondo caso che voglio narrarle. Abbiamo anche qui un tradito, ed io ho scelto appunto queste situazioni, perchè, se c’è un tempo nel quale si spasima d’amore tutto immateriale, nel quale l’amore dei sensi sembra perfino scordato, questo è appunto il tempo quando il tradito, per la stessa depressione fisiologica prodotta dal patema, è incapace di procurarsi la voluttà. Quest’altro tradito, dunque, non era un marito; cosa che, se attenua la colpa della donna, non scema il dolore dell’uomo — al contrario! Ora costui, accortosi del tradimento e piante tutte le sue lacrime, deliberò di lasciare la traditrice. Ella aveva dapprima negato: poi, sbugiardata dalle troppe prove, aveva dovuto riconoscere la verità. E con una stretta al cuore l’amante comprendeva che ella non era molto responsabile dell’errore. Apparteneva costei a quella poco numerosa categoria di donne che hanno — per dirla alla francese — molto temperamento, e che non solo difficilmente resistono alle sollecitazioni del maschio, ma spesso esse medesime lo provocano. Quantunque questa categoria sia, come ho detto e come si sa, non molto numerosa, data la calma nativa della generalità delle donne, pure si può trovare in essa una distinzione non indifferente e suddividerla pertanto in due sottospecie: la prima composta di donne che per l’ardore eccessivo null’altro intendono fuorchè gli appetiti, pertanto spudorate, cattive, temibili; la seconda, nella quale noi troveremo creature capaci di qualche sentimento, sincere a certe ore, migliori di quel che sembrano, non indegne insomma di simpatia e, per gli osservatori, oggetto fecondo di studio. La donna dalla quale l’amico mio fu tradito — è uno dei più cari amici miei, e dei più desiderati ora che la vita ci ha disgiunti — apparteneva a questa seconda categoria.

Dopo la confessione del tradimento ella comprese — e ciò le dimostri come il suo cuore non fosse addirittura volgare — che un uomo come lui, per il quale solo i sentimenti più alti e puri importavano, non poteva essere più suo; ed ella che pure lo aveva apprezzato, lo pianse a sua volta, sinceramente. Ebbero un ultimo convegno. Fu un convegno molto triste: lacrimavano entrambi: ella di rimorso e di dolore, egli di dolore e di pietà. Ma, quantunque costei sapesse che quel convegno sarebbe stato senza domani, pure, vedendo per il momento dinanzi a sè l’amante di tanto tempo, sentì ciò che d’ordinario sentiva in presenza di tutti gli uomini; e la stretta della sua mano e lo sguardo dei suoi occhi e il suono della sua voce rivelarono il suo, diciamo così, sentimento. Allora quell’uomo si sentì invadere dalla meraviglia; perchè, comprendendo ciò che avveniva in lei, scorgendo che gli istinti di quella creatura le prendevano con tanta facilità la mano da accenderla in un’ora drammatica come quella, vedendo che ella non aveva neppure la capacità di fingere; la coscienza di queste cose, la previsione sicurissima che se colei gli si offeriva in quel momento, si sarebbe offerta al primo venuto quando egli sarebbe andato via; questa coscienza e questa previsione che avrebbero dovuto naturalmente accrescere il suo dolore, il suo rancore, la sua pietà, il grave patema dell’animo suo, e col patema rendere ottusi i suoi sensi, lo sospingevano al contrario in braccio a quella donna, gli suscitavano un violento desiderio di servirsi ancora una volta di quel mirabile e vibrante e fremente strumento di voluttà. E benchè egli sentisse che cedere in quel punto alla tentazione sarebbe stata una profanazione ed una viltà, che se egli voleva ancora rispettarsi doveva fingere di non accorgersi dell’invito tacitamente rivoltogli da quella donna, pure comprese che la resistenza era vana; e allora dal contrasto fra gli alti sentimenti e l’infime brame egli fu disposto a una sottile ironia, a un riso interiore, che lo spinse a fare una cosa stravagante. Tratto di tasca il portafogli, scrisse col lapis due righe sopra un pezzetto di carta; piegatolo poi in quattro lo porse alla donna, dicendole: «Vorrete leggere questo, quando sarò andato via?»

La donna infatti, piena di curiosità, lesse lo scritto quando egli fu scomparso; e lo scritto diceva quel che era avvenuto: «Prima di andarmene, dopo che ci siamo dolorosamente persuasi che non possiamo più essere l’uno dell’altra, noi...» l’espressione precisa non posso, cara contessa, riferirgliela; metterò invece: «noi... saremo stati l’uno dell’altra ancora una volta!...»

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