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L’OMONIMO
- Mia cara amica,
se l’impero della bellezza è maggiore del prestigio del genio, e per dimostrare che il genio è posposto alla bellezza io le ho riferito il sentimento d’una donna che del genio non poteva comprendere il valore. «Questa vostra signora Woiwosky, per vostra stessa confessione, non aveva ancora idea d’una sensibilità squisita, d’una imaginazione feconda, d’un intelletto acuto come quelli del vostro amico. Ed aveva avuto altri amanti prima di lui, e lo tradì: come volete dunque che io la prenda sul serio? Era, evidentemente, una di quelle disgraziate che non obbediscono se non agli istinti, che ignorano il mondo superno dei sentimenti e delle idee: e vi meravigliate, allora, che un paio di baffi biondi la titillasse e che ad un paio di baffi biondi ammettesse di poter sacrificare un’anima come quella del vostro amico? Ma se voi volete provare che la musica è superiore alla pittura, fatemi un poco il piacere di non addurmi il giudizio d’un cieco!...»
E se io le dicessi, contessa, che rispetto al genio tutte le donne sono cieche?... Ella non si offenderebbe di questo giudizio; perchè, se noi non andiamo spesso d’accordo, molte volte ella ha riconosciuto, con una schiettezza che non so se faccia più onore alla sua intelligenza o alla sua modestia, l’intellettuale inferiorità delle donne. Così stando le cose, se la mente muliebre non vive nè arriva alle altezze dove il maschio intelletto opera e spazia, che cosa importerà alle donne la grandezza intellettuale? Che cosa faranno esse di ciò che non intendono?... Naturalmente, noi metteremo da parte le eccezioni. Nè mi dica che la galanteria mi suggerisce questa concessione. Io non commetterò ora l’insulsaggine di lodare l’intelligenza di lei; ma, se dobbiamo discutere il nostro problema, il quale, mentre mi pareva risolto con un assioma, sta per diventare — grazie alla sua ostinazione! — un apòro, io le ripeterò che alle donne di molta levatura sicuramente la grandezza importa più della bellezza; farò anzi di meglio: le riferirò il motto d’una non volgare Amatrice dinanzi a cui qualcuno, riferendo certe fortune galanti di Guy de Maupassant, diceva, quasi per giustificarle, che il grande scrittore era anche un bell’uomo.
— Chi si chiama Maupassant non ha bisogno di essere bello, — rispose costei; ed ella batta pure le mani, si giovi fin che vuole di questa risposta: io debbo dichiararle che questi ed altri simili esempii sono tutti esempii dell’eccezione, non mai della regola. Esempio della regola è quello che racconta Chamfort e che ella mi permetterà di riferirle. Il filosofo Elvezio era, da giovane, bello come l’amore. Una sera che se ne stava, al teatro, tranquillamente seduto vicino alla celebre Gaussin, un molto ricco e noto banchiere venne a dire all’attrice: «Mademoiselle, vous serait-il agréable d’accepter six-cents louis, en échange de quelques complaisances?...» L’attrice rispose, forte abbastanza perchè il giovane filosofo potesse udire, e additandolo: «Monsieur, je vous en donnerai deux-cents, si vous voulez venir demain matin chez moi avec cette figure-là...»
La regola, signora mia, è che al più gran numero delle donne il genio importa poco e che quasi tutte gli preferiscono un bel viso. Se noi enunzieremo il nostro psicologico problema così: «Dato un uomo di genio, il quale sia anche un bell’uomo, trionferà egli più presto per il suo genio o per la sua bellezza?» io dico che la soluzione non può esser dubbia: la bellezza eserciterà l’azione più pronta ed efficace. E se le ho dianzi citato un esempio storico, glie ne aggiungo un altro che non è storico ancora, ma sarà tale, perchè riguarda un genio non meno grande nell’arte di quel che fosse Elvezio nella filosofia. Stia un poco attenta: la storiella che le narrerò è una delle più graziose fra quante mi furono confidate.
Crede ella che sia permesso ignorare, in Italia, chi è Guglielmo Valdara? Chi non ha letto i suoi magnifici versi, chi non ha almeno udito ripetere i più famosi, quelli divenuti popolari, entrati ad arricchire il patrimonio della lingua parlata, come i proverbii e i modi di dire? Ma se a nessuno riesce nuovo il suo nome, molti non avranno idea della sua persona e non sapranno che egli possiede quel genere di maschia bellezza destinata a piacere alle donne ed a formare l’invidia degli uomini. È alto, magro ed agile; ha lineamenti nobili e puri, capelli folti e dorati come nella prima gioventù. I suoi amici gli chieggono, scherzando, di quale tintura si serve; ma Valdara è veramente un miracolo di conservazione — poichè, come ella saprà, è più vicino ai cinquanta che non sia lontano dai quaranta. Ma il tempo passa per lui senza offenderlo, e la sua figura è di quelle la felice armonia delle quali muta di carattere, ma non si distrugge. Quando le sue chiome saranno tutte d’argento, sembrerà ch’egli abbia messo, per civetteria, una bella parrucca — e piacerà ancora. Quando non avrà più capelli, la sua testa parrà scolpita nel marmo pario — e non dispiacerà. Ma veniamo all’avventura della quale fu l’eroe.
Due anni addietro, sul principio dell’estate, egli andò ai bagni d’Aix, dove trovò parecchi connazionali, ma nessuno di sua conoscenza. Qualcuno di quegli Italiani, tuttavia, avendo letto il suo nome sulla lista dei viaggiatori, lo considerava con l’occhio attento ed un poco attonito col quale si guardano i grandi uomini, le bellissime donne e le bestie rare. Certuni gli gironzavano attorno, cercando l’occasione di dirgli che sapevano chi era; ma, naturalmente nemico di questo genere di esposizioni, Valdara evitava costoro, ed era molto contento quando lo scambiavano con uno dei tanti Valdara così numerosi nell’alta Italia, specialmente col proprietario o direttore che sia del celebre lanificio di Biella.
La corte degli uomini lo seccava; però egli faceva la corte alle signore. Una sopra tutte gli piaceva: la moglie graziosissima ed elegantissima d’un ingegnere piemontese, il cui nome si omette per discrezione. Fin dal primo giorno che costei apparve alla table d’hôte, Valdara le piantò gli occhi addosso, con una persistenza legittimata dalle occhiate rapide e frequenti che anche ella gli rivolgeva. La sera, al Casino, uno di quei curiosi che era finalmente riuscito ad esprimergli la propria ammirazione e che conosceva l’ingegnere e la moglie, lo presentò alla coppia di fresco arrivata. E, credendo di riescirgli particolarmente gradito, si mise a parlare di letteratura. Valdara, lieto della conoscenza fatta, era un po’ seccato da quel discorso, temendo da un momento all’altro di sentir citare le proprie opere o di dover rispondere alla solita incresciosa domanda: «E che cosa ci regalerà di nuovo?» Per fortuna il seccatore ebbe il buon gusto di non alludere a lui; nè la signora, la quale del resto era un poco stanca e si ritirò molto presto, gli fece gl’immancabili ed immancabilmente stupidi complimenti.
Fin dal domani Valdara cominciò l’assedio, e con gran piacere s’accorse che le cose si mettevano bene. Il seccatore se ne partì, l’ingegnere stava poco bene, quindi egli ebbe l’agio di veder spesso sola la dama dei suoi pensieri. Una settimana dopo, ottenne di fare con lei una passeggiata clandestina. Parlarono di tutto, fuorchè di letteratura; anzi, non di tutto, ma d’una cosa sola. Ella indovina quale. Valdara disse alla sua bella connazionale, con tutta l’eloquenza che gli era consentita dall’assoluta solitudine, quanto gli piaceva — e la sua bella connazionale se lo lasciò dire. Dopo un’altra settimana di colloquii, di balli, di strette di mano furtive, di baci un po’ rubati e un po’ concessi, ella andò a trovarlo in camera sua. E allora, come facilmente comprenderà, non parlarono di niente. Le visite si rinnovarono, e furono tutte poco verbose, perchè necessariamente brevi. Insomma, Valdara assaporava beatamente la dolcezza dell’avventura, e come non chiedeva null’altro all’amica, così non gli faceva senso che neppur ella gli chiedesse null’altro.
Ora, un giorno, mentre l’aspettava, la posta gli portò due pacchi contenenti sedici copie del suo nuovo volume Le Memorande, che l’editore proprio in quei giorni doveva diffondere per tutta la penisola. Siccome mancava più d’un’ora al convegno, egli si mise a scrivere le dediche su quei volumi che s’era fatti mandare appunto per spedirli agli amici. Non aveva ancora finito che l’uscio si schiuse e l’amica sua gli venne incontro. Egli lasciò a mezzo le dediche e tese le braccia alla dama, esclamando, a bassa voce, ma con l’accento della più lieta meraviglia:
— Che piacere!... Tanto più presto!... Non vi speravo ancora!...
Ella spiegò che una felice circostanza l’aveva lasciata libera prima dell’ora consueta e che perciò avrebbero potuto restare insieme più a lungo del solito.
— Ma io non disturbo?... — domandò con un discreto sorriso, per farsi assicurare del contrario; e Valdara:
— Voi?... Se non mi par vero?... Se m’avete risparmiato la febbre dell’attesa!...
Accennando alla scrivania, ella soggiunse:
— Facevate però qualche cosa... — e andò a vedere.
Le copie delle Memorande erano distribuite in due pile: da una parte quelle dove la dedica era già fatta, dall’altra quelle dov’era ancora da fare; nel mezzo, aperto alla prima pagina bianca, l’esemplare dove Valdara stava scrivendo; «A Giuseppe Giacosa, fraternam...» Ella guardò curiosamente quei libri, prese l’esemplare aperto e considerò un poco la dedica.
— Questo libro è dunque vostro? — domandò, senza nessuna espressione di compiacimento o di stupore; e Valdara, stupito invece un poco per proprio conto, rispose:
— Si, è mio... Ne gradite una copia?...
Allora, con l’espressione di chi si sovviene a un tratto di qualche cosa, la dama insistè:
— Dunque voi siete Valdara, il poeta?... L’autore delle Elegie d’autunno?... — E naturalmente, tranquillamente, come se il sapere che l’amico suo era uno dei più grandi poeti della patria non gli aggiungesse nè gli togliesse nulla, ella continuò: — Io avevo creduto che foste quell’altro, quello del lanificio...
Per la verità debbo aggiungere che Valdara, quella volta, restò un po’ male.