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LA TOSCANINA
Non mi aspettavo meno, mia nobile amica, dalla gentilezza del suo cuore,
e le chiedo perdono delle irreverenti parole. Ma quanto delicato è il
suo sentimento, altrettanto acuto è il suo spirito, ed ella ha ben
compreso che se talvolta le mie espressioni non sono state rispettose
come dovrebbero essere, ciò significa che fatalmente lo stato di guerra,
tra uomini e donne, non può aver tregua: io, io stesso, compreso di
tanta reverenza per lei, mi lascio pur vincere la mano dall’ironia!
Vuol ella permettermi di stampare uno di questi giorni, senza nominar lei, beninteso, tutta la prima parte della sua lettera d’oggi? La cristiana pietà per le avvilite creature che hanno ancora coscienza del loro avvilimento non poteva dettarle parole più eloquenti. Ella giudica tuttavia che, per redimersi, esse potrebbero fare qualcosa di meglio che non tentare d’uccidersi, e crede che, volendola fermamente, otterrebbero la redenzione. Penso anch’io come lei: volere è potere. Se non le parrà presunzione ch’io citi me stesso, aggiungerò che altra volta già dissi: «Quando la volontà asserisce d’essere inefficace, bisogna dubitare un poco della sua sincerità.» Soltanto, noi non dovremmo abusare di questi giudizii. I casi nei quali la volontà sincera resta impotente sono disgraziatamente anche troppi. Che diremo noi allora? Se essa s’infranse contro ostacoli troppo grandi e veramente insuperabili, negheremo il suo merito? Anche quando fallì perchè non fu molto potente, disconosceremo quel tanto di virtù che la sostenne? Se volere non è sempre potere, noi potremo dire che in ogni caso chi vuole vale.
Poco tempo fa, a proposito del costo dell’amore, io le riferii il motto d’una mercenaria al mio amico Grolla. Costretta dalla necessità a chiedergli un poco di denaro costei gli disse, timidamente: «Non mi vuoi più bene?» parole che fecero molta impressione all’amico mio, specialmente perchè gli rammentarono l’altra domanda, tanto meno delicata, rivoltagli da una dama: Ti costo troppo? Io che ho accusato lei di curiosità non potrò oggi far meglio ammenda del mio torto se non confessandole la curiosità mia propria. Dopo che Grolla ebbe riferito i due motti, insistetti presso di lui affinchè mi narrasse qualche altra cosa della dama e della mercenaria. Egli soddisfece a mezzo l’aspettazione mia: della dama non volle dirmi nulla, ed io compresi che il rancore, lo sdegno e lo sprezzo glie ne rendevano incresciosa la stessa memoria; della mercenaria mi narrò la storia. Siccome, dopo le idee che abbiamo scambiate sulle infelici sue pari, potrà interessarla, così glie la voglio riferire. Trascrivo dalla lettera dell’amico mio:
«Il suo vero nome» mi scrisse egli dunque, «era Margherita, ma la chiamavan tutti la Toscanina perchè era di Siena ed aveva un personaggio piccolino, magrolino, delicato, e un viso così dolce che la rassomigliava a non so qual Vergine Beata, e una vitina sottile che sarebbe parsa più sottile ancora, se ella avesse potuto stringersi nel busto, come fanno tutte, senza mandar sangue dalla bocca... Ella diceva questa cosa semplicemente, come diceva semplicemente, quando la padrona di casa, la serva, tutta la trista gente che l’attorniava le aveva dato qualche dispiacere: «M’hanno fatto molto male: ho sputato sangue, sono svenuta; allora hanno avuto paura...» Pure, fumava sigarette una sull’altra e beveva liquori, e se la rimproveravano di ciò, rispondeva: «Mi faranno male dopo; per ora mi danno animo...» Soffriva sempre di qualche cosa, accusava sordi dolori, ma il suo buon umore non cessava per questo, e le sue labbra piccole e bianche si schiudevano naturalmente al canto. Nella notte alta, per le vie deserte, o in barca, sul mare, si metteva a cantare a tutta voce: una voce leggermente stridula che tratto tratto s’arrochiva senza che ella si decidesse a smettere mai.
«Capille nire cumm’a nu velluto, Capille nire ch’ardono d’ammore...
«Erano così i suoi capelli, neri e vellutati, e quando ne disfaceva l’acconciatura e li lasciava cadere in due grosse bande sulle spalle, l’ovale del suo viso pallido ed affilato in quella cornice d’un nero lucente acquistava un’espressione misticamente ideale, una meravigliosa purezza, come quella d’una Suora sognante le letizie del paradiso.
«Sette passi già gli ho contati, Quant’è lunga la mia cella...
«Un’altra delle sue canzoni — e diceva d’averne trovato i versi e la musica quando suo padre l’aveva chiusa in un monastero: una storia nella quale non si sapeva bene dove finisse la verità e dove cominciasse l’invenzione — come in tutto ciò che dicono le sue pari. Però qualcosa la distingueva dalle altre: un fondo inalterato di naturale bontà e specialmente una semplicità di gusti, una grande facilità di contentatura, una remissione costante. I più piccoli regali la rendevan felice; non aveva mai voglie; sempre che le offrivano qualche cosa forzava gli offerenti a sceglier essi, quasi non si trattasse di far piacere precisamente a lei.
«La luna nova ’ncoppa a lu mare stenne na fascia d’argiento fino...
«Le notti della luna piena, nonostante l’umidità perniciosa della marina, era per lei una festa venire in barca: rammento certe sere nel porto, col mare tranquillo e piano come una tavola, quando la facevo distendere sul dorso, sorreggendola col braccio, perchè non vedesse altro fuorchè il cielo stellato; e certe altre quasi tempestose, quando in faccia alla scogliera del molo, dove le onde si scagliavano furibonde, ella cantava con voce più squillante, quasi a sfidar gli elementi, e rideva mostrando le perline dei denti, e mi afferrava fortemente il braccio ad ogni scossa della barca sballottata come un pezzetto di sughero. Una volta dimenticò di prendere il mantello, e siccome io avevo una gran paura che l’umidità le facesse male, tentai di persuaderla a buttarsi la mia giacchetta sulle spalle. Non l’avessi mai detto! Mi diede del matto, mi picchiò col ventaglio quasi rabbiosamente, e non ci fu verso di piegarla. Un’altra sera, ai piedi della scala della lanterna, vide un cagnaccio rognoso, una povera bestia che se ne andava lungo il muraglione, evitando le gente, quasi presaga dell’accoglienza che gli era serbata. La vista di quel cane le diede un brivido di ribrezzo, e poichè io, per chiasso, feci il gesto di chiamarlo, ella si mise a salire precipitosamente le scale, fuggendo. Allora finsi d’inseguirla, costringendola ad arrampicarsi più presto, e la raggiunsi sulla spianata; ma come mi pentii dello scherzo! La poveretta ansava ed era tutta sbiancata in viso, sul punto di perdere i sensi. Con le mani faceva un gesto che, sulle prime, io non compresi: voleva dirmi a quel modo, non potendo parlare, di metterle una mano sul cuore perchè sentissi come batteva. Che paura! Pareva si schiantasse. Ma di lì a qualche minuto, quando riscendemmo in barca, l’affanno era passato ed ella riprese il suo canto...
«Le cure che io avevo per la sua persona la stupivano molto; spesso mi diceva: «Com’è curioso questo qui! Hai paura che io muoia? Sta tranquillo: non sarà per ora!...» Pure, aveva qualche momento di nera tristezza, di quella tristezza muta e profonda che non si sa come lenire. Mi faceva tanta pena, nel vederla così gentile e nel saperla in quella vita, con quel male che le rodeva il petto, che un giorno, avendola trovata in uno di questi momenti, tentai di esprimerle l’interesse e la simpatia che m’ispirava. «Non mi compiangere, sai,» rispose, «non voglio!...» ed era quasi duro il suono della sua voce nel dire queste parole. Per distrarla, la condussi in campagna; a tutti i poveri che incontrammo volle dare qualche cosa. Un vecchio cieco, accasciato sopra un mucchio di sassi, tendeva la mano scarna, rugosa e tremante: ella fece fermare la carrozza, discese, e gli mise in mano una moneta dicendogli: «Dite un’avemaria...»
«Tutti quelli che soffrivano, che mancavano di pane le facevano molta pietà, forse pensando che un giorno sarebbe mancato anche a lei, o rammentando, chi sa, che le era mancato una volta. «Se io dovessi ridurmi a fare la serva, a vivere di elemosina,» diceva, «sta pur sicuro che mi ammazzerei. Il fiume non c’è per nulla, o il mare... E poi, posso chiudermi in camera, con molti fiori dentro, e lasciarmi morire così...» Ella doveva aver trovato questa idea in qualche libro — perchè leggeva! I suoi libri erano romanzi di Montépin e di Boisgobey, altra roba francese ancora più brutta, edizioni economiche ad una lira, dalle copertine rozzamente illustrate. In mezzo, come smarriti e vergognosi della compagnia, i versi dello Stecchetti, che la povera ragazza certamente non capiva. Infatti, non vorrei che attraverso questi miei ricordi tu la vedessi abbellita, nobilitata, migliore di quel che in realtà non fosse. Era una creatura perduta che portava nei modi, nel linguaggio e nello stesso pensiero il marchio della sua condizione, senza nulla che la riscattasse fuorchè i segni, intermittenti e non visibili a tutti, d’una primitiva delicatezza di sentimento, d’una nostalgia delle perdute serenità spirituali — parole forse un po’ troppo preziose per la cosa che debbono esprimere... Ma la sua tristezza era di breve durata; il canto e il riso fiorivano assiduamente sulle sue labbra. Parlava molto, di tutto, saltando di palo in frasca, ma tornando con insistenza su certi casi della propria vita. Certo, come li raccontò a me li avrà raccontati a molti altri; certo ancora, se si potessero paragonare le varie versioni, si troverebbe che non corrispondono, che i particolari variano, che le giunte e i ricami alterano il carattere e la significazione dei casi. Di quest’abitudine della menzogna, in tutte le Toscanine, tu hai già ragionato, ed è inutile dirti che io consento interamente con te. La coscienza del loro avvilimento presente le spinge a dar sapore di poesia alla loro vita passata; ora questo mi piaceva specialmente nella Toscanina mia: che le sue narrazioni non parevano molto abbellite, poichè, senza esservi costretta dalla presenza di nessun testimonio e contro il suo proprio interesse, ella diceva cose, della sua vita trascorsa, che le potevano nuocere.
«Sì, la Toscanina confessava d’esser passata per il più infame servaggio. Noi usiamo, per indicare la somma d’ammaestramenti cavati dalle lunghe esperienze, una frase che dice: «Conoscere la vita,» e ciascuno di noi si forma di questa vita un’idea diversa secondo le diverse vicende per le quali è passato. Le Toscanine adoperano anch’esse una frase per indicare l’esercizio del loro mestiere, una frase molto espressiva: «fare la vita,» e fra il nostro «conoscere» e il loro «fare» c’è tutta la differenza che passa tra il dilettante e la vittima. Perchè, se il risultato della nostra esperienza consiste nella persuasione che l’esistenza non è tutta triste nè tutta gioconda, quale persuasione si dovrà formare nella coscienza di queste sciagurate? Forse... nessuna! Provvidenzialmente, esse vivono giorno per giorno, senza vedere gli orrori dell’Irrimediabile; e del resto se la loro miseria è spaventosa, ha pure talvolta qualche attenuazione e qualche compenso. La Toscanina, quand’io la conobbi, aveva vent’anni, ed era da sei nella vita; se aveva pianto, aveva pur visto il pianto di molti uomini; se aveva sofferto la fame, aveva pure distrutto vere fortune. Ed aveva conosciuto chi era stato pauroso di toccarla quasi ella potesse spezzarsi, e chi l’aveva presa a colpi di revolver e di rasoio...
«Aveva amato.
«Io credo che queste creature possano e sappiano amare; credo anzi che, se le Toscanine soffrono, piangono e all’occorrenza si uccidono per amore, ciò prova che questo famoso amore non è soltanto il desiderio delle carezze — esse non possono dire di struggersene invano! — ma anche un bisogno tutto morale. Si deve tuttavia essere molto accorti prima di credere a simili donne; quante ve ne sono indegne di fede? Precisamente l’indegnità della più gran parte rende sospette le poche eccezioni. A dar retta alle molte, l’amore le ha perdute: esse non mancano anzi di narrarvi un complicato romanzo. Ora, la Toscanina non diceva questo e non narrava romanzi. Particolare strano: non dava nessuna versione intorno alle origini ed alle circostanze del suo primo errore. «E’ tutta una storia» diceva; e questa storia consisteva, a suo dire, nel fatto che ella non serbava memoria, non aveva anzi mai saputo quando e in che modo aveva perduto la sua innocenza. Era forse un’arte più raffinata quella che le suggeriva di avvolgersi in un preteso mistero, o v’era un mistero realmente, e quale? Non potei saperlo. L’amore del quale la Toscanina parlava era nato in lei nei giorni peggiori della sua schiavitù. «Me ne rammento come fosse ora,» narrava; «la prima volta che vidi Riccardo fu una sera, tardi: io era rannicchiata sopra un divano, coi piedi mezzo fuori delle pantofole, il capo appoggiato sul braccio e avvolto in una fascia rossa che pendeva fin sul tappeto. Entrarono a un tratto tre o quattro allegri giovanotti che scherzavano fra loro; io mi voltai un poco per vedere chi fossero e poi mi raccolsi meglio nel mio cantuccio. Dopo un poco uno di loro si mise al pianoforte e cominciò a sonare. Sonava tanto bene; ma io non lo vedevo, perchè tenevo gli occhi chiusi; e anche li avessi aperti, egli mi voltava le spalle. Fra l’altro, sonò un valzer, ma così bello come non ne avevo mai udito altri. Quando finì e stava per alzarsi, m’alzai io prima di lui, e me gli avvicinai: — Se non le rincresce, vuol ripetere quel valzer? — Mi rispose: — Subito. — Così gli rimasi vicino e lo vidi in viso. Quante volte poi egli l’eseguì per me sola!...» Era un valzer non so bene se di Strauss o di Waldteuffel, uno di quei canti di gioia in mezzo ai quali par di sentire l’accento d’una indefinita tristezza e quasi l’avvertimento che nessun tripudio è durabile. «Sono stata tre anni a piangere sempre che m’è tornato a mente!...» — diceva la Toscanina — ma adesso non piangeva più, ripetendolo con voce leggermente roca, strozzata di tanto in tanto da un breve nodo di tosse.
«— Perchè dunque il primo amore non si scorda più?... — mi domandava soltanto; ed io le facevo della psicologia, procurando di adattare il mio linguaggio all’intelligenza dell’umile creatura, ma accorgendomi tuttavia che, nonostante, ella non comprendeva.
«L’amore per il suo Riccardo durò nella Toscanina molto tempo. Le anime sensibili che si decidono ad ammettere la possibilità di questi amori, chiedono almeno che la passione abbia tale virtù da riscattare le donne nel cui cuore è nata e da toglierle alla turpe esistenza. L’arte, quelle poche volte che ha degnato studiarle, ha avuto appunto cura di nobilitarle a questo modo, per non offendere con lo spettacolo della lacrimevole realtà il pudore — vero o finto non importa — della gente per bene. Ma purtroppo la realtà reale è una cosa un po’ diversa dalla romantica. La Toscanina non si riscattò per nulla. Il suo amante, che era semplice studente, le voleva bene, ma non aveva di che toglierla da quella vita. Per lei, come per tutte le sue pari, concedersi alla folla non è mancar di fede all’amico prescelto; esse fanno una gran differenza, nella quale risiede la loro gran prova d’amore, fra le carezze alle quali si sottopongono e quelle che ricambiano. La Toscanina dava a Riccardo questa prova d’amore, e Riccardo glie ne diede un’altra, traendola, appena potè, dalla miseria dove l’aveva trovata. Allora rifulsero tutte le buone qualità della Toscanina; la sua affezione, la sua umiltà, la sua costanza. Essere d’uno solo era stato sempre il suo ideale. Per le sue compagne di destino la virtù è un lusso: più fortunata di molte altre, ella potè concederselo. Ma quanto poco durò! Il giorno che l’amante non potè più assicurarla contro le difficoltà materiali dell’esistenza, ella tornò alla condizione di prima. Non cessò per questo l’amore. Anche svanito il bel sogno, la Toscanina continuò a voler bene al suo studente. Il dolore di lei cominciò anzi quando s’accorse che Riccardo s’intepidiva, che la trascurava, che le preferiva altre donne. Che scene accaddero fra loro due? Quali forme prese la gelosia dell’una e l’egoismo dell’altro? Quali accuse si scambiarono? Impossibile appurarlo con precisione. Queste confessioni mi furono fatte dalla Toscanina a varie riprese, senz’ordine; nè io pensavo ad interrogarla, perchè le risposte alle mie domande erano stentate, confuse, spesso contraddittorie; mentre in tutto quel che diceva spontaneamente c’era un accento di verità innegabile. Certo è che la Toscanina si mantenne lungamente sommessa ed implorante, minacciando soltanto quando quell’altro divenne più freddo e più duro. «Bada, Riccardo! Bada a quel che fai! Verrà giorno che mi piangerai dinanzi, e allora sarà troppo tardi!...» Infatti quel giorno venne. Quando ella scelse un altro uomo, non perchè sentisse nulla per lui, ma per farlo servire ai proprii disegni; quando a propria volta fece l’antico amante spettatore delle preferenze accordate al nuovo, quegli si ribellò, minacciò, pregò; ma tutto fu inutile. Con la bocca d’un revolver dinanzi agli occhi, ella diceva: — Ammazzami se ti piace, ma tutto è inutile, sai!... — Lo straordinario del rancore del quale adesso ella era oggetto, e ciò che rivela ancora una volta come l’amore sia qualcosa di più e di diverso dalle carezze, è questo: che i rapporti materiali fra il giovane e la Toscanina non erano punto mutati. Come prima, ella era di tutti continuando ad esser di lui; ma egli non poteva più ottenere ciò che prima gli era stato accordato: un pensiero, una parola, qualche cosa d’immateriale. E la Toscanina vide le lacrime che aveva profetate, e quella vista, invece di placarla, la rese maggiormente spietata; finchè, improvvisamente, chi sa perchè? senza che l’amante abbandonato avesse fatto nulla di più per riprenderla, ella tornò con lui come un tempo.
«Quante volte si rinnovarono queste rotture e queste riconciliazioni? Un brutto giorno tutto finì per sempre: Riccardo dovè tornare al suo paese e la Toscanina non lo rivide più. Le scrisse, nei primi tempi; poi le sue lettere divennero rare e cessarono del tutto. Adesso che non l’aveva più vicino, ella pensava all’amante perduto con un accoramento senza fine. Quel valzer, al suono del quale avevano scambiate le prime parole, la faceva piangere; la miseria della propria esistenza le pareva più grande, più sconfortata. L’acuto dolore passò; ma dopo parecchi anni ella non parlava d’altro che del suo Riccardo, raccontava a tutti noi le opinioni e i gusti di Riccardo, in qual modo Riccardo la chiamava nei suoi momenti buoni, quello che le diceva nei giorni di burrasca. Vedendo che io prestavo attenzione ai suoi discorsi, non mi risparmiò nulla, e la mia buona grazia nell’accogliere quelle confidenze mi valse la sua simpatia. Quando le chiedevo qualche cosa di Riccardo le facevo un piacere straordinario; quel giorno che la condussi in campagna, scrissi sopra un pezzo di muro bianco il nome di lei e quello dell’amico suo: sorrise di contento, esclamando: «Povero Riccardo! Chi sa a quest’ora dov’è... se si ricorda anche lui!...» Altri uomini le avevano voluto bene; ella non ricambiò nessuno come quel giovane. Un Inglese s’era invaghito di lei e l’aveva colmata di regali; la Toscanina diceva di questi: «Serviranno per impegnarli, quando non ci sarà di che mangiare.» Invece un braccialino, un tenue filo d’oro datole da Riccardo, non lasciava mai il suo polso. Del resto, come poteva ella credere al bene degli uomini se, quando il male l’aveva minacciata più gravemente, nessuno di coloro pei quali e lla era stata uno strumento di piacere, aveva pensato, non che ad aiutarla, ma neppure a dirle una buona parola?... Quanti avevano pianto, lasciandola; quanti avevano giurato di tornare da lei, di pensare a lei, di scriverle sempre! Erano scomparsi, e addio!... Ella non l’aveva con nessuno. Non mostrava la sua malinconia se non a chi le dimostrava un po’ d’interesse; nè la mostrava sempre; che anzi la sua fama era quella d’una ragazza piena di buon umore, fatta per aver posto in mezzo alle gioconde brigate. Soltanto, se qualcuno la stringeva alla vita, impallidiva un poco dalla pena. Ma della morte non aveva paura. «Non m’importa di morire; anzi, mi leverei da tanti guai! Che ci sto a fare? Morta io, ne resteranno tante altre!...» Ma subito dopo:
— Vorrei morir nella stagion dell’anno...
«E la storia di Margherita Gauthier l’affascinava. Correva al teatro quando c’era quello spettacolo, in prosa od in musica; e fra i suoi libri il più sgualcito era La Traviata ovvero La Signora dalle Camelie. Più che la sua bellezza veramente delicata, la sincerità di certi suoi sentimenti, l’innata bontà dell’animo e lo stesso male che covava nel suo petto la rendevano degna d’interesse. L’idea che veniva a molti, pensando a lei, era di poterla trarre da quella vita, di mandarla lontano, sui monti, in riva al mare, a curarsi, a guarirsi. Ti dirò che l’ebbi anch’io. E poichè ella comprese questa cosa, e poichè le avevo dato altre prove della mia premura per lei, credette di dovermi dire che sarebbe stata volentieri con me. Scherzando io osservai: «E Riccardo?...» Restò un momento imbarazzata, poi disse: «Ora non penso più a lui come prima; col tempo lo dimenticherei del tutto...» Io soggiunsi: «Ma non dicevi che il primo amore non si scorda più?...» — «Questo sarebbe il secondo...» ella mi rispose: motto veramente straordinario, sul quale il tuo Stendhal avrebbe scritto un volum e!...»