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LETTERE DI COMMIATO
La sua supposizione potrebbe anche essere, contessa mia carissima,
conforme al vero. L’amore è mortale, e la sua morte, quantunque
tristissima sempre, pure sarebbe sopportabile se avvenisse ad una stessa
ora nel cuore dei due amanti. Ma, per colmo di sciagura, questo
sincronismo è molto difficile, e più spesso la passione tramonta da una
parte quando ancora splende dall’altra; allora lo strazio di chi ama
senza più essere amato è troppo grande e veramente insopportabile. Ed
ella dice che il mio confidente, del quale le narrai ultimamente la
storia, sapendo queste cose, preferì cercare un qualunque pretesto per
trascurare la donna amata piuttosto che correre il rischio d’essere
trascurato da lei. Ripeto che la sua spiegazione è plausibile. Le
tempeste che si scatenano nel cuore degli abbandonati sono cosi
spaventose, che non è da stupire se un’anima veramente e delicatamente
amante finisca d’amare o si riduca ad amare come il più volgare egoista
pur d’evitare l’immenso pericolo. Io incorsi altra volta nel suo sdegno
sostenendo che gli uomini amano meglio delle donne: voglio ora
guadagnarmi la sua lode affermandole che, nell’abbandono, soffrono molto più le donne degli uomini. Ma forse noi attaccheremo un’altra volta lite
quando io le avrò spiegato che le due proposizioni, apparentemente
contrarie, sono in fondo, tutt’una.
Consideriamo infatti una coppia amante. Se con la cifra 10 esprimeremo l’amore complessivo di questa coppia, io dico che l’amore dell’uomo è rappresentato da 7, e quello della donna da 3 — meno della metà! — Or dunque, se quest’uomo perde un bel giorno — bello per modo di dire! — l’amore di questa donna, il suo dolore sarà grande, ma non tanto grande come quello che proverebbe invece la donna, se fosse costei abbandonata dall’uomo. Infatti, dato che l’uomo ami come 7 e sia riamato come 3, anche durante il tempo felice egli prova un secreto scontento ed è morso da un qualche dolore, perchè l’amor suo non è ripagato esattamente; perchè questa donna non è tanto sua quanto ei vorrebbe e quanto egli stesso è di lei. Nel perderla del tutto il suo dolore cresce senza dubbio oltre misura; pure egli non è stupito; egli è quasi preparato alla perdita di una creatura che non ha mai sentita tutta sua. Per averla — in parte! — egli ha dovuto pregare, supplicare, tendere la mano: ella gli ha fatto quasi un’elemosina; il mendico cui il ricco, fino a un certo segno generoso, non vuol più fare la carità, è forse stupito di non avere più come sfamarsi? Egli torna quasi rassegnatamente al suo destino, che è l’indigenza!... Se noi consideriamo invece la donna, vediamo che le cose stanno precisamente al contrario. Costei ha visto sempre l’uomo, tutti gli uomini, pregare, supplicare, tendere la mano: come potrà rassegnarsi a essere trascurata e sdegnata? Quest’idea non entra nel suo cervello. Poichè amando come 3 ella è ripagata d’un amore come 7, la sua soddisfazione — di vanità più che d’amore, ma la vanità importa più che l’amore! — è stata immensa; ella non può prevedere che il sovrabbondante amore di quest’uomo abbia a un tratto da ridursi minore del suo e da cessare del tutto. Abbandonata, pertanto, ella darà in ismanie convulsive, e molto difficile sarà l’opera di chi vorrà sedarla. La duchessa di San Severo riuscì una volta in quest’ufficio; e per non insistere nelle teorie che ella rifiuta di ammettere le voglio narrare piuttosto la storia.
Emilia di Sclafani, spinta alla colpa da un serpente del quale non so se ella più si rammenta, fu un giorno tradita e congedata dall’amante suo. La duchessa di San Severo se la vide venire dinanzi come una pazza, e dire e far cose da pazza: piangere, gridare, ridere, imprecare, mordersi le mani, strapparsi i capelli. La vecchia dama, che ha molta esperienza, lasciò che il primo impeto del dolore si sfogasse; poi, quando l’altra apparve, non dirò più tranquilla, ma stanca, le domandò:
— Che pensate dunque di fare?
Emilia, rimasta a capo chino, con gli occhi immoti come attirati magneticamente da qualche visione, con le mani strettamente afferrate ai bracciuoli della poltrona, si scosse a un tratto con un brivido e un sibilo, portò la destra alla fronte e rispose:
— Lo so io, forse? Ho una tempesta qui dentro... Sento che mi picchiano sulla fronte, sulle tempie, sul cranio, ferocemente, spietatamente... La febbre mi brucia... Mi par d’impazzire...
— Suvvia, coraggio!... — esclamò la dama scotendo un poco la sua bella testa tutta bianca, con un’espressione piena d’indulgente compatimento, come dinanzi all’irragionevole cordoglio d’una fanciulla inesperta. — Fatevi animo!... Non è poi cascato il mondo!... Sapete che non vi riconosco?
— Se non mi riconosco neppur io stessa!... Se tutto mi manca d’intorno! Se non vedo più uno scopo alla mia vita! Se qualcosa si è spezzato nel mio cervello, nel mio cuore, in tutto l’esser mio!..... Calma? Coraggio? Ho cercato d’averne. Ho detto a me stessa, precisamente, che il mondo non è poi cascato. Ho pensato ad altri dolori, un tempo creduti inguaribili, ed ora dimenticati a segno da ridere della loro cagione; mi son vista con gli occhi della mente di qui a qualche mese, uscita sana e forte d ella triste prova, forse anche contenta che tutto sia finito così. Ho chiamato a raccolta tutta la mia ragione, tutta la mia esperienza, per convincermi che non bisogna chiedere alla vita, all’amore, alle creature umane, più di quel che possono dare. Ho detto a me stessa: «Credevi tu dunque davvero che quest’uomo t’avrebbe amata eternamente? Che cosa c’è d’eterno in noi? Non hai tu sorriso degli affidamenti superbi? Poni una mano sulla tua coscienza: alla lunga, non avresti finito d’amarlo anche tu? Sii ancora più sincera: non cominciavi a sentirti già stanca?...
— Brava! — interruppe l’altra, approvando insistentemente con una mossa del capo — Brava, questo si chiama farsi una ragione...
— Ho pensato tutto ciò ed altro ancora... Mi sono affacciata alla finestra, ho considerato un istante la calma sovrumana di questa sublime natura, delle Alpi nevose imbiancate dalla luna, del lago terso ed immobile come una lastra, delle miriadi di stelle splendenti da miriadi di secoli nell’etere infinito. Ho compreso, nel tempo d’un baleno, la vanità di tutto ciò che è umano, dei dolori, delle gioie, delle passioni dalle quali sono travagliati questi atomi agitantisi un attimo sopra un granello di sabbia; ho visto sparire me stessa, l’umanità, tutta la terra, nel turbine formidabile che soffia sulla polvere dei mondi... Ho bevuto avidamente l’aria fredda, ho richiuso la finestra, sono andata al tavolino, e gli ho scritto una lettera.
— Che cosa gli avete detto?
L’altra parve non aver udito. Restava ancora assorta, come prima, guardando dinanzi a sè; e nel rilassamento dei muscoli del viso, nella piega sottile degli angoli delle labbra, si leggeva una tristezza così profonda, una contemplazione così sconfortata di qualcosa di pauroso e d’ineluttabile, che la duchessa non ardì ripetere la sua domanda. Emilia si riscosse alfine e riprese:
— Ho scritto una lettera, non l’ho mandata. Non so neppure se potrò rileggerla per ricopiarla..... Guardi, piuttosto...
Tratto di tasca un minuscolo taccuino di cuoio rosso e tolto il piccolo portamatita d’oro che lo chiudeva, ella voltò alcune pagine, fermandosi ad una che era ricoperta non tanto di caratteri quanto di segni informi tracciati con rapida mano.
— Che notte è stata per me!... — esclamò, a bassa voce, guardando quel foglio e come rispondendo ad un intimo pensiero. Poi, volgendosi alla duchessa: — Avrà la pazienza, — le domandò, — d’aspettare che io decifri questa lettera?... Io gli ho scritto così: «Mio buon amico... Anche ora, e come sempre, voi avete ragione. Vi rammentate quante volte mi ripeteste queste parole, nel corso delle discussioni che sorgevano un tempo fra noi?... Adesso sono cambiate le parti e tocca a me riconoscere che la ragione è con voi! Vedete che sono giusta, e che le vostre adulazioni di un tempo non m’hanno guastata. Mentirei se vi dicessi che questa saggezza non mi costa nulla; ma mi dorrebbe egualmente che aveste a provare un rimorso per ciò. La ragione ha spesso qualche ostacolo da vincere prima di farsi accettare; ma, in cambio, il suo riconoscimento procura sempre allo spirito un senso di forte serenità... Io non so precisamente che cosa sono stata per voi — potrei, è vero, rammentarvi tutto quel che me ne avete detto voi stesso; — ma parrebbe allora che io mi lagnassi, e nulla è più lontano dal mio pensiero. Comunque, voi forse rammenterete, qualche volta, senza troppo pentirvene, le ore che passaste al mio fianco; da parte mia ne serberò sempre un dolce ricordo. È vero altresì: quella felicità avrebbe potuto durare più a lungo; ma ciò non era in potestà vostra nè mia. Bisogna accettare la vita com’è, con tutte le sue leggi; e stimarsi fortunati se, fra i tanti giorni vuoti, fra i molti amari, essa ce ne concesse qualcuno di gioia. Grazie a voi io ne ho visti sorgere molti, più di quanti potevo ragionevolmente aspettarne; fate assegnamento sulla mia più sincera gratitudine. Fate assegnamento ancora sulla mia amicizia più fedele: giovatevi di me sempre che potrò esservi utile, e credetemi, con una cordiale stretta di mano...»
— Benissimo! — interruppe vivacemente la duchessa. — Mi piace la vostra lettera, sapete! È la lettera d’una donna che sa vivere, che conosce la vita!...
— A qual prezzo? — disse l’altra con un ambiguo sorriso. — A prezzo di quanti dolori?... E si può dire di conoscerla mai abbastanza?... Perchè, guardi, questo è il suggerimento della logica, del buon senso; ma se io l’amo ancora quell’uomo? Se il cuore mi sanguina, rileggendo queste fredde parole, queste frasi studiate, dopo le lettere pazze che gli scrivevo fino all’altr’ieri? Se non posso, non posso rassegnarmi all’idea di perderlo, dopo quel che mi costa, dopo quel che siamo stati l’uno per l’altra? Ma non è vero che io prevedessi di non poterlo più amare, non è vero che io fossi già stanca; se pensai così fui sciocca, fui stolta, perchè non potevo giudicare della forza di un amore non ancor messo alla prova...
— Badate: qui sotto potrebbe nascondersi quell’illusione molto frequente che consiste nell’apprezzare una cosa per il solo fatto d’averla perduta.
— Illusione, realtà: dove cominciano? dove finiscono? — disse la giovane, voltando un foglio del suo taccuino. — Vi sono certe realtà delle quali neppur ci si accorge, e certe illusioni che ci mantengono in vita.... Io sento di non poter vivere senza quest’essere che è stato tanta parte, la miglior parte di me. Io sono impegnata da un giuramento, ed egli pure.... È una cosa sacra, il giuramento; non si può calpestare così. Ho il dovere di rammentarglielo; egli mi ascolterà, perchè ne soffre anch’egli! Io non sono stata eloquente abbastanza; se ha rifiutato di cedere, il torto è mio che non ho saputo assicurarlo della forza di quest’amore. Forse in questo momento, mentre mi struggo per lui, anch’egli anela di rivedermi, anch’egli vorrebbe chiamarmi. Un senso di falso amor proprio ci ha trattenuti: una sola parola basterà a dissipare quest’incubo.... «No....» continuò Emilia, riprendendo a leggere nel suo taccuino, «non è vero, non è possibile che tu m’abbia detto quelle parole. Certe volt e i sogni hanno l’intensità della vita vissuta: io ho sognato. Tu sei sempre l’amor mio forte e soave; se anche volessi, non potresti, intendi? lasciarmi. Tu hai dimenticato un momento quel che sono stata per te; ricordati, vedrai se ho ragione! Tu m’hai detto, colle tue labbra, che io sola t’ho compreso, io sola t’ho compianto, io sola ho cancellato i tuoi lunghi dolori, io sola ho compensato le tue infinite amarezze, io sola ti ho fatto pianger di gioia. Tu non me l’hai detto soltanto: io ho visto le tue lacrime, io ho pianto con te. Tu hai voluto riscattare col tuo sangue il mio pianto; ora, comprendi, quando ciò è avvenuto fra due creature, esse non possono dividersi più. Vedi bene che noi siamo legati per la vita e per la morte, come tu mi giurasti, com’io ti giurai. Ed ascolta: vienimi accanto, metti la tua mano nella mia, reclina il tuo capo sul mio petto: ti ricordi quante volte, restando così, tu mi chiedevi di dirti che cosa eri per me, com’era fatto il bene che ti volevo? Ti ricordi come t’aprivo il mio cuore, come pensavo a voce alta; e come t’estasiavi a quelle prove d’amore che tu stesso mi suggerivi, senza avvedertene? Ebbene: nessuna di quelle prove era seria, nessuna aveva valore: la prova vera, la prova grande, la prova unica io posso dartela ora, amandoti ancora, amandoti più dopo quel che m’hai fatto: ora soltanto tu puoi credere a questa passione e andarne superbo. Quante volte m’hai fatto giurare che non avrei mai avuto secreti per te! che t’avrei mostrato sempre tutti i moti più intimi del mio cuore, tutti i miei pensieri più reconditi! Vedi dunque che tu devi sapere quel che provo ora: lascia che te lo dica; farai, dopo, quel che vorrai; mi lascerai ancora, se ti piacerà.... No; tu non farai così.... Ascolta ancora. Se tu hai riacquistata la tua fede unicamente per me, io sola, fra quanti ti circondano, ho creduto in te. Non lo sai? Dicono che i tuoi sguardi sono falsi, che le tue labbra mentiscono, che l’anima tua è corrotta.... Io sola ho creduto ad ogni tua parola; non è vero che io sola ho letto in fondo al tuo limpido sguardo? Che cosa sanno gli altri di quello che so io? Ma non fare che anch’io disperi di te; non disperare tu stesso: sarebbe troppo triste, troppo malvagio. Provami ancora una volta che ho avuto ragione, abbii fede in te stesso!... No; non mi dar retta! Ho avuto torto di scriverti queste cose. Ma se non so più quel che dico!... Ah! potessi vederti un istante!... Non ti direi più nulla; credo che morirei ai tuoi piedi.... Una volta io ti dissi: «Come sai bene pregare!...» Ti ricordi quando te lo dissi?... Ebbene, oggi son io quella che ti prega: io ti supplico, ti scongiuro, in nome di Dio, dell’amor nostro, di tutto quel che hai di più caro al mondo, per i tuoi stessi dolori che io ho divisi, per la memoria dei tuoi poveri morti che io ho amati, per la morte che può cogliere d’istante in istante noi stessi, ti scongiuro di non abbandonarmi, di ascoltarmi.... di lasciare, almeno, che io pianga un’ultima volta al tuo fianco....»
La voce della giovane tremava un poco; il suo sguardo velato si distoglieva dalla carta, intanto che la duchessa, visibilmente commossa anch’ella, esclamava:
— Come l’amate!
Ma a quelle parole, come quando una brezza sottile increspa la superficie delle acque, la fisonomia di Emilia si venne corrugando fino ad atteggiarsi ad una sottile ironia.
— Come l’amo!... — ribattè ridendo. — Vuol dire come sono sciocca!... Deve bene trionfare costui, è vero? vedendo la mia disperazione; deve ben sorridere di vanità soddisfatta!... Il suo amor proprio sarà, senza dubbio, gradevolmente solleticato dallo spettacolo del mio cordoglio....
— Allora il vostro amor proprio s’impenna....
— Allora la mia tenerezza, la mia sommessione, la mia fiducia, tutti i miei buoni movimenti sono dispersi dallo sdegno, dall’odio, dal bisogno feroce di dirgli in faccia che non so che farmi di lui, che egli s’inganna stranamente se ha creduto al mio dolore!
— E dopo la lettera d’implorazione, ne avrete scritta un’altra di sprezzo...
— Ciò che ho scritto è appena la millesima parte di ciò che ho pensato. Ella si stupisce delle mie contraddizioni? Non le pare possibile che io passi dalla ragionevole rassegnazione alla passione disperata, dall’umile preghiera alla rivolta sdegnosa?...
— Non mi stupisco affatto: nulla di più umano che la contraddizione e l’assurdo.
— Io sento dentro di me dieci, cento donne diverse, una moltitudine di esseri ciascuno dei quali vorrebbe operare a sua guisa. E il più strano è che tutte costoro non parlano già ad una per volta, ma insieme! Lo scritto ha il torto di non far vedere questo tumulto...
— Consolatevi pensando che anche la parola sarebbe impotente.
— È vero! La nostra mente è un abisso!.. Io dovrei dunque implorare costui, per dargli la soddisfazione di respingermi ancora? Ma è una cosa ridicola! Qual donna al mondo ha mai pregato un uomo così? Io potrei implorarlo se fosse un altro, se non fosse una creatura malvagia e bugiarda. Perchè hanno ragione gli altri; e la sciocca son io! Come ho potuto prenderlo sul serio e soffrire tanto per lui? Ed egli avrà riso di me!... Ma se non l’amavo più! Se ero così stufa da non saper che inventare per evitarlo! Se non l’ho amato mai!
— Oh, questo poi...
— Ma sì, ma sì!... Anche al tempo del nostro idillio io ridevo talvolta fra me delle mie declamazioni! Allora soffocavo le risa; ora esse soffocano me! Ora ho bisogno di prendere la mia rivincita! Ma quel che ho tentato di scrivergli non può dare la più lontana imagine di quel che mi ribolle dentro...
— La vostra lettera dice?...
— «Caro signore, le sono oltremodo obbligata della iniziativa da lei presa, tanto più che m’ha risparmiato il fastidio di prenderla da me. La buffa commedia che abbiamo rappresentata insieme minacciava di finire tra le fischiate della platea: era proprio tempo di smettere. Non è da dire per questo che essa non m’abbia dato un bel da fare! Mi sono, come si dice, stillato proprio il cervello per mettermi nei panni del mio personaggio; ho soffocato una quantità prodigiosa di sbadigli per mantenere un contegno decente; e il più comico è questo: che m’accorgevo benissimo di sprecare le mie fatiche, perchè ella sbadigliava senza tante cerimonie, spalancando talmente la bocca, soffiando così forte, che era, anzi non era un piacere vederla. Ella per il primo non credeva a ciò che le dicevo: è stata una delle rare prove di spirito che m’abbia date. Gli elogi della gente l’hanno guastato, caro signore; ella s’è formato, intorno ai suoi mezzi, un concetto, mi consenta di dire, molto esagerato. Oramai ci conosciamo intus et in cute, si scrive così? e non abbiamo più nessuna ragione d’ingannarci scambievolmente. Il suo spirito è, creda pure, molto inferiore all’opinione che ne ha ella stessa; riconosco però che ne possiede abbastanza, e spero che ne mostrerà ancora un poco nella circostanza presente, non credendo neppure alla scena che le recitai l’altro giorno. Mi premeva di fare certe osservazioni, volevo verificare certi miei antichi convincimenti: addebiti a tutto ciò la mia soverchia insistenza. Non importa: debbo averle fatto l’effetto di una famosa seccatrice! Questo pensiero la conforti: che non sarò mai più tentata di occuparmi di lei — glie ne do parola d’onore! Del resto, se l’ho seccata, debbo anche averla fatta ridere un numero infinito di volte; sono però in dovere di aggiungere che il ricordo di certe sue sciocchezze allieterà i miei giorni più tardi... Probabilmente questa mia lettera le parrà poco sentimentale: ma le sentimentalità, signor mio, sono una cosa, e la verità è un’altra. La verità è che ella m’ha dato ciò che poteva darmi, e che io l’ho pagato abbastanza. Adesso ciascuno proseguirà per la sua strada. Si diverta sempre — e le nostre menzogne ci siano rimesse!...»
— Eh!... non c’è mica male!... — esclamò la duchessa con un fine sorriso.
La giovane rimase un poco a capo chino, senza dir nulla; poi, passatasi lievemente una mano sulla fronte, disse, molto piano:
— Ma sa lei che cosa ho provato nello scrivere questa lettera?... Che cosa provo adesso dopo averla riletta?... Un secreto scontento, un pentimento addolorato, quasi un rimorso. Mi par d’avere, con sacrilega mano, profanato tutto quel che c’era di più puro in fondo al mio cuore. Io potrò accusare quest’uomo, io potrò disistimare la creatura che si è rivelata improvvisamente in lui; non potrò dimenticare le divine commozioni che m’ha procurate. Comunque egli sia fatto, è stato per me l’oggetto di un culto; qualcosa delle virtù che gli ho attribuite è rimasta in lui, come qualcosa della santità che i feticisti vedono nell’idolo di cartone resta in esso e lo sottrae alla derisione degli stessi miscredenti... Poi, io penso che quest’uomo, come tutti gli altri, non è responsabile di quel che fa; penso che forse ne sarà punito, un giorno, più crudelmente che io oggi non possa imaginare... E tutto quel che c’è di buono in me protesta contro i propositi di vendetta, m’ispira invece una grande compassione per quest’anima ammalata... Senza tornare ad illudermi sul prezzo che ha potuto dare all’amor mio, penso che non sono stata per lui un’indifferente, che egli ha avuto fede, almeno per qualche tempo, nelle mie parole. Allora giudico che sarebbe degno di un’anima non volgare il dimostrare come, nonostante i torti ricevuti, di questa fede si voglia sempre essere meritevoli...
— In altre parole, voi volete fargli vedere che siete migliore di lui!
— Sarà forse questo il secreto movente: che importa? Una buona azione non diventa già cattiva perchè ci torna comodo compierla...
— Certamente! Così avete abbozzato un’altra lettera ancora?
— Sì, ed è questa... — Sfogliato il suo taccuino, la giovane riprese a leggere: — «Voi non volete più rivedermi: parto oggi stesso. Ho l’anima straziata; se voi poteste soltanto imaginare quello che soffro, vi farei molta pietà. Tuttavia, qualunque sia il male che voi m’abbiate fatto, vo’ dirvi, prima di lasciarvi, che non vi porto odio o rancore. La mano che oggi colpisce è la stessa che un giorno si distese a soccorrermi; non potrò dimenticarlo mai. Non vi dico questo per intenerirvi: nessuna speranza mi sorregge, capisco bene che tutto è finito, per sempre. Come sarà triste la vita che comincerà domani per me! Come potrò sopportare il ricordo dei giorni luminosi nell’oscurità che m’aspetta?... Sarà di me quel che vorrà Dio — e perdonatemi ancora questo momento di commozione. Se l’avvenire è incerto per me, potrà anche darsi che ore dolorose vengano per voi: un giorno potrete aver bisogno di qualcuno che vi stia al fianco, che stringa la vostra mano, che v’infonda coraggio. Io desidero ardentemente che questo giorno non sorga; ma, se dovesse arrivare, ricordatevi di me. Dovunque io sia, venite: nulla potrà impedirmi di accogliervi come s’accoglie un fratello...»
— E’ bello ed è nobile ciò che voi avete scritto! — disse la duchessa. — Però, se nel vostro cuore si combatte una così fiera battaglia, quale di queste lettere vi risolverete a spedire?
— Lo so io, forse? — ripetè la giovane. — Se fossi capace di decidermi non ne avrei scritte tante!... A lei stessa, mia buona amica, io ardisco chieder consiglio...
La vecchia signora fece con la mano un breve segno di rifiuto.
— Non è un argomento intorno al quale se ne possano dare.
— Perchè? Io sono ridotta, non vede? in tale smarrimento d’animo, che non so più discernere da me la via giusta: una parola suggeritami da una persona superiore come lei mi toglierebbe da questa dolorosa incertezza, mi farebbe un gran bene...
La duchessa restò un poco in silenzio; poi, guardando negli occhi la sua compagna, le domandò:
— Allora, voi farete quel che vi dirò?
— Può esserne certa.
— Ebbene: se non vi dispiace, riassumiamo in poche parole la vostra situazione. Voi siete stata abbandonata da un uomo. L’avete amato, ma cominciavate ad essere stanca di lui; dopo la rottura la vostra passione si è ridestata. Voi avete scritto quattro lettere che definiscono i principali sentimenti cozzanti adesso nel vostro cuore: in una vi rassegnate filosoficamente, in un’altra implorate con grande calore, la terza è l’espressione della sprezzante ironia, l’ultima d’una tenerezza pietosa e disinteressata. Va bene?
— È così.
— Però, scrivendo tutte queste lettere una secreta idea vi ha guidata: quella di vivere ancora nel cuore o nella memoria di quest’uomo, di produrre un’impressione nell’animo di lui, di obbligarlo a ricordarsi di voi, per ammirarvi, per rimpiangervi. Ora voi volete sapere da me in qual modo potrete raggiunger meglio l’effetto.
— Può darsi che sia per questo; ma siccome, qualunque di queste lettere io manderò, è quasi certo che sarò lasciata senza risposta, imagini che si tratti di prender commiato soltanto.
— O per prender commiato, o per quell’altra ragione, il partito è uno solo.
— Quale lettera debbo dunque mandare?
La vecchia dama rispose:
— Nessuna.