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OMISSIONI
avranno torto, avranno ragione, saranno scusabili o no di rigettarsi a vicenda i torti come le palline in una partita di lawn-tennis; ma tra loro non potrà esserci accordo. Non è possibile che due esseri fatti diversamente pensino e operino a un modo. Se all’amore furono sempre innalzati inni di gioia trionfale come al sommo bene, alla massima dolcezza, all’unica felicità, la medaglia ha un rovescio, e chi volesse mettere insieme tutti i sospiri di dolore e le grida di maledizione che questa passione ha strappato nei secoli al genere umano, ne farebbe un libro altrettanto grosso quanto quello degli inni. C’è un momento nel quale gli amanti s’accordano, e il piacere in questo momento è infinito; e l’infinito piacere pare che compensi le pene innumerabili; pare, perchè il fugacissimo e alato attimo dell’accordo è pagato con un dissidio interminabile. E, come abbiamo visto, il dissidio comincia troppo presto, comincia con lo stesso amore, è suo gemello. La resistenza delle donne alle ardenti e supplici sollecitazioni degli uomini è molto penosa. Non solamente questi uomini soffrono per non ottenere l’appagamento della spasimata brama; ma anche perchè l’inutile implorazione lede il loro amor proprio e quasi la loro stessa dignità. Quest’idea di doversi umiliare supplicando è talmente incresciosa, che può persino impedire d’amare.
Si rammenta ella di quel sognatore, del quale narrai altra volta la storia, famoso per aver fatto reiteratamente e per motivi molto speciosi, il gran rifiuto? A proposito di costui, ricevetti un giorno una lettera di un anonimo lettore il quale, per dimostrarmi che le gesta tutte passive del mio protagonista non sono poi tanto rare, mi narrava che anch’egli aveva più d’una volta, sotto l’impero di certe sue ragioni, omesso d’amare. Questa lettera voglio oggi riferirle perchè fa al caso nostro.
Mi confessava dunque l’anonimo mio corrispondente che spesso, sul punto d’accendersi di qualche bellezza, la previsione delle repulse immancabili lo gelava subitamente. — «Siano queste repulse dettate da un sentimento sincero o siano finte, l’idea di doverle affrontare m’è grave egualmente. Se la donna ch’io sto per sollecitare d’amore mi resiste perchè è veramente fredda, perchè non ama come me, io penso d’avere mal riposto l’amor mio in una creatura insensibile; se, al contrario, la sua resistenza è mentita, io penso che non merita l’amor mio una creatura bugiarda... Certamente gli altri uomini non ragionano così: essi sperano d’infiammare la insensibile e sono certi di confondere la mentitrice; ma, per arrivare a questo risultato, bisogna sopportare le repulse, tornare ad insistere, affrontare nuovi rifiuti, inchinarsi ancora e sempre; e il mestiere del seduttore somiglia allora troppo a quello dei sensali, dei commessi viaggiatori, degli agenti d’assicurazione che voi congedate infastiditi dalle loro offerte, e che tornano nondimeno imperterriti ad annoiarvi. Questo pericolo è immancabile se io sollecito d’amore una donna fredda. Ed io rinunzio alle sollecitazioni perchè temo di riuscire importuno e noioso. Se questa donna non capisce il mio ardore, gli appassionati miei atteggiamenti non le sembreranno, per soprammercato, ridicoli? Ella forse non riderà troppo, è vero, di un desiderio che, se pure non le dice niente, solletica quando non altro la sua vanità; ma l’eccitazione della vanità sua è tutta a costo della dignità mia! E quando mi trovo dinanzi ad una che finge, debbo io darle questa soddisfazione di umiliarmi perchè la sua menzogna trionfi ed ella si prenda secrete beffe di me?...»
Il ragionamento di costui potrebbe parere stravagante se non fosse giustissimo, e forse molti uomini, per non dire quasi tutti, lo fanno; ma poi il timore di riuscire importuni, di umiliarsi, d’esser beffati, cede all’impeto del desiderio. Perchè questi timori impediscano alla passione di nascere, bisogna avere — ed io sarei curioso di vedere se la mia diagnosi è giusta — una costituzione molto sensibile, capace d’esagerare, con l’aiuto d’uno spirito un poco sofistico, i più piccoli moti dell’animo e di opporli ai maggiori; bisogna anche avere una buona dose, come dirò? di timidità. Tuttavia, se gli uomini normali non arrivano, come il mio corrispondente, all’omissione, si mantengono, per le stesse ragioni alle quali egli dà un peso eccessivo, in un prudente riserbo. Prima di mettersi sul serio a desiderare una donna vogliono tastare, per modo di dire, il terreno; e non si arrischiano se non quando comprendono di poter riuscire. C’è qui, senza dubbio, un calcolo, operazione che ella giudica prosaica e indegna d’un vero amante, e che sarà anche come ella dice; ma della quale chi la compie si trova sempre molto bene. Mettersi a spasimare dietro alla prima venuta, senza sapere se costei potrà e vorrà rispondere all’amor nostro, è molto imprudente. C’è anche un altro sentimento che impedisce queste brusche accensioni, un sentimento del quale le confesso che non avevo notizia prima che l’anonimo mio corrispondente mi scrivesse la lettera della quale le ho riferita una parte. Mi dice dunque costui che molte volte egli ha rinunziato all’amore per educazione.
«Quando noi abbiamo fame la buona creanza ci impedisce di buttarci sul cibo, c’insegna a contenere, a moderare il nostro bisogno, ci vieta di darne spettacolo. Se siamo soli ci sfamiamo senza tanti riguardi; ma in società, dinanzi alle persone che non sanno il nostro tormento, dobbiamo frenarci. Dinanzi alle donne che non capiscono o giudicano esagerata la nostra fame d’amore, un istinto che ho chiamato di educazione e che non merita veramente altro nome, frena in me l’altro istinto. L’impresa è tanto più facile, quanto che la fame d’amore non è così ardente come quella del cibo... Io temo di non avere forse bene spiegato la particolare natura di questo mio scrupolo. Vi darò un altro esempio. Supponiamo che voi siate, come me, goloso di confetti, e che entriate nel salotto di una signora la quale ne ha dinanzi a sè piena una scatola. Che cosa fate? Allungate la mano per prenderne? Mai. Ne chiedete? Sì, talvolta, se siete in dimestichezza con la dama. Se la conoscete da poco, se non avete la sua confidenza, che fate? Aspettate che ella stessa ve n’offra. Così vuole il galateo. L’abitudine di rispettare queste convenienze m’impedisce molte volte di chiedere l’amore e mi consiglia d’aspettare, non che mi sia precisamente offerto — cosa difficile, anzi impossibile e quasi assurda data la costituzione femminile — ma che almeno mi sia consentito di chiederlo...»
Una delle accuse, cara contessa, che ho spesso sentito muovere da lei alla società moderna è motivata da quell’affettazione di sgarbatezza con la quale gli uomini d’oggi trattano le donne. Ella è in buona compagnia. Non solamente tutte le donne, ma anche molti uomini rimpiangono i bei tempi dell’antica galanteria, la cavalleresca reverenza che faceva piegare i ginocchi ai giovani, ai vecchi, ai grandi della terra dinanzi alla più umile gonnella. La donna era una cosa regale e sacra, l’oggetto di una specie d’iperdulia. Trattarla da pari a pari, o peggio dall’alto in basso, pareva una mostruosità. Tutti i giorni, per le strade, sui marciapiedi, noi vediamo i giovanotti, con le mani in tasca, il sigaro in bocca, soffiare il fumo sotto il naso delle passanti, non cedere loro il passo, non cavarsi il cappello; noi vediamo tutte le sere, al ballo, i cavalieri non più pregar le dame di accordar loro una danza, ma le signore e le stesse signorine costrette a supplicare i giovanotti perchè si decidano a muovere le gambe. La nicotina è preferita al ballo ed agli amabili ragionamenti. L’uso del tabacco segna un’èra di decadenza nella storia dell’amore. Io ho un amico che non va in casa d’una bella signora e che ha rinunziato a farle la corte e, molto probabilmente, ad ottenerne i favori, perchè da lei non si fuma... Alcuni, considerando che questi costumi datano dal principio del secolo, ne rovesciano la colpa sulla democrazia che, non soffrendo nessuna regalità, ha buttato giù dal suo trono anche la donna; altri se la pigliano col positivismo del nostro tempo, con la scienza che minaccia d’uccidere, dicono, la poesia. Io direi che nè la scienza nè gl’immortali principii dell’Ottantanove abbiano da rispondere del nuovo delitto; neanche mi pare che ci sia delitto, ma semplicemente reazione. Gli estremi si toccano, dice il motto. L’eccesso della reverenza accordata alle donne doveva naturalmente produrre presto o tardi un eccesso contrario. Poichè ne avevamo fatto una religione, dovevamo presto o tardi aspettarci lo scisma e l’eresia. L’idolo non poteva restare sempre sugli altari, la ragione doveva dire che l’oggetto dell’iperdulia era una creatura debole e misera più dei fedeli adoranti:
La femme, enfant malade et douze fois impur...
Dalla prepotenza e dalla ferocia con la quale il maschio barbaro trattava la donna, noi passammo alla soggezione di Don Chisciotte per Dulcinea; il ridicolo che fece cadere la cavalleria errante doveva pure coinvolgere la cavalleria galante; allora un Alfredo de Vigny doveva cantare:
Une lutte éternelle, en tout temps, en tout lieu,
se livre sur la terre, en présence de Dieu,
entre la bonté d’homme et la ruse de femme,
car la femme est un être impur de corps et d’âme...
Ma se oggi gli uomini si comportano verso le donne con troppo mal garbo, giova sperare che un giorno le tratteranno come meritano, senza cortigianesca viltà e senza volgare arroganza.
O come mai, chiedo ora a me stesso, sono venuto dettando questo bellissimo squarcio di sociologia erotica? Ah, ecco: volevo dire che nell’amore, ai nostri giorni, si può vedere da parte degli uomini una tendenza a mutare l’ufficio assegnato ai sessi dalla natura. Le donne che devono naturalmente essere sollecitate, dovrebbero invece prendere l’iniziativa. Lo scrupolo di buona creanza del mio anonimo corrispondente, l’ostentata freddezza della gioventù moderna che fa così poche spese di galanteria e che affetta di non dar prezzo all’amore e di non sospirarlo, anzi di soffrirlo con una certa annoiata rassegnazione, sono veramente sinceri? È incredibile. Ciò che la natura ha voluto, niente potrà distruggerlo. Ma la natura ha voluto una cosa alla quale la ragione tenta di ribellarsi. Gli uomini respinti, non compresi dalle donne, pensano di reprimere il loro impulso. Stanchi di dover corteggiare, accavalcano una gamba sull’altra e aspettano che le signore vengano a corteggiarli. Una volta per uno non fa male a nessuno...
E il male è appunto questo: che spesso il giuoco riesce. Le donne hanno torto di lagnarsi d’un danno al quale esse medesime contribuiscono. Tra chi le supplica e chi finge di sdegnarle non scelgono esse lo sdegnoso? Per piegarlo, per convertirlo, per avvincerlo, non gli concedono ciò che negano al devoto della cui devozione vivono sicure? E allora si spiega la sentenza che Hans Ruthe dette una volta a un suo giovane amico.
Questo Ruthe è l’uomo più fortunato in amore ch’io abbia mai conosciuto: si chiama Hans e possiamo chiamarlo proprio Don Giovanni. La sua fortuna è meritata, perchè non solamente egli è molto avvenente, ma quanto piacevole è la sua persona altrettanto grande è il suo ingegno e — nonostante una certa affettazione di scetticismo — buono il suo cuore. Ma vi sono molti uomini che, pure avendo le sue doti, non possono vantare la lunga serie dei suoi felici successi. Qual è dunque il suo secreto? Con quali argomenti trionfa? Che cosa dice alle donne perchè nessuna gli resista?
— Niente! — rispose egli all’amico che l’interrogava a questo proposito. — Il miglior mezzo d’ottenere è non chiedere.
Come tutte le altre sentenze umane, anche questa è suscettibile d’essere capovolta. Un proverbio dice: Chi non risica non rosica. Proprio accanto ce n’è un altro che ammonisce: Chi va piano va sano e va lontano. Un filo di coltello separa la verità dal paradosso: chi non lo vede ci si taglia. Per ottenere bisogna chiedere. E gli uomini che non chiedono l’amore ma aspettano che sia loro offerto, ne otterranno, sì; ma di che qualità?