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Un’intenzione della Duffredi
La Certezza L'Indovinello

UN’INTENZIONE DELLA DUFFREDI


Contessa mia,


S
ia lodato il sommo Iddio! Finalmente ci siamo posti d’accordo! Ella

approva pienamente la condotta della signora di cui le narrai nell’ultima mia lettera la curiosa avventura e riconosce che quel capitano, degno soltanto di compassione se avesse atteso al suo mestiere guerresco — ma non avrebbe potuto sceglierne, in verità, uno più adatto alla nativa mitezza dell’indole sua? — fu degno dello schiaffo somministratogli dalla donna troppo idealmente amata.

Ella conviene espressamente con me sul significato di quel fatto; anzi — sia onore al suo spirito — istituisce in proposito alcuni paragoni molto, come si dice, calzanti: «La castità del vostro capitano,» (perchè mio, poi?) «somiglia al nobile disdegno della volpe per l’uva alla quale non poteva arrivare. S’intende,» ella soggiunge, «che non c’è merito se non c’è sforzo, e quando si parla di resistenza agli istinti, la prima cosa è che gl’istinti operino; come quando voi volete fare un intingolo di lepre dovete cominciare col prendere una lepre.»

Bene! Benissimo! Mi consenta tuttavia di farle osservare che la quistione era un’altra e che, per colpa senza alcun dubbio mia, ora essa mi pare vicina a fuorviare. Il punto dal quale partimmo è questo: le realità dell’amore, alle donne che danno a intendere di non apprezzarle, sono infatti così indifferenti come esse dicono? Che, nonostante l’innegabile loro calma, esse esagerino un poco nelle dichiarazioni d’indifferenza, io ho tentato di provarle; ora questo appunto ella negava. Forse, anzi certamente neppur ora si arrenderà. Ella già dice che l’avventura del capitano non prova niente, già mi butta il suo guanto sfidandomi a una più luminosa dimostrazione; ed io mi precipito a raccogliere il morbido e odoroso involucro della sua bella mano. Se vinco, me lo lascia come trofeo?

Diciamo dunque — o meglio dico io soltanto, per ora — che queste benedette realità non sono poi tanto disprezzate nel fatto quanto a parole. Certo, il primo patto che quasi tutte le amate pongono ai loro amanti è di contentarsi... delle sole parole. Questa è una cosa tutta istintiva; è la naturale riluttanza della femmina a cedere; riluttanza notabile in tutta la scala animale. Nella prima fase, adunque, la resistenza è proprio sincera. È sincera fino all’ultimo? Non si può credere, perchè ha pur da arrivare un momento nel quale il secondo istinto, l’istinto di cedere, fa udire finalmente la sua voce e, se proprio non reprime e soffoca quell’altro, viene certamente in contrasto con esso. Allora le dichiarazioni di repugnanza non sono mentite? Nelle femmine animali che non pensano, o almeno non parlano, non c’è ipocrisia: finchè l’istinto della resistenza ha il sopravvento, esse resistono, graffiano, mordono, fuggono; quando il secondo predomina, si sottopongono al maschio. Nelle donne, cioè in esseri dotati di coscienza, noi dobbiamo a priori ammettere che debba necessariamente prodursi una contraddizione, un contrasto, il sentimento d’un intimo dissidio. La donna che, obbedendo al primo moto di repulsione, ha messo come patto di non dover pagare di persona, deve necessariamente pentirsi d’avere avuto troppa fretta quando il secondo moto, l’impulso al consenso, si manifesta.

Noi possiamo qui trovare fra parentesi, amica mia, un’altra prova di ciò che io ho ripetutamente asserito e che ella ha costantemente negato: cioè la miglior qualità dell’amore maschile. Gli uomini, come maschi, obbediscono sempre a un istinto solo: quello della conquista. Essi sono coerenti, logici, sinceri; vedono la donna, la desiderano; desiderandola, fanno di tutto per ottenerla. Tutti i loro atti sono direttamente rivolti a uno scopo nettamente definito: la loro volontà è ferma, la loro costanza strenua. Le donne invece, dibattendosi fra la repulsione e l’inclinazione, disvogliono e vogliono, dicono una cosa e ne pensano un’altra, si ritraggono mentre starebbero per cedere, cedono quando stanno per ritrarsi, non sanno che cosa sentano veramente, tengono una condotta ambigua, e dicono parole false. E l’insistenza degli uomini non è soltanto lodevole ma provvidenziale; giacchè grazie ad essa le incoscienti creature escono finalmente dall’ambiguità e, cedendo nonostante le prime dichiarazioni di repugnanza, se la cavano col fingere, all’ultimo, una vergogna e un rimorso poco sinceri.

Ma supponiamo un caso che si sarà dato realmente chi sa quante volte, supponiamo che la supplice resistenza della donna abbia persuaso l’uomo a desistere ed a tralasciare il suo atteggiamento aggressivo. Se quest’uomo si sarà persuaso, per far piacere all’amata, di non chiederle più nulla, che cosa dovrà provare costei quando sarà disposta ad accordare ciò che non le è più chiesto? Dovrà ella stessa istigare il suo rassegnato compagno? Le precedenti dichiarazioni non glielo consentono: chiedendo ora ciò che prima rifiutava, costei temerà giustamente d’essere mal giudicata. Dovrà dunque a sua volta comprimere, come ha voluto che lo comprimesse l’uomo, il suo desiderio? Non cercherà un modo d’uscire da questo imbarazzo per non prolungare l’attesa troppo penosa?... Il fatto ch’io voglio narrarle si riferisce appunto a questa situazione. Dico fatto perchè ho preso l’abitudine di dire così; ma ella troverà qui narrata un’idea, un’intenzione, l’indizio d’uno stato d’animo, più che un vero e proprio avvenimento.

Ella conosce la protagonista, ed io glie ne dico subito il nome. È Donna Teresa Uzeda Duffredi di Casaura. La vita di questa donna fu per me altra volta argomento d’un lungo studio, che le dispiacque un po’ meno degli odierni ragionamenti sull’amore, ma che pur le dispiacque. Con la benevola indulgenza che mi ha sempre — almeno prima d’ora — accordata, ella volle trovare parole troppo lusinghiere per l’arte con la quale trattai quel soggetto, ma si dolse che, fra centinaia e centinaia di soggetti, io pensassi di scegliere proprio quell’uno. Pure concedendo che quella donna non meritasse la severità con la quale il mondo la giudicò, ella avrebbe preferito ch’io mi fossi esercitato intorno a un argomento più nobile. Ormai il fatto è fatto, e procurerò di contentarla meglio un’altra volta. Non starò neppure a difendere qui Donna Teresa e non dirò che fosse vittima inconsapevole dell’eterna illusione e che non volle e non meritò il suo triste destino. Certo fu una disgraziata. L’eredità del vizio, gli esempii che le furono troppo presto e nella stessa famiglia posti dinanzi, la disgrazia d’un marito incapace di darle soccorso, anzi quasi intento a precipitarla nel baratro, spiegano com’ella dovesse fatalmente precipitarvi. Non cadde una sola volta, è vero. Ma l’incapacità dei disinganni a salvarci dal persistente allettamento delle illusioni e la logica inesorabile delle situazioni false dovevano produrre questo effetto, immancabilmente. Se io m’indugiai a studiare quella vita che a lei non parve degno soggetto di storia, ciò fu appunto per rendermi e per rendere altrui ragione di questa fatale persistenza dell’illusione a dispetto degli ammaestramenti dell’esperienza. Tutti i romanzi ci narrano la storia di qualche colpa, e l’adulterio è il tema eterno delle opere d’arte. Ora l’arte che s’interessa ad una colpa, scusandola e dimostrandone la fatalità, non ci aveva ancora interessati a tutta una vita di colpe altrettanto fatali quanto la prima. I romanzieri, dopo aver narrato l’adulterio, lasciano l’adultera in asso, non ci dicono che cosa è poi accaduto di lei e talvolta la fanno più comodamente morire. Nella realtà la morte viene raramente a sciogliere le false situazioni; e se qualche rarissima volta le adultere riscattano nella restante lor vita l’unica colpa, quasi sempre fatalmente trascorrono di errore in errore. Madame Bovary, alla quale taluno volle immeritevolmente paragonare Teresa Duffredi, ebbe dopo il primo un secondo amante. Quante non sono le donne che ne hanno avuto tanti che non saprebbero neppure esse noverarli? Perchè mai, dunque, l’arte non avrebbe da studiare una di queste vite tanto avventurose? Certamente molte, e se vuole dirò anche la quasi totalità di simili donne, sono incapaci d’ogni più fugace sentimento, e le meccaniche loro cadute, potendo forse interessare gli scienziati delle cliniche, non hanno nulla che attiri l’attenzione dell’artista; alcune tuttavia, e siano pure pochissime, obbediscono a qualche sentimento, comprendono il rimorso, non cadono senza qualche lotta, invidiano quelle che restarono pure, sono insomma degne di studio. La Duffredi ebbe, da ventisei a quarant’anni, cinque amanti, mettendo nel conto quell’Aldobrandi che, per adoperare la frase del giocondissimo Armand Silvestre, le diede soltanto qualche idea sui tributi indiretti.... Alcuni pensano che cinque amanti siano troppi. Che cosa direbbero costoro se io dicessi che sono pochi e che un artista più abile di me imprenderà un giorno a scrivere la storia d’una di quelle donne che conosciamo io e lei, le cui avventure si contano a dozzine? Tutto sta che in questa serie di avventure ci sia qualcosa che importi, che commuova le nostre viscere umane con la rivelazione d’un aspetto nuovo od insolito dell’umana natura!

Eccomi un poco lontano dal soggetto. Ma ella non si duole, mi ha scritto, delle divagazioni e degli episodii, perchè, bontà sua, dice che aggiungono sapore alle mie lettere. Veniamo però senz’altro alla nostra protagonista.

Il penultimo dei suoi amanti, anzi quello che ella credette fermamente dovesse essere l’ultimo — ciascuna caduta pare l’ultima perchè ogni amore sembra eterno; ma Donna Teresa che oramai sapeva il giuoco dell’illusione, aveva altre ragioni per credere alla saldezza di questo legame — il penultimo dei suoi amanti, dico, fu Enrico Sartana. Era stato quasi suo promesso prima dell’infausto matrimonio con Guglielmo di Casaura; s’erano amati del puro amore della prima giovinezza; poi non s’erano più visti. Incontratisi dopo più di vent’anni tempestosi per entrambi, negli stessi luoghi dove avevano sognato di unirsi, in Sicilia, a Palermo, il sentimento antico si venne ridestando. Questa resurrezione procedè per vie opposte: mentre in lei derivò dalla paura d’essere disprezzata per la vita troppo avventurosa, dall’idea che Sartana dovesse stimarsi fortunato di non essersi legato a una donna che aveva fatto tanto e così male parlare di sè, dalla secreta speranza di mostrarglisi migliore della propria reputazione; egli invece pensò a lei pieno di pietà e di commossa simpatia per le disgrazie delle quali la credè vittima. C’era in questa benigna disposizione di lui il rimorso di non aver forzato la mano alla propria famiglia? C’era la presuntuosa certezza che, se fosse stata sua moglie, ella non avrebbe pensato a tradirlo e sarebbe vissuta felice ed onesta? O non piuttosto la brama di averla lo disponeva a tanta indulgenza? Lasciamo stare quest’indagine; perchè, se dovessi dirle la mia opinione, io le direi che la pietà di Sartana e la pietà di tutti gli uomini per le adultere che da lontano condannano severamente, è semplicemente dettata dall’appetito, come la miglior via di soddisfarlo. Ho ragione? Confessi che la metto in un bell’impiccio. Ella vorrebbe darmi dello scettico perchè nego la sincerità d’un buon sentimento; ma poi pensa di applaudirmi, giovandosi del mio giudizio per sostenere che gli uomini sono incapaci di buoni sentimenti e non pensano se non alle proprie soddisfazioni!...

Comunque sia, fatto è che Sartana rammentò alla Duffredi il loro passato felice, e le lasciò dapprima intendere e poi le disse chiaramente la sua speranza di farlo risorgere, di tramutarlo in un più felice presente. La Duffredi, contenta d’ottenere la prova che egli non aveva orrore di lei, vinta ella stessa dai ricordi buoni, lo lasciò dire. Ma poteva ella cedere a quest’uomo? Dopo la triste esperienza, non doveva stare in guardia contro nuove cadute? Dopo che Aldobrandi le aveva corrotta l’anima, dopo che ella aveva tradito Paolo Arconti col visconte de Bienne, dopo che lo stesso Arconti l’aveva abbandonata, dopo che ella aveva presunto vendicarsi cedendo al principe di Lucrino, si sentiva ridotta a tale avvilimento, che aveva un solo bisogno: purificarsi con qualcosa di nobile, di alto, di immacolato. E se ciò era molto difficile, anzi, con altri uomini, impossibile, non doveva ella cogliere l’occasione insperata e conseguire questa specie di redenzione sentimentale per opera di Sartana, cioè di uno che l’aveva purissimamente amata da giovanetta, di uno che solo fra tutti poteva e doveva rispettarla in nome dell’innocenza del loro passato?... Dobbiamo dire che questo fosse un sofisma? Certo, se pur fu sofisma, Teresa non ne ebbe coscienza e restò sincera; la sua condotta posteriore lo provò. Il Sartana accettò d’esserle amico secreto, promise di non macchiare la santità del loro affetto e per un certo tempo mantenne la promessa; poi, naturalmente, la dimenticò ed insistette presso l’amica per indurla a ciò che era e doveva essere il naturale coronamento dell’amor loro; ma costei spinse a tal punto la resistenza e dimostrò d’essere stata tanto sincera mettendo il patto insostenibile, che fuggì dopo avergli diretta una romantica lettera d’addio e senza dirgli dove andava a nascondersi.

Fu questo uno dei migliori atti della sua vita, una delle prove che ella era degna di miglior sorte. Ho chiamato romantica quella lettera, ed ella che forse la rammenta, riconoscerà che merita d’esser chiamata così. Tutte le perverse e abominevoli creature che sono vissute nel male per istinto, per genio, dicono che la storia di Teresa Duffredi è la loro, presumono ottenere come lei indulgenza e perdono; ma esse non fuggono: si buttano alla testa delle persone, non sanno che cosa sono gli scrupoli, ignorano il senso della parola rimorso, non s’acquetano neanche con l’età, quando la loro carne è vizza, quando i loro capelli sono canuti. Sì, ella ha ragione: la storia della loro vita, soggetto buono per qualche pornografo, non rivela altro che una spaventevole ipocrisia. Ma il romanticismo di Donna Teresa, quella sua velleità di distinguersi, quella sua idea d’esser fatta a un modo tutto particolare, di dover provare e far provare cose arcane e ineffabili; quel suo concetto della vita esagerato e falso che la faceva parlare ed agire come sopra un palcoscenico dove tutto è dramma, giuramenti infrangibili, fatalità tenebrose, spasimi sovrumani, questo suo romanticismo, dico, questa forza di un’illusione che la sottraeva alla realtà e la poneva in urto con la logica, fu la sua scusa ed è ciò che può interessarci a lei.

Dunque, fuggì. E dopo la fuga, Sartana, saputo il suo rifugio da un’amica comune, la raggiunse. Allora accadde ciò che doveva accadere. Ma a chi le domandò, molti anni dopo, se durante la supplice insistenza di lui e nel punto di fuggirlo, ella non si fosse pentita dell’ostinata resistenza, confessò quanto segue. Sì, ne provò pentimento. Da principio aveva creduto sinceramente di dover esser felice grazie a un sentimento tutto ideale; la possibilità di cadere anche una volta le repugnava. Noi vediamo dunque che il primo istinto della donna e della femmina, l’istinto della resistenza, era ancor vivo ed operante in lei. Per obbedirne i suggerimenti, ella volle prendere un impegno solenne con sè stessa e con l’amante, impegno che contrariò più tardi molto vivacemente il secondo istinto, il desiderio, il bisogno di cedere. A chi le parlava di queste cose ella non voleva neppur confessare, dopo tanto tempo, il risveglio del desiderio... ma disse, — come dicono tutte — che si pentì del divieto imposto a sè stessa ed all’amante perchè comprese che l’amante ne soffriva troppo.

— Io non potevo sperare che egli mi restasse lungamente a fianco senza tentar d’infrangere la promessa; se pure la mia esperienza non me l’avesse fatto prevedere, io vidi il tormento di Enrico, ne udii le roventi espressioni. Allora... allora...

E incitata a confessare, ella spiegò che allora le venne un’idea. Non la pose in atto, anzi fece tutto il contrario, fuggendo; ma l’idea fu questa. Non vi sono certe case discrete dove gli uomini come Enrico Sartana trovano, grazie all’opera di esperte mediatrici, le donne ridotte a vendersi dal duro bisogno o cupide di procurarsi secretamente danaro per sopperire ai bisogni del lusso? Ella pensò di andare in una di queste case, fittamente velata, per intendersi con la mediatrice: costei avrebbe dovuto chiamare il Sartana dicendogli di avere un donna per lui, una signora che metteva come patto infrangibile di restare velata..... Solamente in un cervello romanzesco e diciamo pur folle una simile idea poteva spuntare. A questo modo ella pensava di risolvere il problema: non si sarebbe disdetta e intanto si dava....

— E voi volete sostenere, — le fece osservare il suo interrogatore, — che, così facendo, non eravate mossa dal desiderio che avevate di lui, ma soltanto dall’idea di far cessare la sua pena?

— Senza dubbio! — insistè.

— Allora, perchè andare velata?

— Se non andavo velata, tanto valeva cedergli in casa mia, anzi dirgli: «Prendetemi!»

— Ma pensateci un poco: se egli non sapeva d’esser con voi, e se voi solamente sapevate di esser con lui, chi era soddisfatto e chi restava inappagato?...


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