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ATTO I.
SCENA I.
Don Ignazio giovane, Simbolo suo cameriero.
Don Ignazio. Egli è possibile, o Simbolo, ch’avendoti commesso che fussi tornato e ben presto, che m’abbi fatto tanto penar per la risposta?
Simbolo. A far molti servigi bisogna molto tempo, né io poteva caminar tanto in un tratto.
Don Ignazio. In tanto tempo arei caminato tutto il mondo.
Simbolo. Sí, col cervello; ma io avea a caminar con le gambe.
Don Ignazio. Or questo è peggio, farmi penar di nuovo in ascoltar le tue scuse. Che hai tu fatto?
Simbolo. Son stato al maestro delle vesti.
Don Ignazio. Cominci da quello che manco m’importa.
Simbolo. Cominciarò da quello che piú vi piace: sono stato a don Flaminio vostro fratello, per saper la risposta che ave avuto dal conte di Tricarico della vostra sposa.
Don Ignazio. Che sai tu che questo mi piaccia?
Simbolo. Ve l’ho intesa lodar molto di bellezza, pregate don Flaminio che tratti col conte ve la conceda, passegiate tutto il giorno sotto le sue fenestre, e il pregio che guadagnaste nella festa de’ tori mandaste a donar a lei.
Don Ignazio. E ciò m’importa manco del primo.
Simbolo. Sono stato a madonna Angiola.
Don Ignazio. Ben?
Simbolo. Non era in chiesa, ché non era ancor venuta; ed io, per avanzar tempo per gli altri negozi, non l’aspettai.
Don Ignazio. Perché non lasciasti tutti gli altri per aspettar lei?
Simbolo. Che sapeva io che desiavate ciò? Se potesse indovinar il vostro cuore, sareste servito prima che me lo comandaste; e se a voi non rincrescerá comandarmi, a me non rincrescerá servirvi. Vi fidate de me de danari, argenti e gioie, e non potete fidar parole o secreti?
Don Ignazio. Ho celato il desiderio del mio cuore insino alla camicia che ho indosso; ma or son risoluto fidarmi di te, cosí per obligarti a consigliarmi ed aiutarmi con piú franchezza, come per isfogar teco la passione. Ma un secreto sí grande sia custodito da te sotto sincera fede de un onorato silenzio.
Simbolo. Vi offro fedeltá e franchezza nell’uno e nell’altro.
Don Ignazio. Io ardo della piú bella fiamma che sia al mondo; e accioché tu sappi a puntino ogni cosa, cominciarò da capo. — Quando venne il gran capitano Ferrante di Corduba nel conquisto del regno di Napoli, venner con lui molti gentiluomini e signori spagnuoli per avventurieri, tra’ quali fu don Rodorigo di Mendozza mio zio e noi fratelli; e dopo la felice conquista di questo regno, noi e nostro zio fummo molto largamente rimunerati da Sua Maestá di molte migliaia di scudi d’entrada e de’ primi uffici del Regno: fra gli altri fu fatto vicerè della provincia di questa cittá di Salerno. ...
Simbolo. Tutto ciò sapeva bene, ché son stato a’ vostri servigi.
Don Ignazio. ... Or ei, volendo rallegrare la cittá di Salerno sotto il suo governo, il carnescial passato ordinò giochi di canne e di tori in piazza per i gentiluomini, e un sollenne ballo nella sala di Palazzo per le gentildonne. Venne il giorno constituito, venner e canne e tori in piazza e le gentildonne in sala: fra le altre vennero due giovanette sorelle. Ma perché dico «giovanette», ché non dico due angiolette? Elle parvero un folgore che lampeggiando offuscò la bellezza di tutte le altre. E se ben Callidora, la minore, fusse d’incomparabil bellezza, posta incontro al sovran paragon di bellezza, a Carizia, restava un poco piú languida, perché la maggiore avea non so che di reale e di maraviglioso. Parca che la natura avesse fatto l’estremo suo forzo in lei per serbarla per modello de tutte l’altre opere sue, per non errar piú mai. Ella era sí bella che non sapevi se la bellezza facesse bella lei o s’ella facesse bella la bellezza; perché se la miravi aresti desiderato esser tutto occhi per mirarla, s’ella parlava esser tutto orecchie per ascoltarla: in somma tutti i suoi movimenti e azioni erano condite d’una suprema dolcezza. Un sí stupendo spettacolo di bellezza rapí a sé tutti gli occhi e cuori de’ riguardanti: restâr le lingue mute e gli animi sospesi, e se pur se sentiva un certo tacito mormorio, era che ogniuno mirava e ammirava una mai piú udita leggiadria. Io furtivamente mirava gli occhi di Carizia, i quali quanto erano vaghi a riguardare tanto pungevano poi, e quanto piú pungevano tanto piú ti sentivi tirar a forza di rimirargli; e riguardando non si volean partire come se fussero stati legati con una fune, talché non sapeva discernere qual fusse maggiore o la dolcezza del mirare o la fierezza delle punture: al fin conobbi che l’uno era la medicina dell’altro. E benché io prevedessi che quel fusse un principio d’una fiamma nascente, dalla quale ogni mio spirito dovea arderne crudelissimamente, pur non potea tenermi di non mirarla: onde per non esser osservato da mio fratello, il prendo per la mano e lo meno nello steccato. ...
Simbolo. Perché dubbitavate di vostro fratello?
Don Ignazio. Tu sai, da che siamo nati, avemo sempre con grandissima emulazione gareggiato insieme di lettere, di scrima, di cavalcare e sopra tutto nell’amoreggiare, ché ogniun di noi ha fatto professione di tôr l’innamorata all’altro. Il che s’avenisse cosí di costei, si accenderebbe un odio maggiore fra noi che mai fusse stato; sarebbe un seme di far nascer tra noi tal sdegno che ci ammazzaremmo senz’alcuna pietade.
Simbolo. Seguite. E poi?
Don Ignazio. ... Appena entrammo nello steccato, come in un famoso campo di mostrar virtude e valore, che fûr stuzzicati i tori, i quali furiosi e dalle narici spiranti focoso fiato vennero incontro noi. Onde se mai generoso petto fu stimulato da disio di gloria, fu il mio in quel punto; perché sempre volgea gli occhi in quel ciel di bellezza, parea che da quelle vive stelle de’ suoi begli occhi spirassero nell’anima mia cosí potentissimi influssi, cosí infinito valore ch’io feci fazioni tali che a tutti sembrarono meraviglie, ch’io non solo non andava schivando gli affronti e i rivolgimenti de’ tori, ma gli irritava ancora, accioché con maggior furia m’assalissero. Di quelli, molti ne destesi in terra e n’uccisi; ma in quel tempo ch’io combatteva con i tori, Amor combatteva con me. O strana e mai piú intesa battaglia! onde un combattimento era nello steccato apparente e un altro invisibile nel mio cuore: il toro alcuna volta mi feriva nella pelle e ne gocciolavano alcune stille di sangue, e il popolo ne avea compassione; ma ella con i giri degli occhi suoi mi fulminava nell’anima, ma perché le ferite erano senza sangue, niuno ne avea compassione. De’ colpi de’ tori alcuni ne andavano vòti d’effetto; ma quelli degli occhi suoi tutti colpivano a segno. Pregava Amore che crescesse la rabbia a’ tori, ma temperasse la forza de’ guardi di Carizia. Al fin io rimasi vincitore del toro, ella vincitrice di me: ed io che vinsi perdei, e fui in un tempo vinto e vincitore, e restai nella vittoria per amore. Del toro si vedea il cadavero disteso in terra, il mio vagava innanzi la sua bella imagine; il popolo con lieto applauso gradiva la mia vittoria, ed io piangeva la perdita di me stesso. Ahi quanto poco vinsi! ahi quanto perdei! vinsi un toro e perdei l’anima. ...
Simbolo. Faceste tanto gagliarda resistenza a’ fieri incontri de’ tori e non poteste resistere a’ molli sguardi d’una vacca? — Come si portò vostro fratello?
Don Ignazio. Fece anch’egli grandissime prodezze. — ... In somma ella fu l’occhio e la perfezione de tutta la festa. Finito il gioco, fingendomi stracco e altre colorite cagioni, ritrassi don Flaminio dallo steccato, il quale avea gran voglia d’uscirne, e ci reducemmo a casa; ma prima avea imposto ad un paggio s’avesse informato chi fusse. Andai a letto avendo il cuore e gli occhi ripieni della bellezza della giovane e l’anima impressa della sua bella imagine; onde passai una notte assai travagliata. Intesi poi la matina che era una gentildonna onestissima, dotata di molte peregrine virtú, di casa Della Porta; ma povera per essernole state tolte le robbe per caggion de rubellione, ché Eufranone, il padre, avea seguite le parti del principe de Salerno.
Simbolo. Se state cosí invaghito di costei, perché trattar matrimonio con la figlia del conte de Tricarico e ci avete posto Don Flaminio vostro fratello per mezano?
Don Ignazio. Quando piace a’ medici che non calino i cattivi umori ne’ luoghi offesi, ordinano certi riversivi: io per ingannar mio fratello, ché non s’imagini che ami costei, lo fo trattar matrimonio con la figlia del conte.
Simbolo. Ben, che avete deliberato di fare?
Don Ignazio. Per dar fine alle tante volte desiato e non mai conseguito desiderio, tôrla per moglie.
Simbolo. Avetici molto ben pensato prima?
Don Ignazio. E possedendo lei non sarò un terreno iddio?
Simbolo. Avertite che chi si dispone tôr moglie, camina per la strada del pentimento: pensatici bene.
Don Ignazio. Ci ho tanto pensato ch’il pensiero pensando s’è stancato nell’istesso pensiero.
Simbolo. Che sapete se vostro fratello se ne contenta, o vostro zio che vi vol maritar con una figlia de grandi de Ispagna? Poi, povera e senza dote! Si sdegnará con voi e forsi vi privará di quella parte di ereditá ch’avea designato lasciarvi: perché gli errori che si fanno ne’ matrimoni, dove importa l’onor di tutta la famiglia, si tirano gli odii dietro di tutto il parentado e principalmente de’ fratelli e de’ zii.
Don Ignazio. Purché abbia costei per moglie, perda l’amor del fratello, del zio, la robba e ogni cosa, fin alla vita. Che mi curo io di robba? son altro che miserabili beni di fortuna? L’onestá e gli onorati costumi son i fregi dell’anima; ricchezze ne ho tante che bastano per me e per lei. Or non potrebbe essere che, trattenendomi, don Flaminio mi prevenisse e se la togliesse per moglie, ed io poi per disperato m’avesse ad uccidere con le mie mani? Ho cosí deliberato; e le cose deliberate si denno subbito esseguire.
Simbolo. Ecco don Flaminio vostro fratello.
Don Ignazio. Presto presto, scampamo via, che non mi veggia qui ed entri in sospetto di noi.
Simbolo. Andiamo.
SCENA II.
Don Flaminio giovane, Panimbolo suo cameriero.
Don Flaminio. Panimbolo, quando vedesti Leccardo, che ti disse?
Panimbolo. Voi altri innamorati volete sentire una risposta mille volte.
Don Flaminio. Pur, che ti disse?
Panimbolo. Quel che suol dir l’altre volte.
Don Flaminio. Non puoi redirmelo? non vòi dar un gusto al tuo padrone?
Panimbolo. Cose di vento.
Don Flaminio. E udir cose di vento mi piace.
Panimbolo. Che Carizia non stava di voglia, che raggionava con la madre, che ci era il padre, che venne la zia, che sopraggionse la fantesca, che come ará l’agio parlará, fará, e cose simili. Ben sapete che è un furfante e che, per esser pasteggiato e pasciuto da voi di buoni bocconi, pasce voi di bugie e di vane speranze.
Don Flaminio. Io ben conosco ch’è un bugiardo: pur sento da lui qualche rifrigerio e conforto.
Panimbolo. Scarso conforto e infelice refrigerio è il vostro.
Don Flaminio. Ad un povero e bisognoso come io, ogni piccola cosa è grande.
Panimbolo. Anzi a voi, essendo di spirito cosí eccelso e ardente, ogni gran cosa vi devrebbe parer poca.
Don Flaminio. Il sentir ragionar di lei, di suoi pensieri e di quello che si tratta in casa, m’apporta non poco contento; e mi ha promesso alla prima commoditá darle una mia lettera.
Panimbolo. O Dio, non v’è stato affermato per tante bocche di persone di credito che non sieno persone in Salerno piú d’incorruttibil onestá di queste, e che invano spera uomo comprarse la loro pudicizia? né voi in tanto tempo che la servite ne avete avuto un buon viso.
Don Flaminio. Tutto questo so bene. Ma che vòi che faccia? non posso voler altro, perché cosí vuole chi può piú del mio potere.
Panimbolo. Chetatevi e abbiate pazienza.
Don Flaminio. La pacienza è cibo o de santi o d’animi vili.
Panimbolo. E voi amate senza goder al presente ciò né sperar al futuro.
Don Flaminio. Almeno, se non ama me, non ama don Ignazio, e non la possedendo io non la possiede egli. Quella sua onestá quanto piú m’affligge piú m’innamora: io non posso odiar il suo odio, godo del suo disamore. Ché s’alle pene ch’io patisco s’aggiungesse il sospetto di don Ignazio, sarebbono per me troppo aspre e insopportabili.
Panimbolo. Io dubbito che don Ignazio avendo tentata la via ch’or voi tentate ed essendoli riuscita vana, ch’or ne tenti una piú riuscibile.
Don Flaminio. Don Ignazio non vi pensa né la vidde.
Panimbolo. Son speranze con che ingannate voi stesso.
Don Flaminio. Facil cosa è ingannar un altro, ma ingannar se stesso è molto difficile. Io in quel giorno, perché non avea altro sospetto che di lui, puosi effetto ad ogni suo gesto e conobbi veramente che non s’accorse di lei: perché dove girava gli occhi, li girava io; dove mirava, mirava io; non diceva parola che non la volesse ascoltare; e accioché non s’accorgesse di lei, il tolsi dalla sala e il condussi allo steccato; e finito il gioco venne meco a casa, cenammo e ce n’andammo a letto e raggionammo d’ogni altra cosa che vedemmo quel giorno, eccetto che di quelle giovani. Ché s’egli si fusse accorto di sí inusitata bellezza, non l’arebbe tratto tutto il mondo da quello steccato, da quella sala, dalle sue faldi; e quando t’imposi che ti fussi informato chi fusse, usai la maggior diligenza del mondo ché non se ne fusse accorto. Io non sono cosí goffo come pensi. E se Leccardo, che abita in casa sua, n’avesse inteso altra cosa, non me l’arebbe referito?
Panimbolo. Il parasite Leccarde? state fresco, ché delle ventiquattro ore del giorno ne sta imbriaco o ne dorme piú di trenta. Vostro fratello tanto può star senza far l’amore quanto il cielo senza stelle o il mar senza tempesta.
Don Flaminio. Egli sta invaghito e morto della figlia del conte de Tricarico — ed io sono mezano del matrimonio e mi ci affatico molto per tôrmi da questo sospetto, — e m’ha dato parola che, volendo dargli quarantamila docati, sposaralla; ma egli non voi darne piú che trentamila.
Panimbolo. Come può starne invaghito e morto s’ella è brutta come una simia? né credo che la terrebbe per centomila; ed essendo egli di feroce e magnanimo spirito, poco si curarebbe di diecimila ducati, ché se li gioca in mez’ora. Ma dubbito che essendo gran tempo esercitato negli artifici della simulazione, che tutto ciò non dica per ingannarvi; e vi mostrarei per chiarissime congetture ch’egli aspiri a posseder Carizia.
Don Flaminio. Non piaccia a Dio che ciò sia! ché se per altre cortigianucce di nulla ci siamo azzuffati insieme, pensa tu che farebbomo per costoro; e questa ingiuria io la sopporterei piú volentieri da ogni uomo che da mio fratello.
Panimbolo. Egli da quel giorno della festa è divenuto un altro. Parla talvolta, sta malinconico, mai ride, mangiando si smentica di mangiare, dove prima mangiava per doi suoi pari, la notte poco dorme, sta volentieri solo, e standovi sospira, s’affligge e si crucia tutto.
Don Flaminio. Io ho osservato in lui tutto il contrario.
Panimbolo. Perché si guarda da voi solo; né mai lo veggio ridere o star allegro se non quando è con voi. Di piú, non è mai giorno che non passi mille volte per questa strada dinanzi alla sua casa.
Don Flaminio. Io non ve l’ho incontrato giamai.
Panimbolo. Deve tener le spie per non esservi còlto da voi; e quella arte, che voi usate con lui, egli usa con voi. Ma io vi giuro che quante volte m’è accaduto passarvi, sempre ve l’ho incontrato.
Don Flaminio. Oimè, tu passi troppo innanzi, mi poni in sospetto e m’ammazzi. Ma come potrei io di ciò chiarirmi?
Panimbolo. Agevolissimamente: subbito che l’incontrate, diteli che il conte è contento dargli li quarantamila scudi purché la sposi per questa sera; e se non troverá qualche scusa per isfuggir o prolungar le nozze, cavatemi gli occhi.
Don Flaminio. Dici assai bene; e or ora vo’ gir a trovarlo e fargli l’ambasciata.
Panimbolo. Ascoltate: dateli la nuova con gran allegrezza e mirate nel volto e negli occhi, osservate i colori — ché ne cambierá mille in un ponto: or bianco or pallido or rosso, — osservate la bocca con che finti risi; in somma ponete effetto a tutti i suoi gesti, ché troverete quanto ve dico.
Don Flaminio. Cosí vo’ fare.
Panimbolo. Ma ecco la peste de’ polli, la destruzione de’ galli d’India e la ruina de’ maccheroni!
SCENA III.
Leccardo parasito, Panimbolo, don Flaminio.
Leccardo. Non son uomo da partirmi da una casa tanto misera prima che non sia cacciato a bastonate? ...
Panimbolo. (Leccardo sta irato. Ho per fermo che non ará leccato ancora, ché niuna cosa fuorché questa basta a farlo arrabbiare).
Leccardo. ... E forse che debba soffrir cosí miserabil vita per i grassi bocconi che m’ingoio: una insalatuccia, una minestra de bietole come fusse bue? bel pasto da por innanzi alla mia fame bizzarra! ...
Panimbolo. (Ogni sua disgrazia è sovra il mangiare).
Leccardo. ... Digiunar senza voto? forse che almeno una volta la settimana si facesse qualche cenarella per rifocillar i spiriti! ...
Don Flaminio. (L’hai indovinata: non ha mangiato ancora).
Leccardo. ... Però non è meraviglia se mi sento cosí leggiero: non mangio cose di sostanza. ...
Don Flaminio. (Lo vo’ chiamare).
Panimbolo. (Non l’interrompete, di grazia: dice assai bene, loda la largitá del suo padrone).
Don Flaminio. Volgiti qua, Leccardo.
Leccardo. O signor don Flaminio, a punto stava col pensiero a voi!
Don Flaminio. Parla, ché la tua bocca mi può dar morte e vita.
Leccardo. Che! son serpente io che con la bocca do morte e vita? La mia bocca non dá morte se non a polli, caponi e porchette.
Panimbolo. E li dái morte e sepoltura ad un tempo.
Don Flaminio. Lasciamo i scherzi: ragionamo di Carizia, ché non ho maggior dolcezza in questa vita.
Leccardo. Ed io quando ragiono di mangiare e di bere.
Don Flaminio. Narrami alcuna cosa: racconsolami tutto.
Leccardo. Ti sconsolerò piú tosto.
Don Flaminio. Potrai dirmi altro che non mi ama? lo so meglio di te. L’incendio è passato tanto oltre che mi pasco del suo disamare: di’ liberamente.
Leccardo. Vedi questi segni e le lividure?
Don Flaminio. Tu stai malconcio: chi fu quel crudelaccio?
Leccardo. La tua Carizia me l’ha fatte.
Don Flaminio. Mia? perché dici «mia», se non vuoi dir nemica»? — Ma pur com’è passato il fatto?
Leccardo. Oggi, perché stava un poco allegretta, lodava la sua bellezza; ella ridea. Io, vedendo che sopportava le lodi, prendo animo e passo innanzi: — Tu ridi e gli assassinati dalla tua bellezza piangono e si dolgono, ché quel giorno che fu festa de’ tori innamorasti tutto il mondo! — Ella piú rideva ed io passo piú innanzi: — E fra gli altri ci è un certo che sta alla morte per amor tuo! ...
Don Flaminio. Tu te ne passi troppo leggiermente: raccontamelo piú minutamente.
Leccardo. ... A pena finii le parole, che vidi sfavillar gli occhi come un toro stuzzicato, e la faccia divenir rossa come un gambaro. Tosto mi die’ un sorgozzone che mi troncò la parola in gola; e dato di mano ad un bastone che si trovò vicino, lo lasciava cadere dove il caso il portava, non mirando piú alla testa che alla faccia o al collo. Cadei in terra; mi die’ colpi allo stomaco e calci che se fusse stato un ballone me aria fatto balzar per l’aria, ingiuriandomi «roffiano» e che lo volea dir ad Eufranone suo padre.
Don Flaminio. Non spaventarti per questo, ché le donne al principio sempre si mostrano cosí ritrose: si ammorbiderá ben sí. Ma abbi pazienza, Leccardo mio, ché de’ colpi delle sue mani non ne morrai.
Leccardo. Le tue belle parole non m’entrano in capo e mi levano il dolore e la fame.
Don Flaminio. Faremo che Panimbolo ti medichi e ti guarisca.
Panimbolo. Io ho recette esperimentate per le tue infirmitá.
Leccardo. Dimmele, per amor de Dio!
Panimbolo. Al gorguzale ci faremo una lavanda di lacrima e di vin greco molte volte il giorno.
Leccardo. Oh, bene! ho per fermo che tu debbi essere figlio di qualche medico. E se non guarisce alla prima?
Panimbolo. Reiterar la ricetta.
Leccardo. Almeno per una settimana! Che faremo per li denti?
Panimbolo. Uno sciacquadenti di vernaccia di Paula o di vin d’amarene.
Leccardo. Tu ti potresti addottorare. Ma per far maggior operazione bisognarebbe che i liquori fusser vecchi.
Panimbolo. N’avemo tanto vecchi in casa c’hanno la barba bianca.
Leccardo. E per lo stomaco poi?
Panimbolo. Bisogna tôr quattro pollastroni e fargli buglir ben bene, e poi colar quel brodo grasso in un piatto e porvi dentro a macerar fette de pan bianco, e accioché non esalino quei vapori dove sta tutta la virtú, bisogna coprir che venghino ben stufati, poi spargervi sopra cannella pista, e sará un eccellente rimedio. All’ultimo, un poco di caso marzollino per un sigillastomaco.
Leccardo. Veramente da te si devriano tôrre le regole della medicina. Andamo a medicar presto, ché m’è salito addosso un appetito ferrigno, e tanta saliva mi scorre per la bocca che n’ho ingiottito piú de una carrafa. La medicina n’ha reinfrescato il dolor delle piaghe e m’ha mosso una febre alla gola che mi sento mancar l’anima.
Panimbolo. Con certe animelle di vitellucce ti riporrò l’anima in corpo.
Leccardo. Se fussi morto e sepellito resuscitarci per farmi medicar da voi. Don Flaminio, avessi qualche poco di salame o di cascio parmigiano in saccoccia?
Don Flaminio. Orbo, questa puzza vorrei portar adesso io?
Leccardo. Ma che muschio, che ambra, che aromati preziosi odorano piú di questi?
Don Flaminio. Leccardo mio, come io so medicar i tuoi dolori, cosí vorrei che medicassi i miei!
Leccardo. Non dubitar, che quando toglio una impresa, piú tosto muoio che la lascio.
Don Flaminio. Vieni a mangiar meco questa mattina.
Leccardo. Non posso: ho promesso ad altri.
Don Flaminio. Eh, vieni.
Leccardo. Eh, no.
Panimbolo. (Mira il furfante! se ne muore e se ne vuol far pregare).
Don Flaminio. Fa’ ora a mio modo, ch’una volta io farò a tuo modo.
Leccardo. Son stato invitato da certi amici ad un buon desinare, ma vo’ ingannargli per amor vostro.
Don Flaminio. Va’ a casa e ordina al cuoco che t’apparecchi tutto quello che saprai dimandare, e fa’ collazione; tratanto che sia apparecchiato, serò teco, ché vo per un negozio.
Leccardo. Ed io ne farò un altro e sarò a voi subbito. (Vedo il capitan Martebellonio. Non ho visto di lui il maggior bugiardo: sta gonfio di vento come un ballone e un giorno si risolverá in aria. Ha fatto mille arti, prima fu sensale, poi birro, poi aiutante del boia, poi ruffiano; e pensa con le sue bravate atterrire il mondo, e stima che tutte le gentildonne si muoiano per la sua bellezza). Ben trovato il bellissimo e valorosissimo capitan Martebellonio!
SCENA IV.
Martebellonio capitano, Leccardo.
Martebellonio. Buon pro ti faccia, Leccardo mio!
Leccardo. Che pro mi vol far quello che non ho mangiato ancora?
Martebellonio. So che la mattina non ti fai coglier fuori di casa digiuno.
Leccardo. E che ho mangiato altro che un capon freddo, un pastone, una suppa alla franzese, un petto di vitella allesso, e bevuto cosí alto alto diece voltarelle?
Martebellonio. Ecco, non ti ho detto invano il «buon pro ti faccia».
Leccardo. Quelle cose son digeste giá e fatto sangue nelle vene; ma lo stomaco mi sta vòto come un tamburro. Ma voi adesso vi dovete alzar da letto e far castelli in aria, eh?
Martebellonio. Ho tardato un pochetto, ché ho atteso a certi dispacci.
Leccardo. Per chi?
Martebellonio. Per Marte l’uno e l’altro per Bellona.
Leccardo. Chi è questo Marte? chi è questa Bellona?
Martebellonio. Oh, tu sei un bel pezzo d’asino!
Leccardo. Di Tunisi ancora.
Martebellonio. Non sai tu che Marte è dio del quinto cielo, il dio dell’armi? e Bellona delle battaglie?
Leccardo. Che avete a far con loro?
Martebellonio. Non sai che son suo figlio e son lor luogotenente dell’armi e delle battaglie in terra, com’eglino tengono il possesso dell’armi nel cielo? però il mio nome è di «Marte-bellonio».
Leccardo. E per chi gli mandate il dispaccio?
Martebellonio. Per un mozzo di camera.
Leccardo. Come? gli attaccate l’ale dietro per farlo volar nel cielo?
Martebellonio. L’attacco le lettere al collo con un sacchetto di pane che basti per quindici giorni, poi lo piglio per lo piede e me lo giro tre volte per la testa e l’arrandello nel cielo. Marte, che sta aspettando, come il vede, il prende e ferma; si non, che ne salirebbe sin alla sfera stellata.
Leccardo. A che effetto quel sacco di pane?
Martebellonio. Ché non si muoia di fame per la via. — Marte, avendo inteso gli avisi, spedisce le provisioni e lo manda giú. Come il veggio cader dal cielo come una nubbe, vengo in piazza e lo ricevo nella palma; ché si desse in terra, se ne andrebbe fin al centro del mondo.
Leccardo. Che bevea? il mangiar il pane solo l’ingozzava e potea affogarsi. O si morí di sete?
Martebellonio. Bevé un canchero che ti mangia!
Leccardo. Oh s’è bella questa, degna di un par vostro!
Martebellonio. Ti vo’ raccontar la battaglia ch’ebbi con la Morte.
Leccardo. Non saria meglio che andassimo a bere due voltarelle per aver piú forza, io di ascoltare e voi di narrare?
Martebellonio. Il ber ti apportarebbe sonno, ed io non te la ridirei se mi donassi un regno. I miei fatti son morti nella mia lingua, ma per lor stessi sono illustri e famosi e si raccontano per istorie. — Sappi che la Morte prima era viva ed era suo ufficio ammazzar le genti con la falce. Ritrovandomi in Mauritania, stava alle strette con Atlante, il qual per esser oppresso dal peso del mondo era maltrattato da lei. Io, che non posso soffrir vantaggi, li toglio il mondo da sopra le spalle e me lo pongo su le mie. ...
Leccardo. (Sará piú bella della prima!). Ditemi, quel gran peso del mondo come lo soffrivano le vostre spalle?
Martebellonio. Appena mi bastava a grattar la rogna. — ... Al fin, lo posi sovra questi tre diti e lo sostenni come un melone. ...
Leccardo. Quando voi sostenevate il mondo, dove stavate, fuori o dentro del mondo?
Martebellonio. Dentro il mondo.
Leccardo. E se stavate di dentro, come lo tenevate di fuori?
Martebellonio. Volsi dir: di fuori.
Leccardo. E se stavate di fuori, eravate in un altro mondo e non in questo.
Martebellonio. O sciagurato, io stava dove stava Atlante quando anch’egli teneva il mondo.
Leccardo. Ben bene, seguite l’abbattimento.
Martebellonio. ... Mona viva, sentendosi offesa ch’avessi dato aiuto al suo nemico, mi mirava in cagnesco con un aspetto assai torbido e aspro, e con ischernevoli parole mi beffeggiava. La disfido ad uccidersi meco: accettò l’invito, e perché avea l’elezion dell’armi, se volse giocar la vita al ballonetto. ...
Leccardo. Perché non con la falce?
Martebellonio. Ché ben sapea la virtú della mia dorindana. — ... Constituimmo per lo steccato tutto il mondo: ella n’andò in oriente, io in occidente. ...
Leccardo. Voi elegeste il peggior luogo, perché il sole vi feriva negli occhi; e poi quello occidente porta seco malaugurio: che dovevate esser ucciso.
Martebellonio. L’arte tua è della cucina e appena t’intendi se la carne è ben allessa. Che téma ho io del sole? con una cèra torta lo fo nascondere coperto d’una nube. Poi «uccidente » è quello che uccide: io avea da esser l’uccidente, ella l’uccisa.
Leccardo. Seguite.
Martebellonio. ... Il ballonetto era la montagna di Mauritania. A me toccò il primo colpo; percossi quella montagna cosí furiosamente, che andò tanto alto che giunse al cielo di Marte, e non la fece calar giú in terra per segno del valor del suo figlio. ...
Leccardo. Cosí privasti il mondo di quella montagna. Ma quella che ci è adesso, che montagna è?
Martebellonio. Oh, sei fastidioso! ascolta se vòi, se non, va’ e t’appicca.
Leccardo. Ascolterò.
Martebellonio. ... Ella dicea aver vinto il gioco, perché era imboccato il ballonetto: la presi per la gola con duo diti e l’uccisi come una quaglia, talché non è piú viva ed io son rimasto nel suo ufficio. — Ma scostati da me, ch’or che mi sento imbizzarrito, che non ti strozzi.
Leccardo. Oimè, che occhi stralucenti!
Martebellonio. Guardati che qualche fulmine non m’esca dagli occhi e ti brusci vivo.
Leccardo. Tutta l’istoria è andata bene; ma ve sète smenticato che non fu ballonetto ma ballon grande, e tanto grande che non si basta a ingiottire. Ma io ti vo’ narrar una battaglia ch’ebbi con la Fame.
Martebellonio. Che battaglie, miserello?
Leccardo. La Fame era una persona viva, macra, sottile, ch’appena avea l’ossa e la pelle; e soleva andar in compagnia con la Carestia, con la Peste e con la Guerra, ché n’uccideva piú ella che non le spade. Ci disfidammo insieme: lo steccato fu un lago di brodo grasso dove notavano caponi, polli, porchette, vitelle e buoi intieri intieri; qui ci tuffammo a combattere con i denti. Prima ch’ella si mangiasse un vitello, io ne tracannai duo buoi e tutte le restanti robbe; e perché ancora m’avanzava appetito e non avea che mangiare, mi mangiai lei: cosí non fu piú la Fame al mondo, ed io sono suo luogotenente e ho due fami in corpo, la sua e la mia. Ma prima andiamo a mangiare; se non, che mi mangiarò te intiero intiero: Dio ti scampi dalla mia bocca!
Martebellonio. Tu sei un gran bugiardo!
Leccardo. Voi sète maggior di me: son un vostro minimo!
Martebellonio. Dimmi un poco, quanto tempo è che Calidora non t’ha parlato di me?
Leccardo. Ogni ora che mi vede; e quando passegiate cosí altiero dinanzi le sue fenestre, spasima per il fatto vostro.
Martebellonio. Io so molto ben che la poverella si deve strugger per me, ché n’ho fatto strugger dell’altre. Ma io vorrei venir presto alle strette.
Leccardo. Ella desia che fusse stato; e se voi mi pascete ben questa sera, io vi recarò buone novelle e vi do la mia fede.
Martebellonio. Guardati, non mi toccar la mano, ché se venisse, stringendo te ne farei polvere, ché stringe piú d’una tanaglia.
Leccardo. Cancaro! bisogna star in cervello con voi!
Martebellonio. Quando mi porterai nuova che vada a giacer con lei, ti farò un pasto da re.
Leccardo. (Prima sarò morto che sia pesta la pasta per questo pasto!).
Martebellonio. Io ti farei mangiar meco; ma perché oggi è martedí, in onor del dio Marte non mangio altro che una insalatuccia di punte di pugnali, quattro ballotte di archibuggio in cambio d’ulive, due balle d’artigliaria in pezzi con la salsa, un piatto di gelatina di orecchie, nasi e labra di capitani e colonelli, spolverizzati sopra di limatura di ferro come caso grattuggiato.
Leccardo. Che sète struzzo che digerite quel ferro?
Martebellonio. Lo digerisco, e diventa acciaio.
Leccardo. Dovete tener l’appalto con i ferrari dell’acciaio che cacate.
Martebellonio. Andrò a consultar un duello e tornando mangiaremo: cosí ad un tempo sodisfarò alla mia fama e alla tua fame.
Leccardo. Giá si è partito il pecorone: se non fusse che alcuna volta mi fa far certe corpacciate stravaganti in casa sua, non potrei soffrir le sue bugie. Mangia la carne mezza cruda e sanguigna: e dice che cosí mangiano i giganti, e che vuole assuefarsi a mangiar carne umana e bersi il sangue de’ suoi nemici. Non arò contento se non gli fo qualche burla. Andrò in casa di don Flaminio che deve aspettarmi.