< Gli duoi fratelli rivali
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Atto II Atto IV

ATTO III.

SCENA I.

Don Flaminio, Panimbolo.

Don Flaminio. Battuto da cosí crudel tempesta di contraria fortuna, la qual mi spinge addosso onde sopra onde, l’anima mia stordita dalla paura ondeggia in una gran tempesta e sta turbata di sorte che non credo viva al mondo oggi uomo che sia aggirato da vari pensieri come io. Temo di molte cose e fra tanto timore non so in che risolvermi. Una sola forza nascosa mi toglie ogni espedito consiglio: temo il genio del mio fratello che sempre suol dominarmi. E se bene son abbandonato dalla fortuna, non abbandonarmi ancor tu: fa’ che se non posso vincere, almen non resti vinto da lui. Tu sei il mio timone e la mia stella; gli occhi miei non mirano se non in te solo; non patir che facci naufragio.

Panimbolo. Questa tempesta che minaccia naufragio, questa istessa vi condurrá in porto.

Don Flaminio. Non posso soffrir che mio fratello abbi saputo far meglio di me.

Panimbolo. S’egli ha saputo fare, voi saperete disfare.

Don Flaminio. Io molte volte dalli tuoi astuti inganni d’invecchiata prudenzia ho conseguito molti disegni, de’ quali t’ho grande obligo.

Panimbolo. Io non ho mai fatto cosa in vostro servigio che non avesse avuto desio di farne altro tanto.

Don Flaminio. Io ho voluto rammemorargli e ringraziarti, acciò conoschi con che memoria gli serbo e che voglia ho di remeritargli. Fa’ conto che se per te schivo questa ruina che mi sta sopra, da te ricevo la sposa, la vita e l’onore insieme, che perdendo lei perderò il tutto miseramente: renderai me stesso a me stesso e mi torrai dalle mani della morte. Se sei stato mio servidore, d’oggi innanzi sarai mio fratello; e dal guiderdone che riceverai da me, conoscerai che so conoscere e guiderdonare i servigi.

Panimbolo. Padron caro, allor sarò conosciuto e guiderdonato da voi quando conoscerete quanto i vostri servigi mi sieno a caro.

Don Flaminio. Il fatto è passato molto innanzi, le nozze son vicine, il tempo breve, i rimedi scarsi: temo dell’impossibile.

Panimbolo. Non può l’uomo oprar bene, il quale si avvilisce nell’impossibile. Quando non ci valerá ragione, bontá e giustizia, poneremo mano agl’inganni e furfanterie, che queste vincono e superano tutte le cose; e poiché egli cerca con inganni tórvi l’amata, sará bene che con i medesmi inganni gli respondiamo e facciamo cader l’inganno sopra l’ingannatore. E che val l’uomo che non sa far bene e male? ben a’ buoni e mal a’ cattivi? Or mentre ho lingua e ingegno state sicuro.

Don Flaminio. Comincio a respirare.

Panimbolo. Ma mentre parlo rivocate voi stesso in voi stesso.

Don Flaminio. O dolor o rabbia che tu sei, fa’ tanta tregua con me fin che ordisca qualche garbuglio, e poi tormentami e uccidimi come a te piace. — Ma dimmi, hai pensato alcuna cosa?

Panimbolo. Cose belle a dire e grate all’orecchie ma non riuscibili; e nelle riuscibili non vorrei valermi di mezi cosí pericolosi.

Don Flaminio. Mai si vinse periglio senza periglio. Ma perché corremo per perduti e per me è morta ogni speranza e non spero se non nella disperazione, prima che muoia vo’ tentar ogni cosa per difficile e perigliosa che sia, e morendo io vo’ che tutto il mondo perisca meco. Ma tu imagina qualche cosa: fa’ che veggia i fiori della mia felicitade.

Panimbolo. Farò come il fico che prima ti dará i frutti che ti mostri i fiori.

Don Flaminio. Presto: come la guadagnaremo?

Panimbolo. Ancora non avemo cominciato ad ordire, e volete la tela tessuta! né qui bisogna tanta fretta, che la fretta è ruina de’ negozi e le subbite resoluzioni son madri de’ lunghi pentimenti. Sappiate che non è piú facil cosa che guastar un matrimonio prima che sia contratto: uno solo sospetto scompiglia il tutto. Diremo che molto tempo prima voi ci avete fatto l’amore e godutala.

Don Flaminio. La sua fama ci è contraria, perché è tenuta la piú onesta e onorata giovane che sia in Salerno.

Panimbolo. Un poco di vero mescolato con la bugia fa creder tutta la bugia. Aggiungeremo che la povertá sia stata cagione della sua disonestá.

Don Flaminio. Non lo crederá mio fratello ancorché lo vedesse con gli occhi suoi.

Panimbolo. E bisognando, faremo che lo veggia: come fargli veder di notte che alcuno entri in casa sua, mostrargli veste sue, gioie che portò quel giorno della festa o de’ doni propri mandati; e per mezzo della notte agevolmente si può far veder una cosa per un’altra.

Don Flaminio. E ciò come farassi?

Panimbolo. Il parasito potrá aiutarvi, che è portinaio della casa, in farvi entrar e uscire e prestarvi alcune delle sue robbe.

Don Flaminio. Intendo ch’il padre, se ben per altro riguardevole, è molto iracondo e tenace del suo onore e buona riputazione: ci ponemo in pericolo d’un irreparabil danno e ne ponno accader molti disordini.

Panimbolo. A questi disordini rimediaremo con molti ordini. Come vostro fratello rifiuterá la sposa, vi appresentarete col prete e la sposarete.

Don Flaminio. Carizia che or ama don Ignazio, che l’ha legitimamente chiesta per isposa e complito con molti presenti, come s’accorgerá che per i nostri poco fedeli uffici riceverá questa macchia ne! suo onore, non m’accetterá per isposo.

Panimbolo. Gli animi delle donne sono volubili: con nuovi benefici cancellaremo la vecchia ingiuria.

Don Flaminio. L’atto è pieno di speranza e di paura: non so a qual appigliarmi. Perché essendomi forzato mentre son vissuto di non macchiar la mia vita con alcuna poco men che onesta azione, or facendo un cosí gran tradimento, con che faccia comparirò piú mai fra cavalieri onorati? Mio fratello arderá di sdegno contro di me e ci uccideremo insieme.

Panimbolo. Noi lo battezaremo piú tosto un generoso inganno che vituperoso tradimento. Ad un amante è lecito usar ogni atto indegno di cavaliero contro qualsivoglia, purché rivale, per acquistarsi la donna amata: e negli amori non si ha rispetto né ad amicizia né a strettezza di sangue, e ogni inganno e tradimento per vincere è riputato ingegno e grande onore. Non si prendono molte cittá e castelli per tradimenti? e pur non tradimenti» ma «stratagemmi militari» si chiamano. E quando si combatte per vincere, non si fa mostra per ferir nell’occhio e si percuote nel cuore? Voi per diverse vie aspirate alle nozze di Carizia: ella è posta nel mezo a chi per valore o per ingegno la sa guadagnare. Or ditemi, non ha egli usato a voi tradimento? mentre occultamente trattava averla per isposa, vi facea trattar matrimonio con la figlia del conte. Egli cerca ingannar voi: sera ben che inganniate lui. Poi fatto il sponsalizio, accioché si vergogni, gli improverarete che, non trattando con voi alla libera, l’avete fatto conoscere che, facendo professione di strasavio e d’esser vostro maestro, non è buono ad imparar da voi; e poi fatto l’errore, si trapongono gli uomini da bene e frati e preti, anzi il vostro zio, a por accordi fra voi. E al fin bisogna che si cheti: che se ben v’uccidesse, non per questo otterrebbe il suo intento.

Don Flaminio. E non riuscendo quest’apparenza di notte, non so come andarebbe la cosa.

Panimbolo. Perché addur tante tème o perigli contro voi stesso? chi molto considera non vuol fare: lontani da’ pericoli, lontani dalle lodi della sperata vittoria: né valoroso né degno uomo può esser quello che schiva i pericoli, che aprono la via all’onore: temendo i pericoli, si guastano i desegni.

Don Flaminio. Chi non teme con ragione, incorre spesso in disordine; e la tèma fa riuscire i consigli vani.

Panimbolo. Quei, che col nome di «prudenza» cuoprono il natural timore, non fanno mai cosa buona. Quando mai facessimo altro, poneremo il tutto in disordine e confusione; e;Chi scampa un punto ne scampa cento.

Don Flaminio. Se ben è ardito ma pericoloso il consiglio e da spaventare ogni gran cuore, essendo disposto o di posseder Carizia o di morire, esseguiamolo: né vo’ per una ignobil paura mancar a me stesso.

Panimbolo. Sète risoluto?

Don Flaminio. Risolutissimo. Oh come con gli occhi del pensiero la veggio riuscir bella e netta! e mentre sto in questo pensiero, sento un secreto spirito nel cuore che mi conforta e spinge ad esseguirlo. Resta solo si parli al parasito se vuol aiutarci.

Panimbolo. Bisogna far presto, che don Ignazio è d’ingegno destro e vigilante: se non si previene con prestezza, si torrá Carizia. «Chi non fa conto del tempo perde le fatiche e le speranze dell’effetto».

Don Flaminio. Or mi par ogni indugio una gran lunghezza di tempo: s’avesse le podagre, saria venuto.

Panimbolo. Se menasse cosí i piedi nel caminare come le mani ne’ piatti o le mascelle quando mangia, che l’alza in su e giú come un ballone, sarebbe venuto prima.

Don Flaminio. Eccolo, ma con una ciera annunziatrice di cattive novelle.

SCENA II.

Leccardo, don Flaminio, Panimbolo.

Leccardo. (O Dio, che disgusto darò a don Flaminio recandoli cosí cattive novelle!) .

Don Flaminio. Leccardo, benvenuto!

Leccardo. Non son Leccardo né mai fui Leccardo, che non mai mi toccò leccar a mio modo.

Don Flaminio. Sempre sul mangiare!

Leccardo. Sempre su gli amori!

Don Flaminio. Se ti scaldasse quel fuoco che scalda me, diresti altrimenti.

Leccardo. Io credo che l’amor delle femine scaldi; ma l’amor del vino scalda piú forte assai.

Don Flaminio. Che novelle?

Leccardo. Dispiacevolissime. Don Ignazio avendo trattato col padre, ave ottenuto Carizia. Ha mandato presenti sontuosissimi; or s’apparecchia un banchetto di rari che s’han fatti al mondo. Le principali gentildonne addobbano Carizia; e se negletta parea cosí bella, or che fiammeggia fra quelli ori e quelle gioie par di bellezza indicibile.

Don Flaminio. Non mi recar piú noia con le tue parole che mi reca la presente materia.

Leccardo. Mi dispiace che per mia cagione non sia vostra sposa, che la vostra tavola mi sarebbe stata sempre apparecchiata. Or temo il contrario: che come vostro fratello saprá che son stato dalla vostra parte, mi ará adosso un odio mortale, e sarò in capo della lista di coloro che saranno sbanditi dalla sua casa.

Don Flaminio. Io non son cosí abbandonato dalla fortuna che, aiutandomi, Carizia non possa divenir mia moglie. E se darò ad intendere a don Ignazio che abbi goduto prima di Carizia, con manifesta speranza mi guadagnare le sue nozze. Onde vorrei che la notte che viene mi aprissi la porta di sua casa e mi facessi entrare, e mi prestassi una di quelle vesti che portò il giorno della festa e alcuni doni mandati da lui.

Leccardo. Cacasangue! questa è una solenne ribaldaria, e discoprendosi io sarei il primo a patire la penitenza, e non vorrei ch’avendomi io vivo mangiati molti uccelli cotti in mia vita, che or le cornacchie e corbi vivi se avessero a mangiare me morto sovra una forca.

Don Flaminio. Tu sai che mio zio è vicerè di Salerno: scoprendosi il fatto, saprá che il tutto arai operato per mia cagione e non offenderá te per non offender me.

Leccardo. No no, la forca è fatta per i disgraziati. La giusticia è come i ragnateli: le moschette piccole com’io ci incappano e ci restano morte, i signori come voi sono gli uccelli grandi che la stracciano e portano via.

Don Flaminio. Io sarei il piú ingrato uomo del mondo se, tu incappando per amor mio, non spendessi quant’ho per liberarti.

Leccardo. De’ poveretti prima si fa giustizia, poi si forma il processo e si dá la sentenza.

Don Flaminio. Non temer quello che non sará per avvenir mai.

Leccardo. Anzi sempre vien quello che manco si teme.

Don Flaminio. Dai impedimento ad un gran disegno, che non lo possiamo metter in atto e nel felice corso della vittoria si rompe: mi distruggi in erba e in spica le giá concette e mature speranze.

Leccardo. Voi volete che i buoni bocconi, che ho mangiato in casa vostra, mi costino come il cascio a’ topi quando incappano alla trappola.

Don Flaminio. Dunque non vói aiutarmi?

Leccardo. Credo io ben di no.

Don Flaminio. Dunque non vói?

Leccardo. Non voglio e non posso: pigliatevi quale volete di queste due.

Don Flaminio. Troppo disamorevole risposta.

Leccardo. Troppo sfacciata proposta.

Don Flaminio. Leccardo, sai che vorrei?

Leccardo. Che fussi appiccato!

Don Flaminio. Che quel e’ hai a fare lo facessi tosto, che il giorno va via e la sera se ne viene, e il beneficio consiste in questo momento di occasione. Usaró teco poche parole, che la brevitá del tempo non me ne concede piú. Mi par soverchio ricordarti le cortesie che ti ho fatte; e il volerti far pregar con tanta instanza diminuisce l’obligo che mi tieni. Vorrei che mi facessi piacere pari alla cortesia, e questo servigio sarebbe il condimento di tutti gli altri.

Leccardo. L’impresa che mi proponi è di farmi essere appiccato.

Don Flaminio. Fai gran danno non aiutandomi.

Leccardo. Maggior danno fo a me aiutandovi.

Don Flaminio. Leccardo, to’, prendi questi danari.

Leccardo. Ho steso la mano.

Don Flaminio. Togli questo argento.

Leccardo. L’argento mi comanda.

Don Flaminio. Togli quest’oro.

Leccardo. L’oro mi sforza. Oh come son belli e lampanti! par che buttino fuoco: fanno bel suono e bel vedere.

Don Flaminio. Sai che ho degli altri, che posso sodisfare alla tua ingordigia; e tu potrai taglieggiarmi a tuo modo.

Leccardo. Vorrei tornarteli, ma non posso distaccarmegli dalle mani.

Don Flaminio. Non sai quella pergola di presciutti, quei salsiccioni alla lombarda, quei formaggi e provature; non sai le compagnie di polli, gli esserciti di galline, quei squadroni di galli d’India, le cantine piene d’eccellentissimi vini che ho in casa? Ti chiuderò ivi dentro e non ti farò uscir se non arai divorato e digesto il tutto; sederai sempre a tavola mia con maestá cesarea e ti saranno posti innanzi piatti di maccheroni di polpe di capponi, d’un pasto l’uno, sempre bocconi da svogliati.

Leccardo. Panimbolo, che mi consigliaresti per non esser appiccato?

Panimbolo. Farti tagliar il collo prima.

Leccardo. Il malan che Dio ti dia!

Panimbolo. A te ho detto quanto bisogna far per non esser appiccato.

Leccardo. A tutti doi voi io lo posso insegnare.

Don Flaminio. Che dici eh, Leccardo mio?

Leccardo. Che volete che dica? tanti presenti, tante carezze, tante promesse farebbono pormi ad altro pericolo di questo; ma lassami retirar in consiglio secreto. — Leccardo, consiglia un poco te stesso: sei in un gran passo. Dall’una parte sta la fame e dall’altra la forca; e l’una e l’altra mi spaventano e mi minacciano. La fame uccide subbito, la forca ci vuol tempo a venire: la forca è una mala cosa, mi strangolare che non mangiarò piú mai; alla fame darò un perpetuo bando e mi prometto dovizia di tutte le cose. Ahi, infingardo e senza core! i soldati per tre ducati il mese vanno a rischio di spade, di picche, di archibuggi e di artegliarie; ed io per sí gran prezzo non posso contrastar con la forca? Meglio è morir una volta, che sempre mal vivere. Ho passati tanti pericoli, cosí passerò quest’altro. Cancaro! si mangiano molte nespole mature, poi un’acerba t’ingozza: «è di errore antico penitenza nuova».

Don Flaminio. Risoluzione? che l’indugio è pericoloso e il pericolo sovrasta.

Leccardo. Son risoluto servirvi piú volentieri che non sapresti commandarmi, e avvengane quello che si voglia: sète mio benefattore.

Don Flaminio. Avèrti che avendomi a fidar di te tu sia di fede intiera.

Leccardo. Interissima: non mai l’ho rotta perché non mai l’adoprai.

Don Flaminio. In che cosa mi serverai e in che modo?

Leccardo. Del modo non posso deliberare se non parlo prima con Chiaretta, ch’ella tien le chiavi delle sue casse. E gran tempo ch’ella cerca far l’amor con me.

Don Flaminio. Bisogna far l’amor con lei e dargli sodisfazione.

Leccardo. Piú tosto m’appiccherei. Mai feci l’amor se non con porchette e vitelle; ed è il peggio, ch’è una simia e pretende esser bellissima.

Don Flaminio. Bisogna tòr la medicina per una volta.

Leccardo. Quando la menerò a casa, fingerò por la mano alla chiave per aprir la porta. Basta: l’ingannerò di modo che mi aiuterá.

Don Flaminio. Lodo il consiglio: mandalo in essecuzione.

Leccardo. Fra poco saperete la risposta.

Don Flaminio. Non vo’ risposta che non ci è tempo: gli effetti rispondino per te.

Leccardo. La notte viene: non mi trattenete, che è vostro danno; io vo con buona fortuna.

Don Flaminio. A rivederci.

Leccardo. A riparlarci.

SCENA III.

Martebellonio, Leccardo.

Martebellonio. Non ho lasciato fornai, salcicciai, macellari, osterie e piscatori che non abbia cerco per trovar Leccardo, e non ho avuto ventura di ritrovarlo! ...

Leccardo. (Ecco il ballon da vento! oh come gionge a tempo! Muterò parere e farò disegni piú a proposito, che, per esser ignorantissimo, gli potrò dar ad intendere ciò che voglio).

Martebellonio. ... Certo sará imbriacato, e ficcatosi in qualche stalla si sará disfidato con la paglia a chi piú dorme. M’è salito capriccio in testa di Calidora e vorrei sborrar fantasia.

Leccardo. (Oh come servirò ben l’amico!). Ben venghi il bellissimo e innamoratissimo capitano!

Martebellonio. O Leccardo, ti son ito cercando tutt’oggi.

Leccardo. Se foste venuto dov’era, m’areste ritrovato al sicuro.

Martebellonio. Perché m’hai detto «bellissimo»?

Leccardo. Perché fate morir le principalissime gentildonne della cittá, e fra tutte Callidora, la mia padrona, che quando le muovo ragionamenti di voi fa atti da spiritata.

Martebellonio. Vorrei che la finissimo una volta, che io non facessi penar lei né ella me; vorrei che le facessi un’ambasciata da mia parte.

Leccardo. Farò quanto m’imponete.

Martebellonio. Dille che non è picciol favore che un mio pari s’inchini ad amar lei, che son amato dalle piú grandi donne del mondo.

Leccardo. Andrò a dirglielo.

Martebellonio. Ma non con certe parole umili che cagionino disprezzo, ma con un certo modo altiero che cagioni verso me onore e riverenza.

Leccardo. Le dirò che se non vi ama, con un soffio la farete volar per aria o, con un fulgore degli occhi vostri mirandola, l’abrusciarete.

Martebellonio. Dille ciò che tu vuoi, che le cortesi parole d’un mio pari minacciano tacitamente.

Leccardo. Ella spasima per voi.

Martebellonio. Poiché è cosí, dimmi: quando? come? Non m’intendi?

Leccardo. V’intendo bene; ma non so che dite.

Martebellonio. Mi porrai con lei da solo a solo?

Leccardo. Questa notte.

Martebellonio. Or sí che puoi comandarmi: sono assai amico delle preste risoluzioni, e per tal cagione nelle guerre ho conseguito grandissime vittorie. Ma venghiamo all’ora piú commoda a lei.

Leccardo. Quando dorme la vicinanza, alle due ore, la farò venir in questa casa terrena e vi sollazzarete con lei tutta la notte. Ma che segni mi darete quando venite di notte che vi conosca?

Martebellonio. Quando sentirai tremar la casa e la terra come se fusse un terremoto, son io che camino.

Leccardo. Andrò ad ordinar con lei l’ora che possa venir senza saputa di suo padre. Venite sicuramente.

Martebellonio. Andrò a cenare e sarò qui ad un tratto.

Leccardo. Oh com’è stata la venuta di costui a proposito! dalla cattiva via m’ha posto nella buona. Quando la fortuna vuol aiutare trova certe vie che non le trovarebbono cento consigli. Da Chiaretta non era possibile averne alcun piacere senza venir a’ ferri, dove pensandovi sudava sudor di morte; l’accoppiarò con costui di modo che l’uno non s’accorgerá dell’altro, e l’altro sará contento e ingannato. Veggio Chiaretta che toglie i ragnateli dalla porta dalla casa.

SCENA IV.

Chiaretta fantesca, Leccardo.

Chiaretta. Ho tanta allegrezza che Carizia, la mia padrona, sia maritata che pare ch’ancora io sia a parte delle sue dolcezze.

Leccardo. Maggior dolcezza aresti, se gustassi quello che gustará ella quando staranno abbracciati insieme.

Chiaretta. E se fusse a quei piaceri, ne gusterei ancor io com’ella: che pensi che non sia di carne e d’ossa come lei? o le membra mie non siano fatte come le sue?

Leccardo. Ci è qua uomo che ti fará gustare le medesime dolcezze.

Chiaretta. Sei tu forsi quello?

Leccardo. Cosí Dio m’aiuti!

Chiaretta. Tengo per fermo che non ti aiuteria, che tu hai piú a caro un bicchier di vino che quante donne son al mondo.

Leccardo. Dici il vero, ma tu sei tanto graziosa che faresti innamorar i sassi.

Chiaretta. S’io facessi innamorar i sassi, starei sicura che farei innamorar te che sei peggio d’un sasso.

Leccardo. Son risoluto esser tuo innamorato.

Chiaretta. Che ti ho ciera di vitella o di porca, che ti vói innamorar di me?

Leccardo. T’apponesti. Hai certi labruzzi scarlatini come un prosciutto, una bocchina uscita in fuori com’un porchetto, gli occhi lucenti come una capra, le poppe grassette come una vitella, le groppe grosse e ritonde come un cappone impastato: in somma non hai cosa che non mi muova l’appetito; ebbe torto la natura non farti una capra.

Chiaretta. E tu che vòi esser mio marito, un becco.

Leccardo. E quando starò abbracciato con te, mi parrá di gustare il sapor di tutti quest’animali, o mia vacca, o mio porchetto, o mia agnella, o mia capra!

Chiaretta. Starò dunque mal appresso te, che non mi mangi. Ma arei caro darti martello.

Leccardo. Sei piú atta a riceverlo che a darlo. — Oh come par bella Carizia or che pompeggia fra quelle vesti.

Chiaretta. Altro che tovaglia bianca ci vuol a tavola, altro che vesti ci vuole a far bella una donna: gli innamorati non amano le vesti ma quello che sta sotto le vesti. Bisogna aver buone carni, sode, grasse e lisce, come abbiamo noi fantesche che sempre fatichiamo; le gentildonne, che sempre stanno a spasso, le hanno cosí flaccide e molli che paiono vessiche sgonfiate.

Leccardo. Mi piace quanto dici.

Chiaretta. E le lor facce son tanto imbellettate che paiono maschere; e portano tal volta sul volto una bottega intiera di biacche, di solimati, di litargiri, di verzini e altre porcherie. Oibò, se le vedessi la mattina quando s’alzano da letto, diresti altrimente. Ma noi misere e poverelle abbiamo carestia d’acqua per lavarci la faccia: triste noi se non ci aiutasse la natura!

Leccardo. Veramente come una donna si parte da un buon naturale e il piglia artificiale, non può parer bella. Ma tu m’hai fatto risentir tutto: ti vorrei cercare un piacere.

Chiaretta. Che piacere?

Leccardo. Che mi presti una cosa.

Chiaretta. Che cosa?

Leccardo. Per un’ora, anzi mezza, anzi per un quarto; e te la ritorno come me la prestasti.

Chiaretta. Dimmi, che vorresti?

Leccardo. Vorrei... .

Chiaretta. Che vorresti?

Leccardo. Dubito non me la presterai.

Chiaretta. Ti presterò quanto ho per un’ora, per un quarto, per quanto tu vuoi: a me piú tosto manca l’occasione che la voluntá di far piacere; e se non basta in presto, te la dono.

Leccardo. So che sei d’una naturaccia larga e liberale, che ciò che ti è cercato in presto tu doni.

Chiaretta. Su, di’ presto, che vuoi?

Leccardo. Che mi presti la... .

Chiaretta. La che?

Leccardo. La... , mi vergogno di dire.

Chiaretta. Se ti vergogni dirmelo di giorno e in piazza, dimmelo all’oscuro in casa.

Leccardo. Vorrei che mi prestassi la gonna di Carizia.

Chiaretta. Il malan che Dio ti dia! non vòi altro di questo?

Leccardo. E che pensavi? qualche cosa trista?

Chiaretta. Che vuoi farne?

Leccardo. Vestirla a te. E alcuna di quelle cose che l’ha mandato don Ignazio, o di quelle che portò quel giorno della festa; che s’ella si vuole sposar dimani, noi ci sposaremo questa notte. Tu sarai Carizia, io don Ignazio.

Chiaretta. Tu mi burli.

Leccardo. Se ti burlo, facci Dio che mai gusti vino che mi piaccia!

Chiaretta. A questo giuramento ti credo. A che ora?

Leccardo. Alle due, in questa casetta terrena.

Chiaretta. Perché non in casa nostra?

Leccardo. Che facendo romore non siamo sconci: ne parlaremo piú a lungo in casa.

Chiaretta. Bene.

Leccardo. Non mancarmi della tua promessa.

Chiaretta. Nè tu della tua.

SCENA V

Don Flaminio, Leccardo, Panimbolo.

Don Flaminio. Ecco il veggiamo a punto. Leccardo, hai appontato con la fantesca?

Leccardo. No.

Don Flaminio. Perché?

Leccardo. L’aco era spuntato e avea la testa rotta.

Don Flaminio. Hai scherzato a bastanza: non piú scherzi.

Leccardo. Non abbiamo fatto cosa veruna.

Don Flaminio. Fortuna traditora, se tu volgi le spalle una volta, non volgi piú la faccia.

Leccardo. Anzi la fortuna s’è incontrata con te senza saper chi fussi, e tu senza conoscerla ti sei incontrato con lei.

Don Flaminio. Che m’apporti?

Leccardo. Le vesti, le gioie e l’istessa Carizia: piú di quel che m’hai chiesto e sapresti desiderare.

Don Flaminio. Perché dicivi di no?

Leccardo. Per farvi saper la nuova piú saporita; che si t’avessi detto cosí il tutto alla prima, non ti sarebbe piaciuta. Non solo aremo da Chiaretta quanto vogliamo; ma m’è venuto fra’ piedi quel capitano balordo, innamorato di Calidora, il qual ci servirá molto a proposito, di modo che ci si trovará gentilmente beffato e vostro fratello tradito.

Don Flaminio. Da cosí buona fortuna fo argumento che la cosa riuscirá assai netta. Conosco il capitano; ma come si sentirá beffato da te, ti fará una furia di bravate.

Leccardo. Ed io una furia di bastonate.

Don Flaminio. Leccardo mio, come arò per tuo mezo conseguito il mio bene, arai sempre la gola piena e ornata di catene d’oro.

Leccardo. Purché non rieschino in qualche capestro!

Don Flaminio. Che resta a far, Panimbolo?

Panimbolo. Come il fratello vi dará la nuova, mostrate non sapere nulla. Dilli che sia disonesta. Tu, Leccardo, tieni in piedi la prattica della fantesca, che noi ti avisaremo di passo in passo quanto è da farsi.

Leccardo. Raccomando alla fortuna la vostra audacia.

Panimbolo. Abbi cura spiar se don Ignazio prepara alcuna cosa.

SCENA VI.

Don Ignazio, Simbolo, Avanzino.

Don Ignazio. Talché noi abbiamo gentilmente burlato il fratello, il quale si pensava burlar me.

Simbolo. Se non era il mio consiglio, ti saresti trovato in un gran garbuglio.

Avanzino. Padrone, datemi la mancia, che me l’ho guadagnata davero.

Don Ignazio. E di che cosa?

Avanzino. Non la dico, se prima non me la prometteti.

Don Ignazio. Ti prometto quanto saprai tu dimandarmi.

Avanzino. Quando voi mi mandaste a casa del conte per veder se vi fusse, non so che mi fe’ far la via della porta della cittá che va a Tricarico. ...

Don Ignazio. E ben?

Avanzino. ...Trovai il conte il quale, perché se gli era sferrato il cavallo di tre piedi, s’era fermato a farlo ferrare, e li feci l’ambasciata da vostra parte. ...

Don Ignazio. E che ambasciata?

Avanzino. ... Come vostro fratello avea concluso il matrimonio per questa sera; e che voi non potevate aspettar fin alla sera, che volevate passar i capitoli allora allora e venire a casa. ...

Don Ignazio. Il conte che disse?

Avanzino. ...Se ne rallegrò molto; e cavalcato se n’andò alla via di Palazzo a vostro zio, e credo che adesso adesso sera spedito il negozio.

Don Ignazio. Chi t’ha ordinato che gli facessi quell’ambasciata?

Avanzino. S’io vedeva che voi vi attristavate per quell’indugio, io per levarvi da quella tristezza ho pregato il conte da vostra parte ch’avesse differito l’andare a Tricarico per quel giorno.

Don Ignazio. Ah traditore, assassino!

Avanzino. In che vi ho offeso io?

Don Ignazio. Non so perché non ti spezzi la testa in mille parti, come m’hai rovinato dal fondo e spezzatomi il cuore in mille parti!

Avanzino. Queste sono le grazie che mi rendete del piacer che vi ho fatto?

Don Ignazio. Un simile piacere sia fatto a te dal boia, gaglioffo!

Simbolo. Padrone, non bisogna irarvi contro costui.

Don Ignazio. Egli m’ha rovinato della vita e scompigliato il negozio.

Simbolo. Per questo non deve mai il padrone trattare i suoi fatti dinanzi a’ servi, i quali, quando non vi nocciono per malignitá, almeno vi nocciono per ignoranza.

Don Ignazio. Non so che farmi, son rovinato del tutto; m’ha posto in un garbuglio che non so come distaccarmene: andrá il conte al mio zio, dirá che l’ha trattato don Flaminio e che io ne sia contentissimo, effettuare il negozio.

Simbolo. Il caso è da temerne; ma i consigli de’ vecchi son tardi che non si muovono con tanta fretta, e poi egli ha desio maritarvi in Ispagna.

Don Ignazio. Or conosco la mia sciocchezza a lasciarmi persuadere da te di accettar il partito di mio fratello: con non men infelice che ignobil consiglio tu mi hai posto in tanti travagli.

Simbolo. Chi arebbe potuto imaginar tanta ignoranza d’uomo a far di sua testa quel che non gli era stato ordinato?

Don Ignazio. Fa’ che mai tu comparischi ove io mi sia; se non, che farò pentirtene.

Avanzino. Questi sono i premi d’aver dieci anni fídelmente servito: esser cacciato di casa.

Simbolo. Taci e non parlar piú in collera. Ecco vostro fratello.

SCENA VII.

Don Flaminio, Panimbolo, don Ignazio, Simbolo.

Don Ignazio. Don Flaminio, son andato gran pezzo ricercandovi: voi siate il benvenuto!

Don Flaminio. E voi ben trovato! Che buona nuova, poiché mostrate tanta allegrezza nel volto? ...

Panimbolo. (Oh quanto il cuore è differente dal volto!).

Don Flaminio. ... che cosa avete degna di tanta fretta e di tanta fatica?

Don Ignazio. Per farvi partecipe d’una mia allegrezza; che so che ve ne rallegrarete come me ne rallegro io, amandoci cosí reciprocamente come ci amiamo.

Panimbolo. (Mentite per la gola ambodoi!).

Don Flaminio. Rallegratemi presto, di grazia.

Don Ignazio. Perché, partito che fui da voi, andai in casa del conte e mi dissero ch’era andato a Tricarico e che trattava con altri dar la sua figlia, io mi ho tolto un’altra per moglie secondo il mio contento.

Don Flaminio. Non credo sia maggior contento nella vita che aver moglie a suo gusto e suo intento. Quella signora d’Ispagna che trattava don Rodrigo nostro zio?

Don Ignazio. Ho tolto una gentildonna povera ben sì ma nobilissima; ma la sua nobiltá è avanzata di gran lunga dalla sua somma bellezza, e l’un’e l’altra dalla onestá e dagli onorati costumi.

Don Flaminio. Ditelami di grazia, accioché mi rallegri anche io della vostra allegrezza; che per aver ricusata una figlia de grandi d’Ispagna, dev’esser oltremodo bella e onorata.

Don Ignazio. È Carizia.

Don Flaminio. Chi Carizia? non l’ho intesa mai nominare.

Panimbolo. (Ah, lingua mendace, non la conosci?).

Don Ignazio. Carizia, figlia di Eufranone.

Don Flaminio. Forsi volete dire una giovenetta che nella festa de’ tori comparve fra quelle gentildonne con una sottana gialla?

Don Ignazio. Quella istessa.

Don Flaminio. E questa è quella tanto onesta e onorata?

Don Ignazio. Quell'istessa.

Don Flaminio. Or veramente le cose non sono com’elle sono, ma come l’estima chi le possiede.

Don Ignazio. Che volete dir per questo?

Don Flaminio. Che non è tanta l’onestá e il suo merito quanto voi dite.

Don Ignazio. Dite cose da non credere.

Don Flaminio. Ma piene di veritá. Ma dove nasce in voi tanta meraviglia?

Don Ignazio. Anzi io non posso tanto meravigliarmi che basti.

Don Flaminio. Avete fatto molto male.

Don Ignazio. Sí ho fatto bene o male non l’ho da riporre nel vostro giudizio.

Don Flaminio. Or non sapete voi ch’ella col far di sè copia ad altri dá da viver alla sua casa, la qual è piú povera di quante ne sono in Salerno e che senza la sua mercanzia non potrebbe sostenersi?

Panimbolo. (Oh come i colori della morte escono ed entrano nel suo volto!).

Don Ignazio. Si fusse altro che voi, ch’ardisse dirme questo, lo mentirei per la gola.

Don Flaminio. Perdonatemi si son forzato passar i termini della modestia con voi, che quanto ve dico tutto è per l’affezione che vi porto.

Panimbolo. (Ah, lingua traditora!).

Don Flaminio. Dico che fate malamente, che per sodisfare ad un vostro momentaneo appetito, e d’una finta bellezza di una donnicciola, non stimate una vergogna che sia per risultar al vostro parentado; che ben sapete che una picciola macchia nella fama di una donna apporta vituperio e infamia a tutti.

Panimbolo. (L’ammonisce per caritá fraterna: che Dio lo benedica!) .

Don Ignazio. Io per diligente informazione, che per molti giorni n’ho presa da molte onoratissime persone, ne ho inteso tutto il contrario.

Don Flaminio. Dovete credere piú a me che a niuno.

Don Ignazio. Credo a voi non al fatto.

Don Flaminio. Anzi vo’ che crediate al fatto istesso non a me.

Don Ignazio. Ella è tanto onorata che la mia lingua s’onora del suo onore; e avendola ne resto io piú onorato. E voi, per farla da cavaliero, d’una gentildonna dovresti dirne bene ancorché fusse il falso, né dirne male ancorché fusse il vero.

Don Flaminio. Io non ho detto ciò perché sia mala lingua, ma perché sappiate il vero. Ma che non può la forza d’una gran veritá? Perciò non vorrei che correste con tanta furia in cosa ove bisogna maturo consiglio, e poi fatta non può piú guastarsi; e poi dal rimorso di voi stesso vi aveste a pentir d’una vana penitenza.

Don Ignazio. A me sta il crederlo.

Don Flaminio. A voi il credere, a me dir la veritá la qual m’apre la bocca e ministra le parole. Ma io, che tante volte v’ho fatto veder il falso leggiermente, or con tante ragioni non posso farvi creder il vero?

Don Ignazio. E però non vi credo nulla, perché solete dirmi le bugie e conosco i vostri artifici.

Panimbolo. (Oh come mal si conoscono i cuori!).

Don Flaminio. Ma se vogliamo adeguar il fatto, bisogna che ambodoi abbiamo pazienza, voi di ascoltare, io di parlare.

Don Ignazio. Dite suso.

Don Flaminio. Son piú di quattro mesi che me la godo a bell’aggio, né io son stato il primo o secondo; e vi fo sapere che non è tanto bella quanto voi la fate, che, toltone quel poco di visuccio inbellettato e dipinto, sotto i panni è la piú sgarbata e lorda creatura che si veda.

Don Ignazio. Non basto a crederlo.

Don Flaminio. Nè la sorella è men disonesta di lei; e un certo capitano ciarlone, che suol pratticar in casa, se la tiene a’ suoi comodi. Or questo, che è il peggior uomo che si trovi, sará vostro cognato; e ci son altre cose da dire e da non dire.

Don Ignazio. Mi par impossibile.

Don Flaminio. Farò che ascoltiati da molti il medesimo.

Don Ignazio. Se non lo credo a voi, meno lo crederò agli altri.

Panimbolo. (Li è restata la lingua nella gola e non ne può uscir parola).

Don Flaminio. E se non lo credete, farò che lo veggiate con gli occhi vostri.

Don Ignazio. Che cosa?

Don Flaminio. Poiché volete sposarla dimani, vo’ dormir seco la notte che viene: io sarò sposo notturno, voi diurno. State stupefatto?

Don Ignazio. Se mi fusse caduto un fulmine da presso, non starei cosí attonito.

Don Flaminio. Da un buon fratello come vi son io bisogna dirsi la veritá, poi in cose d’importanza e dove ci va l’onore.

Panimbolo. (O mondo traditore, tutto fizioni!).

Don Ignazio. Odo cose da voi non piú intese da altri.

Don Flaminio. Se vi fusse piú tempo, ve lo farei udir da mille lingue; ma perché viene la notte piú tosto che arei voluto, venete meco alle due ore, che andrò in casa sua: vi farò veder le sue vesti e i doni che l’avete mandati, e ce ne ritornaremo a casa insieme.

Don Ignazio. Se me fate veder questo, farò quel conto di lei che si deve far d’una sua pari.

Don Flaminio. Andiamo a cenare e verremo quando sará piú imbrunita la notte.

Don Ignazio. Andiamo.

Don Flaminio. Andate prima, che verrò dopoi.

Panimbolo. Giá è gito via.

Don Flaminio. Panimbolo, a me par che la cosa riesca bene.

Panimbolo. Avete finto assai naturale. Mi son accorto che la gelosia li attaccò la lingua che non possea esprimere parole!

Don Flaminio. Io non mi dispero della vittoria.

Panimbolo. Andiamo al fratello, acciò non prenda suspetto di noi e gli ordini presi non si disordenino.

Don Flaminio. Andiamo.

SCENA VIII.

Eufranone solo.

Eufranone. Giá ho dato la nuova a’ parenti, agli amici e a tutta la cittá; e ciascuno ne ha infinito piacere e allegrezza, veggendo che la nostra casa anticamente cosí nobile e ricca per una disgrazia sia venuta in tanta miseria e povertade, e ora per una cosí insperata occasione risorga a quel primiero splendore e grandezza; e che la bellezza e onorati costumi di Carizia, che meritava questa e maggior cosa, abbino sortito cosí felice ventura per esserne le sue parti tali da farsi amar insin dalle pietre. Oh quanta sará la mia allegrezza dimani, quando vedrò la mia figliola sposar da cosí degno cavaliero con tanta grandezza e concorso di nobili, e gionta a quell’eccelso grado che merita la sua bontade! Dubito che non passará mai questa notte che veggia quell’alba, per lo gran desiderio che ho di vederla. Ma perché trattengo me stesso in tante facende? andrò su, cenerò subito e andrò in letto, accioché dimani mi levi per tempo. Sommo Dio, appresso cui son riposte tutte le nostre speranze, fa’ riuscir queste nozze felici per tua solita bontade, che so ben che noi tanto non meritiamo!

SCENA IX.

Martebellonio solo.

Martebellonio. Credo che non sia minor virtute e grandezza ferir un corpo con la spada che un’anima con i sguardi: ben posso tenermi io fra tutti gli uomini glorioso, che posso non men con l’una che con l’altra; che non può starmi uomo, per gagliardo che sia, con la spada in mano innanzi, né men donna, per onesta e rigida, a’ colpi de’ sguardi miei; e se con la spada fo ferite che giungono insin al cuore, con gli occhi fo piaghe profondissime che giungono insin all’anima. Ecco Calidora che appena mi guardò una volta, che non sostenne il folgore del lampeggiante mio viso; onde ne restò sconquassata per sempre.

Ma io con un generoso ardire non men uso misericordia a quei che prostrati in terra mi chiedeno la vita in dono, che a quelle meschinelle e povere donne che si muoiono per amor mio. Or io mi son mosso a darle soccorso che non la vegga miseramente morire; ed è gran pezza che mi deve star aspettando.

Ma io non veggio per qui Leccardo, come restammo d’appontamento.

SCENA X.

Don Flaminio, don Ignazio, Martebellonio, Panimbolo, Simbolo.

Don Flaminio. Io sento genti in istrada, non so se potremo mandar ad effetto quanto desideriamo: dovevamo cenar prima.

Don Ignazio. A me non parea mai che venisse l’ora di veder un tanto impossibile, per poter dire liberamente poi che onore e castitá non si trova in femina; poiché costei, di cui si narrano tanti gran vanti della sua onestá, si trovi sí disonesta.

Don Flaminio. Cosí va il mondo, fratello: quella donna è tenuta piú casta che con piú secretezza fa i suoi fatti.

Martebellonio. Sento stradaioli. Olá, date la strada se non volete andar per fil di spada!

Panimbolo. Se non taci, poltronaccio, andrai per fil di bastone!

Martebellonio. (Costui par che sia indovino, che son poltrone).

Don Ignazio. Chi è costui?

Simbolo. Quel capitan vantatore.

Martebellonio. (Vo’ farmi conoscere, che non m’uccidano in iscambio). O signori don Flaminio e don Ignazio, son il capitan Martebellonio! E dove cosí di notte senza la mia compagnia? che è meglio aver me solo che una compagnia d’uomini d’arme.

Don Flaminio. E tu dove vai? a donne ah?

Martebellonio. L’hai indovinata, a fè di Marte!

Don Flaminio. A qualche puttana?

Martebellonio. Se non foste voi a’ quai pòrto rispetto, vi farei parlar altrimente. Io a puttane, che ho le principali gentildonne della citta e tutto il mondo che spasima del fatto mio? Vo ad una signora che è ridotta a pollo pesto per amor mio, e or la vo a soccorrere.

Don Flaminio. Signora di casa, fantesca eh?

Martebellonio. E pur lá! è Callidora, figlia d’Eufranone: conoscetela voi?

Don Flaminio. (Che ti dissi, fratello? cominci a scoprir paese). Noi la conosciamo molto bene; ma dove voi conosceste lei o sua sorella Carizia?

Martebellonio. Gran tempo fa che l’una e l’altra è impazzita del fatto mio; ma a me piace Calidora per esser di ciglio piú rigido e piú severo. Mi ha chiesto in grazia che vada a dormir seco per questa notte: or vo ad attenderle la promessa. Ma s’apre la porta e veggio il parasito che viene per ritrovarmi: perdonatemi.

SCENA XI.

Leccardo, Chiaretta, Martebellonio, don Ignazio, don Flaminio.

Leccardo. Entrate, signora, in questa camera qui vicino.

Chiaretta. T’obedisco.

Leccardo. Serratevi dentro e aspettatemi un pochetto. — Capitano, sète voi?

Martebellonio. Pezzo d’asino, non mi conosci?

Leccardo. Non vi conoscea, perché me diceste che venendo la vostra persona arei sentito il terremoto: son stato gran pezza attendendo se tremava la terra, però dubitavo se foste voi.

Martebellonio. Dite bene, e ti dirò la cagione. Poco anzi mi è venuta una lettera dall’altro mondo. Plutone mi si raccomanda e mi prega che non camini cosí gagliardo, che vada pian piano, che tante sono le pietre e le montagne che cascono dagli altissimi vòlti della terra, che mancò poco che non abissasse il mondo e sotterrasse lui vivo con Proserpina sua mogliere. Gli l’ho promesso, e perciò non camino al mio solito.

Leccardo. Entrate, che Calidora vi sta aspettando.

Don Flaminio. Che dici, fratello? è vero quanto vi ho detto? Io farò il segno: fis, fis.

Leccardo. Signor don Flaminio, Carizia vi prega a disagiarvi un poco, perché sta ragionando col padre.

Don Flaminio. Se ben è alquanto bellina, io non la teneva in tanto conto quanto voi.

Don Ignazio. Non vi ho io dimandato piú volte se in quel giorno della festa vi fusse piaciuta alcuna di quelle gentildonne, e mi dicesti di no?

Don Flaminio. Era cosí veramente; ma essendomi offerta costei con mio poco discomodo, me ce inchinai.

Leccardo. Signor don Flaminio, Carizia v’aspetta agli usati piaceri, e che le perdoniate se vi ha fatto aspettar un poco.

Don Flaminio. Don Ignazio, non vi partite; forse vi porterò alcuni de’ suoi abbigliamenti e de’ doni mandati.

Don Ignazio. Aspettarò sin a domani. — Che dici, Simbolo, aresti tu creduto ciò mai?

Simbolo. Veramente delle donne se ne deve far quel conto che dell’erbe fetide e amare che serveno per le medicine, che cavatone quel succo giovevole si buttano nel letamare: come l’uomo si ha cavato quel poco di diletto che s’ha da loro, nasconderle che piú non appaiano.

Don Ignazio. Veramente la femina è un pessimo animale e da non fidarsene punto. Ahi, fortuna, quando pensava che fussero finite le pene e cominciar la felicitá, allor ne son piú lontano che mai!

Don Flaminio. Don Ignazio, dove sète? Conoscete voi questa sottana gialla che portò quel giorno? non è questo l’anello che l’avete mandato a donare, le catene e gli altri vezzi di donne?

Don Ignazio. Li conosco e mi rincresce conoscerli.

Don Flaminio. Vi lascio le sue cose in vece di lei per questo breve tempo che mi è concesso goderla.

Don Ignazio. Eccole, tornatele adietro.

Don Flaminio. Vi lascio la buona notte.

Don Ignazio. Anzi notte per me la piú acerba e d’infelice memoria che sia mai stata! O stelle nemiche d’ogni mio bene — ben posso io chiamarvi crudeli, poiché nel nascer mio v’armaste di cosí funesti e miserabili influssi, — deh, fuggite dal cielo, spengete il vostro lume e lasciate per me in oscure tenebre il mondo! O luna, oscura il tuo splendore e cuopra il tuo volto ecclisse orribile e spaventoso, e in tua vece veggansi orrende comete colle sanguigne chiome! O maledetto giorno ch’io nacqui e che la viddi e che tanto piacque agli occhi miei! Ahi, dolenti occhi miei, a che infelice spettacolo sète stati serbati insin ad ora! veder ch’altri goda di quella donna che mi era assai piú cara dell’anima istessa. Ahi, che sento stracciarmi il cuore dentro da mille orsi e da mille tigri, e la gelosia m’impiaga l’anima di ferite inmedicabili e immortali! Ahi, Carizia, cosí onori il tuo sposo? queste sono le parole che ho intese da te questa mattina? non avevi altri uomini con chi potevi ingannarmi, e lasciar mio fratello? e se mi dispiace l’atto, mi dispiace piú assai con chi l’hai tu adoperato.

Simbolo. Padrone, fate resistenza al male, che non è maggior male che lasciarsi vincere dal male.

Don Ignazio. Ma io non sia quel che sono se non ne la farò pentire.

Simbolo. Dove andate?

Don Ignazio. A consigliarmi con la disperazione, con le furie infernali, che non so quale in me maggior sia l’ardore, il dolore o la gelosia.

Don Flaminio. Panimbolo, son partiti?

Don Ignazio. Sí, sono.

Leccardo. Don Flaminio, come sei stato servito da me?

Don Flaminio. Benissimo, meglio che s’io fussi stato nel tuo cuore o tu nel mio.

Leccardo. Che dici del capitano, del suo non aspettato e fattoci beneficio?

Don Flaminio. La fortuna non ha ingannato punto il nostro desiderio.

Leccardo. Mai mi son compiaciuto di me stesso come ora, tanto mi par d’aver fatto bene.

Don Flaminio. Te ne ho grande obligo.

Leccardo. Ne avete cagione.

Don Flaminio. Panimbolo, par che siamo fuori di periglio.

Panimbolo. Anzi or siamo nel periglio; e poiché si è cominciato, bisogna finire, che non facci a noi egli quel che pensiamo di far a lui.

Leccardo. La fortuna scherza con noi, che scambievolmente abbassa l’uno e inalza l’altro.

Don Flaminio. Patisca or egli quelle pene che ha fatto patir a me! Egli piange ed io rido.

Leccardo. Ben sará se non s’appicca con le sue mani!

Don Flaminio. Questo bisogno sarebbe a punto per farmi felice! Andiamo.

Leccardo. Ed io vo’ entrar qui dentro e prendermi spasso di Chiaretta col capitano.

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