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XV.
La gente diceva che la Lia era andata a stare con don Michele; già i Malavoglia non avevano più niente da perdere, e don Michele almeno le avrebbe dato il pane. Padron ’Ntoni adesso era diventato del tutto un uccellaccio di camposanto, e non faceva altro che andare intorno, rotto in due, con quella faccia di pipa, a dir proverbi senza capo e senza coda: «Ad albero caduto accetta! accetta!» — «Chi cade nell’acqua è forza che si bagni» — «A cavallo magro, mosche». — E a chi gli domandava perchè andasse sempre in giro, diceva che «la fame fa uscire il lupo dal bosco», e «cane affamato non teme bastone»; ma di lui non volevano saperne, ora che era ridotto in quello stato. Ognuno gli diceva la sua, e gli domandava cosa aspettasse colle spalle al muro, lì sotto il campanile, che pareva lo zio Crocifisso quando aspettava d’imprestare dei denari alla gente, seduto a ridosso delle barche tirate in secco, come se ci avesse in mare la paranza di padron Cipolla; e padron ’Ntoni rispondeva che aspettava la morte, la quale non voleva venire a prenderselo, perchè «lo sfortunato ha i giorni lunghi». Della Lia nessuno parlava più in casa, nemmeno Sant’Agata, la quale se voleva sfogarsi andava a piangere di nascosto, davanti al lettuccio della mamma, quando in casa non c’era nessuno. Adesso la casa era grande come il mare, e ci si perdevano dentro. I denari se n’erano andati con ’Ntoni; Alessi era sempre lontano, per guadagnarsi il pane, di qua e di là; e la Nunziata faceva la carità di venire ad accendere il fuoco, quando la Mena doveva andare a prendere il nonno per mano, verso l’avemaria, come un bambino, perchè di sera non ci vedeva più, peggio di una gallina.
Don Silvestro, e gli altri del paese, dicevano che Alessi avrebbe fatto meglio a mandare il nonno all’Albergo dei poveri, ora che non era più buono a nulla; ma questa era la sola cosa che facesse paura al poveraccio. Ogni volta che la Mena andava a metterlo al sole, conducendolo per mano, e ci stava per tutta la giornata ad aspettare la morte, credeva che lo portassero all’Albergo, talmente era diventato un cucco, e balbettava: — La morte non viene mai! — tanto che certuni andavano a chiedergli ridendo dove fosse arrivata.
Alessi tornava a casa il sabato, e gli veniva a contare i denari della settimana, come se il nonno avesse ancora il giudizio. Egli rispondeva sempre di sì, col capo; e bisognava che andasse a nascondere il gruzzoletto sotto la materassa, e gli diceva, per farlo contento, che ci voleva poco a mettere insieme un’altra volta i denari della casa del nespolo, e fra un anno o due ci sarebbero arrivati.
Ma il vecchio scrollava il capo, colla testa dura, e ribatteva che adesso non avevano più bisogno della casa; e meglio che non ci fosse mai stata al mondo la casa dei Malavoglia, ora che i Malavoglia erano di qua e di là.
Una volta chiamò in disparte la Nunziata, sotto il mandorlo, nel momento in cui non ci era nessuno, e pareva dovesse dirle qualcosa di grosso; però muoveva le labbra senza parlare, e stava cercando le parole, guardando di qua e di là. — È vero quella cosa che hanno detto di Lia? — chiese infine.
— No! — rispondeva Nunziata, colle mani in croce, — no! per la Madonna dell’Ognina, non è vero!
Egli si mise a tentennare il capo, col mento sul petto. — Allora perchè se n’è fuggita anche lei? perchè se n’è fuggita?
E l’andava cercando per la casa, fingendo di aver perso il berretto; toccava il letto e il canterano, e si metteva a sedere al telaio, senza dir nulla. — Lo sai? chiese infine; lo sai dove se n’è andata? — Ma alla Mena non disse nulla.
La Nunziata non lo sapeva, in coscienza, nè nessun altro del paese.
Una sera si fermò nella strada del Nero Alfio Mosca, col carro, che ci aveva attaccato il mulo adesso, e per questo aveva acchiappato le febbri alla Bicocca, ed era stato per morire, tanto che aveva la faccia gialla e la pancia grossa come un otre; ma il mulo era grasso e col pelo lucente.
— Vi rammentate quando sono partito per Bicocca? — diceva lui, — che stavate ancora nella casa del nespolo? Ora ogni cosa è cambiata, chè «il mondo è tondo, chi nuota e chi va a fondo». — Stavolta non potevano dargli nemmeno un bicchiere di vino, pel ben tornato. Compar Alfio lo sapeva dov’era Lia; l’aveva vista coi suoi occhi, ed era stato come se avesse visto comare Mena quando stavano a chiacchierare da una finestra all’altra. Perciò guardava di qua e di là i mobili e le pareti, come se ci avesse il carro carico sullo stomaco, e sedette anche lui senza dire una parola accanto al desco dove non c’era nulla, e nessuno sedeva più a mangiare la sera.
— Ora me ne vado, — ripeteva lui, vedendo che non gli dicevano nulla. — Quando uno lascia il suo paese è meglio che non ci torni più, perchè ogni cosa muta faccia mentre egli è lontano, e anche le faccie con cui lo guardano son mutate, e sembra che sia diventato straniero anche lui.
Mena continuava a star zitta. Intanto Alessi gli raccontò che voleva pigliarsi la Nunziata, quando avrebbe raccolto un po’ di denari, ed Alfio gli rispose che faceva bene, se la Nunziata aveva un po’ di denari anche lei, chè era una buona ragazza, e tutti la conoscevano in paese. Così anche i parenti dimenticano quelli che non ci sono più, e ognuno a questo mondo è fatto per pensare a tirare la carretta che gli ha data Dio, come l’asino di compar Alfio, che adesso faceva chissà cosa, dopo che era andato in mano altrui.
La Nunziata ci aveva la sua dote anche lei, dacchè i suoi fratellini cominciavano a buscarsi qualche soldo, e non aveva voluto comprarsi nè oro nè roba bianca, perchè diceva che quelle cose son fatte per i ricchi, e la roba bianca non era bene di farsela intanto che cresceva ancora.
Era cresciuta infatti una ragazza alta e sottile come un manico di scopa, coi capelli neri, e gli occhi buoni buoni, che quando si metteva a sedere sulla porta, con tutti quei monelli davanti, pareva che pensasse ancora a suo padre nel giorno che li aveva piantati, e ai guai in mezzo ai quali aveva sgambettato sino allora, coi suoi fratellini appesi alle gonnelle. Al vedere come se n’era tirata fuori dai guai, lei e i suoi fratellini, così debole e sottile al pari di un manico di scopa, ognuno la salutava e si fermava volentieri a far quattro chiacchiere con lei.
— I denari ce li abbiamo, — disse a compar Alfio, il quale era quasi un parente, da tanto che lo conoscevano. — A Ognissanti mio fratello entra garzone da massaro Filippo, e il minore prenderà il suo posto da padron Cipolla. Quando avrò collocato anche Turi, allora mi mariterò; ma bisogna aspettare che io abbia gli anni, e che mio padre mi dia il consenso.
— O che tuo padre pensa più che sei al mondo! — disse Alfio.
— S’egli tornasse ora, — rispose Nunziata con quella voce dolce, e così calma, colle braccia sulle ginocchia, — ei non se ne andrebbe più, perchè adesso i denari li abbiamo.
Allora compar Alfio tornò a dire ad Alessi che faceva bene a prendersi la Nunziata, se ci aveva quel po’ di denari.
— Compreremo la casa del nespolo, — aggiunse Alessi; — e il nonno starà con noi. Quando torneranno gli altri ci staranno pure; e se tornerà il padre della Nunziata ci sarà posto anche per lui.
Di Lia non fecero parola; ma ci pensavano tutti e tre, mentre stavano a guardare il lume, colle braccia sui ginocchi.
Finalmente compare Mosca si alzò per andarsene, perchè il suo mulo scuoteva la sonagliera, quasi l’avesse conosciuta anch’esso colei che compar Alfio aveva incontrata per la strada, e che adesso non l’aspettavano più nella casa del nespolo.
Lo zio Crocifisso invece aspettava da un pezzo i Malavoglia per quella casa del nespolo che nessuno la voleva, come se fosse scomunicata, e gli era rimasta sulla pancia; sicchè appena seppe che era tornato in paese Alfio Mosca, quello cui voleva far rompere le ossa a bastonate, quand’era geloso della Vespa, andò a pregarlo che s’intromettesse coi Malavoglia per fargli conchiudere il negozio. Adesso quando l’incontrava per le strade lo salutava, e cercava di mandargli anche la Vespa per parlargli di quell’affare, chissà che non si fossero rammentati dell’amore antico, nello stesso tempo, e compare Mosca non riescisse a levargli quella croce di su le spalle. Ma quella cagna della Vespa non voleva sentir parlare di compar Alfio, nè di nessuno, adesso che ci aveva il suo marito ed era padrona in casa, e non avrebbe cangiato lo zio Crocifisso con Vittorio Emanuele in carne ed ossa, neanche se l’avessero tirata pei capelli. — Mi toccano tutte a me, le disgrazie! — si lamentava lo zio Crocifisso; e andava a sfogarsi con compare Alfio, e si picchiava il petto come davanti al confessore, di aver pensato a pagare dieci lire per fargli rompere le ossa a bastonate.
— Ah! compare Alfio! se sapeste che rovina è capitata nella mia casa, che non dormo nè mangio più, e non faccio altro che della bile, e non sono più padrone di un baiocco del fatto mio, dopo aver sudato tutta la vita ed essermi levato il pan di bocca per raggranellarlo a soldo a soldo. Ora mi tocca vederlo in mano di quella serpe, la quale fa e disfà come vuol lei! e non mi riesce nemmeno di levarmela d’addosso per via del giudice, che non si lascerebbe tentare neanche da satanasso! e mi vuol tanto bene che non me la leverò d’addosso prima di crepare, se non chiudo gli occhi dalla disperazione!
— Quello che stavo dicendo qui a compare Alfio, — seguitava lo zio Crocifisso vedendo accostarsi padron Cipolla, il quale andava bighellonando per la piazza come un cane di macellaio, dacchè gli era entrata in casa quell’altra vespa della Mangiacarrubbe. — Non possiamo più stare nemmeno in casa per non schiattare dalla bile! Ci hanno scacciato fuori di casa nostra, quelle carogne! hanno fatto come il furetto col coniglio. Le donne son messe al mondo per castigo dei nostri peccati. Senza di loro si starebbe meglio. Chi ce l’avrebbe detto, eh? padron Fortunato! Noi che avevamo la pace degli angeli! Guardate com’è fatto il mondo! C’è gente che va cercando questo negozio del matrimonio colla lanterna, mentre chi ci si trova vorrebbe levarsene.
Padron Fortunato stette un po’ a fregarsi il mento, e poi si lasciò andare: — Il matrimonio è come una trappola di topi; quelli che son dentro vorrebbero uscirne, e gli altri ci girano intorno per entrarvi.
— A me mi sembrano pazzi! Vedete don Silvestro, cosa gli manca? e s’è messo in testa di far cascare la Zuppidda coi suoi piedi, vanno dicendo; e se comare Venera non trova di meglio, bisogna che la lasci cascare.
Padron Cipolla continuò a fregarsi il mento e non disse altro. — Sentite, compare Alfio, — seguitò Campana di legno, — fatemelo conchiudere quel negozio della casa coi Malavoglia, finchè ci hanno quei soldi, che vi regalerò poi da comprarvi le scarpe, per i passi che farete.
Compare Alfio tornò a parlare ai Malavoglia; ma padron ’Ntoni ora scuoteva il capo, e diceva di no. — Adesso della casa non abbiamo che farne, perchè Mena non si può più maritare, e dei Malavoglia non ci è nessuno! Io ci sono ancora perchè gli sfortunati hanno i giorni lunghi. Ma quando avrò chiuso gli occhi Alessi piglierà la Nunziata e se ne andrà via dal paese.
Anch’egli stava per andarsene. Il più del tempo lo passava in letto, come un gambero sotto i ciottoli, abbaiando peggio di un cane: — Cosa ci ho a far qui io? — balbettava; e gli pareva di rubare la minestra che gli davano. Invano Alessi e la Mena cercavano di dissuaderlo. E’ rispondeva che rubava loro il tempo e la minestra, e voleva che gli contassero i denari messi sotto la materassa, e se li vedeva squagliare a poco a poco, borbottava: — Almeno se non ci fossi io non spendereste tanto. Ora non ho più niente da far qui, e potrei andarmene.
Don Ciccio, il quale veniva a tastargli il polso, confermava che era meglio lo portassero all’ospedale, perchè lì dov’era si mangiava la carne sua e quella degli altri, senza utile. Intanto il poveraccio stava a vedere quello che dicessero gli altri, cogli occhi spenti, e aveva paura che lo mandassero all’albergo. Alessi non voleva sentirne parlare di mandarlo all’albergo, e diceva che finchè ci era del pane, ce n’era per tutti; e la Mena, dall’altra parte, diceva di no anch’essa, e lo conduceva al sole, nelle belle giornate, e si metteva accanto a lui colla conocchia, a raccontargli delle fiabe, come ai bambini, e a filare, quando non aveva da andare al lavatoio. Gli parlava pure di quel che avrebbero fatto quando arrivava un po’ di provvidenza, per fargli allargare il cuore; gli diceva che avrebbero comprato un vitellino a San Sebastiano, ed ella bastava a procurargli l’erba e il mangime per l’inverno. A maggio si sarebbe venduto con guadagno; e gli faceva vedere pure le nidiate di pulcini che aveva messo, e venivano a pigolare davanti ai loro piedi, al sole, starnazzando nella polvere della strada. Coi denari dei pulcini avrebbe anche comperato un maiale, per non perdere le buccie dei fichidindia, e l’acqua che serviva a cuocere la minestra, e a fin d’anno sarebbe stato come aver messo dei soldi nel salvadanaio. Il vecchio, colle mani sul bastone, approvava del capo, guardando i pulcini. Ci stava così attento, poveretto, che arrivava fino a dire che se avessero avuto la casa del nespolo si poteva allevarlo nel cortile, il maiale, giacchè quello era un guadagno sicuro con compare Naso. Nella casa del nespolo c’era pure la stalla pel vitello, e la tettoia pel mangime, e ogni cosa; se ne andava ricordando a poco a poco, cercando qua e là cogli occhi morti e col mento sul bastone. Poi domandava sottovoce alla nipote: — Cosa ha detto don Ciccio dell’ospedale? — Mena allora lo sgridava come si fa coi bambini, e gli rispondeva: — Perchè pensate a quelle cose? — Egli stava zitto, e ascoltava cheto cheto tutto quello che diceva la ragazza. Ma poi tornava a ripetere: — Non mi ci mandare all’ospedale, perchè non ci sono avvezzo.
Infine non si alzava più dal letto, e don Ciccio disse che era proprio finita, e non ci era più bisogno di lui, chè là in quel letto dove era, poteva starci anche degli anni, e Alessi o la Mena ed anche la Nunziata dovevano perdere le loro giornate a far la guardia; se no se lo sarebbero mangiato i porci, come trovavano l’uscio aperto.
Padron ’Ntoni intendeva benissimo quello che si diceva, perchè guardava tutti in viso ad uno ad uno, con certi occhi che facevano male a vedere; ed appena il medico se ne fu andato, mentre stava a parlare ancora sull’uscio con Mena che piangeva, e Alessi il quale diceva di no e batteva i piedi, fece segno alla Nunziata di accostarsi al letto, e le disse piano:
— Se mi mandate all’ospedale sarà meglio; qui ve li mangio io i denari della settimana. Mandami via quando non ci sarà in casa la Mena e Alessi. Direbbero di no perchè hanno il buon cuore dei Malavoglia; ma io vi mangio i soldi della casa, e poi il medico ha detto che posso starci degli anni qui dove sono. E qui non ci ho più nulla da fare. Però non vorrei camparci degli anni, laggiù all’ospedale.
La Nunziata si metteva a piangere anch’essa e diceva di no, tanto che tutto il vicinato sparlava di loro, che volevano fare i superbi senza aver pane da mangiare. Si vergognavano di mandare il nonno all’ospedale, mentre ci avevano tutti gli altri di qua e di là, e dove poi!
E la Santuzza baciava la medaglia che portava sul petto, per ringraziare la Madonna che l’aveva protetta dal pericolo dove era andata a cascare la sorella di Sant’Agata, come tante altre. — Quel povero vecchio dovrebbero mandarlo all’ospedale, per non fargli avere il purgatorio prima che muoia, — diceva. Almeno lei non gli faceva mancar nulla a suo padre, adesso che era invalido, e se lo teneva sull’uscio. — E vi aiuta anzi! — aggiungeva Piedipapera. — Quell’invalido lì vale tant’oro quanto pesa! Par fatto apposta per la porta di un’osteria, così cieco e rattrappito com’è. E dovreste pregare la Madonna che vi campi cent’anni. Già cosa vi costa?
La Santuzza aveva ragione di baciare la medaglia; nessuno poteva dire nulla dei fatti suoi; dacchè don Michele se n’era andato, massaro Filippo non si faceva veder più nemmeno lui, e la gente diceva che colui non sapeva stare senza l’aiuto di don Michele. Ora la moglie di Cinghialenta veniva di tanto in tanto a fare il diavolo davanti all’osteria, coi pugni sui fianchi, strillando che la Santuzza le rubava il marito, e perciò quando costui tornava a casa ella si buscava delle frustate colle redini della cavezza, dopo che Cinghialenta aveva venduto il mulo, e non sapeva più che farsene delle redini, che la notte i vicini non potevano chiuder occhio dalle grida.
— Questo non va bene! — diceva don Silvestro, — la cavezza è fatta per il mulo. Compare Cinghialenta è un uomo grossolano. — Egli andava a dire queste cose quando c’era comare Venera la Zuppidda, la quale dopo che la leva si portava via i giovanotti del paese, aveva finito per addomesticarsi un po’ con lui.
— Ognuno sa gli affari di casa sua, — rispondeva la Zuppidda; — se lo dite per ciò che vanno predicando le male lingue, che io metto le mani addosso a mio marito, vi rispondo che non sapete un corno, tuttochè sapete di lettera. Del resto ognuno in casa sua fa quel che gli pare e piace. Il padrone è mio marito.
— Tu lasciali dire, — rispondeva suo marito. — Poi lo sanno che se vengono a toccarmi il naso ne faccio tonnina!
La Zuppidda adesso predicava che il capo della casa era suo marito, ed egli era il padrone di maritare la Barbara con chi gli piaceva, e se voleva darla a don Silvestro voleva dire che gliela aveva promessa, e aveva chinato il capo; e quando suo marito aveva chinato il capo, era peggio di un bue.
— Già! — sentenziava don Franco colla barba in aria, — ha chinato il capo perchè don Silvestro è di quelli che tengono il manico del mestolo.
Dacchè era stato al tribunale in mezzo a tutti quegli sbirri, don Franco era più arrabbiato di prima, e giurava che non ci sarebbe tornato più neanche in mezzo ai carabinieri. Allorchè don Giammaria alzava la voce per discutere, ei gli piantava le unghie negli occhi, rizzandosi sulle gambette, rosso come un gallo, e lo cacciava in fondo alla bottega. — Lo fate apposta per compromettermi! — gli sputava in faccia colla schiuma alla bocca; e se due quistionavano nella piazza, correva a chiudere l’uscio acciò non lo chiamassero per testimonio. Don Giammaria era trionfante; quell’asparagio verde aveva del coraggio quanto un leone, perchè ci aveva la tonaca sulle spalle, e sparlava del Governo, pappandosi la lira al giorno, e diceva che se lo meritavano quel Governo, giacchè avevano fatto la rivoluzione, e ora venivano i forestieri a rapire le donne e i denari della gente. Ei sapeva di chi parlava, che gli era venuta l’itterizia dalla collera, e donna Rosolina era dimagrata dalla bile, massime dopo che se n’era andato don Michele, e s’erano sapute tutte le porcherie di quest’altro. Adesso non faceva che andare a caccia di messe e di confessori, di qua e di là, sino all’Ognina e ad Aci Castello, e trascurava la conserva dei pomidoro e il tonno sottolio, per darsi a Dio.
Don Franco allora si sfogava mettendosi a ridere come una gallina, all’uso di don Silvestro, rizzandosi sulla punta dei piedi, coll’uscio spalancato a due battenti, che per questo non c’era pericolo d’andare in prigione; e diceva che finchè ci sarebbero stati i preti era sempre la stessa cosa, e bisognava fare tavola rasa, s’intendeva lui, trinciando colla mano in giro.
— Io per me li vorrei tutti arsi! — rispondeva don Giammaria, che intendeva anche lui di chi parlava.
Ora lo speziale non teneva più cattedra; e quando veniva don Silvestro, andava a pestare i suoi unguenti nel mortaio, per non compromettersi. Già tutti quelli che bazzicano col Governo, e mangiano il pane dei re, son tutta gente da guardarsene. E si sfogava soltanto con don Giammaria, e con don Ciccio il medico, quando lasciava l’asinello alla spezieria per andare a tastare il polso a padron ’Ntoni, e ricette non ne scriveva, perchè diceva che erano inutili, con quella povera gente che non aveva denari da buttar via.
— Allora perchè non lo mandano all’ospedale, quel vecchio? — tornavano a dire gli altri, — e perchè se lo tengono in casa a farselo mangiare dalle pulci?
Tanto che, pesta e ripesta, il medico ripeteva che andava e veniva per niente, e faceva il viaggio del sale, e allorchè c’erano le comari davanti al letto del malato, comare Piedipapera, la cugina Anna o la Nunziata, predicava sempre che se lo mangiavano le pulci. Padron ’Ntoni non osava più fiatare, colla faccia bianca e disfatta. E come le comari cinguettavano fra di loro, e fino alla Nunziata cascavan le braccia, un giorno che Alessi non c’era, disse infine: — Chiamatemi compare Mosca, che lui me la farà la carità di portarmi all’ospedale sul suo carro.
Così padron ’Ntoni se ne andò all’ospedale sul carro di Alfio Mosca, il quale ci aveva messo la materassa ed i guanciali, ma il povero malato, sebbene non dicesse nulla, andava guardando dappertutto, mentre lo portavano fuori reggendolo per le ascelle, il giorno in cui Alessi era andato a Riposto, e avevano mandato via la Mena con un pretesto, che se no non l’avrebbero lasciato partire. Sulla strada del Nero, nel passare davanti alla casa del nespolo, e nell’attraversare la piazza, padron ’Ntoni continuava a guardare di qua e di là per stamparsi in mente ogni cosa. Alfio guidava il mulo da una parte, e Nunziata, la quale aveva lasciato in custodia a Turi il vitello, i tacchini, e le pollastre, veniva a piedi dall’altro lato, col fagotto delle camicie sotto il braccio. Al vedere passare il carro ognuno si affacciava sulla porta, e stava a guardare; e don Silvestro disse che avevano fatto bene, per questo il Comune pagava la sua rata all’ospedale; e don Franco avrebbe anche spifferata la sua predica, che ce l’aveva in testa bella e fatta, se non ci fosse stato lì presente don Silvestro. — Almeno quel povero diavolo va a stare in pace, — conchiuse lo zio Crocifisso.
— «Necessità abbassa nobiltà», — rispose padron Cipolla; e la Santuzza disse un’avemaria pel poveretto. Solo la cugina Anna e comare Grazia Piedipapera si asciugavano gli occhi col grembiule, come il carro se ne andava lentamente sobbalzando sui sassi. Ma compare Tino rimbeccò alla moglie. — O perchè mi fai il piagnisteo? Che son forse morto io? A te che te ne importa?
Alfio Mosca, mentre guidava il mulo, andava raccontando alla Nunziata come e dove avesse vista la Lia, ch’era tutta Sant’Agata, e ancora non gli pareva vero a lui stesso che l’avesse vista coi suoi occhi, tanto che la voce gli mancava nella gola, mentre ne parlava per ingannare la noia, lungo la strada polverosa. — Ah Nunziata! chi l’avrebbe detto, quando stavamo a chiacchierare da un uscio all’altro, e c’era la luna, e i vicini discorrevano lì davanti, e si udiva colpettare tutto il giorno quel telaio di Sant’Agata, e quelle galline che la conoscevano soltanto all’aprire che faceva il rastrello, e la Longa che la chiamava pel cortile, che ogni cosa si udiva da casa mia come se fosse stato proprio là dentro! Povera Longa! Adesso, vedi, che ci ho il mulo, e ogni cosa come desideravo, che se fosse venuto a dirmelo l’angelo del cielo non ci avrei creduto, adesso penso sempre a quelle sere là, quando udivo la voce di voialtre, mentre governavo l’asino, e vedevo il lume nella casa del nespolo, che ora è chiusa, e quando son tornato non ho trovato più niente di quel che avevo lasciato, e comare Mena non mi è parsa più quella. Uno che se ne va dal paese è meglio non ci torni più. Vedi, ora penso pure a quel povero asino che ha lavorato con me tanto tempo, e andava sempre, sole o pioggia, col capo basso e le orecchie larghe. Adesso chissà dove lo cacciano, e con quali carichi, e per quali strade, colle orecchie più basse ancora, chè anch’egli fiuta col naso la terra che deve raccoglierlo, come si fa vecchio, povera bestia!
Padron ’Ntoni, disteso sulla materassa, non udiva nulla, e ci avevano messo sul carro una coperta colle canne, sicchè sembrava che portassero un morto. — Per lui è meglio che non oda più nulla, — seguitava compare Alfio. — L’angustia di ’Ntoni già l’ha sentita, e un giorno o l’altro gli toccherebbe anche di sentire come è andata a finire la Lia.
— Me lo domandava spesso, quando eravamo soli, — rispose la Nunziata. — Voleva sapere dove fosse.
— È andata dietro a suo fratello. Noi poveretti siamo come le pecore, e andiamo sempre con gli occhi chiusi dove vanno gli altri. Tu non glielo dire, nè lo dire a nessuno del paese, dove ho visto la Lia, chè sarebbe un colpo di coltello per Sant’Agata. Ella mi riconobbe di certo, mentre passavo davanti all’uscio, perchè si fece bianca e rossa nella faccia, ed io frustai il mulo per passare presto, e son certo che quella poveretta avrebbe voluto piuttosto che il mulo le fosse camminato sulla pancia, e la portassero distesa sul carro come portiamo adesso suo nonno. Ora la famiglia dei Malavoglia è distrutta, e bisogna rifarla di nuovo tu e Alessi.
— I denari per la roba ci sono già; a San Giovanni venderemo anche il vitello.
— Bravi! così, quando ci avrete i denari da parte, non c’è pericolo che vi sfumino in un giorno, come accadrebbe se il vitello venisse a morire, Dio liberi! Ora siamo alle prime case della città, e tu potrai aspettarmi qui, se non vuoi venire sino all’ospedale.
— No, voglio venire anch’io; così almeno vedrò dove lo mettono, ed egli pure mi vedrà sino all’ultimo momento.
Padron ’Ntoni potè vederla sino all’ultimo momento, e mentre la Nunziata se ne andava via con Alfio Mosca, adagio adagio pel camerone che pareva d’essere in chiesa al camminare, li accompagnava cogli occhi; poi si voltò dall’altra parte e non si mosse più. Compar Alfio e la Nunziata risalirono sul carro, arrotolarono la materassa e la coperta, e se ne tornarono senza dir nulla, per la lunga strada polverosa.
Alessi si dava i pugni nella testa e si strappava i capelli, come non trovò più il nonno nel suo letto, e vide che gli riportavano la materassa arrotolata; e se la prendeva colla Mena, quasi fosse stata lei a mandarlo via. Ma compar Alfio gli diceva: — Che volete? La casa dei Malavoglia ora è distrutta, e bisogna che la facciate di nuovo voi altri.
Egli voleva tornare a fargli il conto della roba e del vitello, di cui avevano chiacchierato lungo la strada colla ragazza; ma Alessi e Mena non gli davano retta, colla testa nelle mani e gli occhi fissi e lucenti di lagrime, seduti sulla porta della casa dove oramai erano soli davvero. Compar Alfio in questo mentre cercava di confortarli col rammentar loro com’era prima la casa del nespolo, quando stavano a chiacchierare da un uscio all’altro, colla luna, e si udiva tutto il giorno il colpettare del telaio di Sant’Agata, e le galline che chiocciavano, e la voce della Longa che aveva sempre da fare. Adesso tutto era cambiato, e quando uno se ne va dal paese, è meglio che non ci torni più, perchè la strada stessa non sembrava più quella, dacchè non c’era più quel passeggio per la Mangiacarrubbe, e don Silvestro non si faceva vedere nemmeno lui, aspettando che la Zuppidda cascasse coi suoi piedi, e lo zio Crocifisso s’era chiuso in casa a guardarsi la sua roba, o ad accapigliarsi colla Vespa, e persino non si udiva quistionar tanto nella spezieria, dacchè don Franco aveva visto la giustizia nel mostaccio, ed ora andava a rincantucciarsi per leggere il giornale, e si sfogava a pestare nel mortaio tutto il giorno per passare il tempo. Anche padron Cipolla non ci stava più a schiacciare gli scalini davanti la chiesa, dacchè aveva perso la pace.
Un bel giorno corse la notizia che padron Fortunato si maritava, perchè la sua roba non se la godesse la Mangiacarrubbe, alla barba di lui; per questo non ci stava più a schiacciare i scalini, e si pigliava la Zuppidda. — E mi diceva che il matrimonio è come una trappola di topi! — andava brontolando allora lo zio Crocifisso. — Ora state a fidarvi degli uomini?
Le ragazze invidiose dicevano che la Barbara sposava suo nonno. Ma la gente di proposito, come Peppi Naso, e Piedipapera, ed anche don Franco, mormoravano. — Questa l’ha vinta comare Venera contro don Silvestro; è un gran colpo per don Silvestro, ed è meglio che se ne vada dal paese. Già i forestieri, frustali! e qui non ci hanno messo mai radici i forestieri. Con padron Cipolla non ardirà mettercisi a tu per tu don Silvestro.
— O che credeva? — sbraitava comare Venera colle mani sui fianchi, — di prendersi mia figlia colla carestia? Stavolta comando io! e gliel’ho fatta capire a mio marito! Chi è buon cane mangia al trogolo; forestieri non ne vogliamo per la casa. Una volta in paese si stava meglio, quando non erano venuti quelli di fuori a scrivere sulla carta i bocconi che vi mangiate, come don Silvestro, o a pestare fiori di malva nel mortaio, e ingrassarsi col sangue di quei del paese. Allora ognuno si conosceva, e si sapeva quel che faceva, e quel che avevano sempre fatto suo padre e suo nonno, e perfino quel che mangiava, e quando si vedeva passare uno si sapeva dove andava, e le chiuse erano di quelli che c’erano nati, e il pesce non si lasciava prendere da questo e da quello. Allora la gente non si sbandava di qua e di là, e non andava a morire all’ospedale.
Giacchè tutti si maritavano, Alfio Mosca avrebbe voluto prendersi comare Mena, che nessuno la voleva più, dacchè la casa dei Malavoglia s’era sfasciata, e compar Alfio avrebbe potuto dirsi un bel partito per lei, col mulo che ci aveva; così la domenica ruminava fra di sè tutte le ragioni per farsi animo, mentre stava accanto a lei, seduto davanti alla casa, colle spalle al muro, a sminuzzare gli sterpolini della siepe per ingannare il tempo. Anche lei guardava la gente che passava, e così facevano festa la domenica: — Se voi mi volete ancora, comare Mena, — disse finalmente; — io per me son qua.
La povera Mena non si fece neppur rossa, sentendo che compare Alfio aveva indovinato che ella lo voleva, quando stavano per darla a Brasi Cipolla, tanto le pareva che quel tempo fosse lontano, ed ella stessa non si sentiva più quella. — Ora sono vecchia, compare Alfio, — rispose, — e non mi marito più.
— Se voi siete vecchia, anch’io sono vecchio, chè avevo degli anni più di voi, quando stavamo a chiacchierare dalla finestra, e mi pare che sia stato ieri, tanto m’è rimasto in cuore. Ma devono esser passati più di otto anni. E ora quando si sarà maritato vostro fratello Alessi, voi restate in mezzo alla strada.
Mena si strinse nelle spalle, perchè era avvezza a fare la volontà di Dio, come la cugina Anna; e compare Alfio, vedendo così, riprese:
— Allora vuol dire che non mi volete bene, comare Mena, e scusatemi se vi ho detto che vi avrei sposata. Lo so che voi siete nata meglio di me, e siete figlia di padroni; ma ora non avete più nulla, e se si marita vostro fratello Alessi, rimarrete in mezzo alla strada. Io ci ho il mulo e il mio carro, e il pane non ve lo farei mancare giammai, comare Mena. Ora perdonatemi la libertà!
— Non mi avete offesa, no, compare Alfio; e vi avrei detto di sì anche quando avevamo la Provvidenza e la casa del nespolo, se i miei parenti avessero voluto, che Dio sa quel che ci avevo in cuore quando ve ne siete andato alla Bicocca col carro dell’asino, e mi pare ancora di vedere quel lume nella stalla, e voi che mettevate tutta la vostra roba sul carretto, nel cortile; vi rammentate?
— Sì, che mi rammento! Allora perchè non mi dite di sì, ora che non avete più nulla, e ci ho il mulo invece dell’asino al carretto, e i vostri parenti non potrebbero dir di no?
— Ora non son più da maritare; — tornava a dire Mena col viso basso, e sminuzzando gli sterpolini della siepe anche lei. — Ho 26 anni, ed è passato il tempo di maritarmi.
— No, che non è questo il motivo per cui non volete dirmi di sì! — ripeteva compar Alfio col viso basso come lei. — Il motivo non volete dirmelo! — E così rimanevano in silenzio a sminuzzare sterpolini senza guardarsi in faccia. Dopo egli si alzava per andarsene, colle spalle grosse e il mento sul petto. Mena lo accompagnava cogli occhi finchè poteva vederlo, e poi guardava al muro dirimpetto e sospirava.
Come aveva detto Alfio Mosca, Alessi s’era tolta in moglie la Nunziata, e aveva riscattata la casa del nespolo.
— Io non son da maritare, — aveva tornato a dire la Mena; — maritati tu che sei da maritare ancora; — e così ella era salita nella soffitta della casa del nespolo, come le casseruole vecchie, e s’era messo il cuore in pace, aspettando i figliuoli della Nunziata per far la mamma. Ci avevano pure le galline nel pollaio, e il vitello nella stalla, e la legna e il mangime sotto la tettoia, e le reti e ogni sorta di attrezzi appesi, il tutto come aveva detto padron ’Ntoni; e la Nunziata aveva ripiantato nell’orto i broccoli ed i cavoli, con quelle braccia delicate che non si sapeva come ci fosse passata tanta tela da imbiancare, e come avesse fatti quei marmocchi grassi e rossi che la Mena si portava in collo pel vicinato, quasi li avesse messi al mondo lei, quando faceva la mamma.
Compare Mosca scrollava il capo, mentre la vedeva passare, e si voltava dall’altra parte, colle spalle grosse. — A me non mi avete creduto degno di quest’onore! — le disse alfine quando non ne potè più, col cuore più grosso delle spalle. — Io non ero degno di sentirmi dir di sì!
— No, compar Alfio! — rispose Mena la quale si sentiva spuntare le lagrime. — Per quest’anima pura che tengo sulle braccia! Non è per questo motivo. Ma io non son più da maritare.
— Perchè non siete più da maritare, comare Mena?
— No! no! — ripeteva comare Mena, che quasi piangeva. — Non me lo fate dire, compar Alfio! Non mi fate parlare! Ora se io mi maritassi, la gente tornerebbe a parlare di mia sorella Lia, giacchè nessuno oserebbe prendersela una Malavoglia, dopo quello che è successo. Voi pel primo ve ne pentireste. Lasciatemi stare, che non sono da maritare, e mettetevi il cuore in pace.
— Avete ragione, comare Mena! — rispose compare Mosca; — a questo non ci avevo mai pensato. Maledetta la sorte che ha fatto nascere tanti guai!
Così compare Alfio si mise il cuore in pace, e Mena seguitò a portare in braccio i suoi nipoti, quasi ci avesse il cuore in pace anche lei, e a spazzare la soffitta, per quando fossero tornati gli altri, che c’erano nati anche loro, — come se fossero stati in viaggio per tornare! — diceva Piedipapera.
Invece padron ’Ntoni aveva fatto quel viaggio lontano, più lontano di Trieste e d’Alessandria d’Egitto, dal quale non si ritorna più; e quando il suo nome cadeva nel discorso, mentre si riposavano, tirando il conto della settimana e facendo i disegni per l’avvenire, all’ombra del nespolo e colle scodelle fra le ginocchia, le chiacchiere morivano di botto, che a tutti pareva d’avere il povero vecchio davanti agli occhi, come l’avevano visto l’ultima volta che erano andati a trovarlo in quella gran cameraccia coi letti in fila, che bisognava cercarlo per trovarlo, e il nonno li aspettava come un’anima del purgatorio, cogli occhi alla porta, sebbene non ci vedesse quasi, e li andava toccando, per accertarsi che erano loro, e poi non diceva più nulla, mentre gli si vedeva in faccia che aveva tante cose da dire, e spezzava il cuore con quella pena che gli si leggeva in faccia e non la poteva dire. Quando gli narrarono poi che avevano riscattata la casa del nespolo, e volevano portarselo a Trezza di nuovo, rispose di sì, e di sì, cogli occhi, che gli tornavano a luccicare, e quasi faceva la bocca a riso, quel riso della gente che non ride più, o che ride per l’ultima volta, e vi rimane fitto nel cuore come un coltello. Così successe ai Malavoglia quando il lunedì tornarono col carro di compar Alfio per riprendersi il nonno, e non lo trovarono più.
Rammentando tutte queste cose lasciavano il cucchiaio nella scodella, e pensavano e pensavano a tutto quello che era accaduto, che sembrava scuro scuro, come ci fosse sopra l’ombra del nespolo. Ora quando veniva la cugina Anna a filare un po’ con le comari, aveva i capelli bianchi, e diceva che aveva perso il riso della bocca, perchè non aveva tempo di stare allegra, colla famiglia che aveva sulle spalle, e Rocco che tutti i giorni bisognava andare a cercare di qua e di là, per le strade e davanti la bettola, e cacciarlo verso casa come un vitello vagabondo. Anche dei Malavoglia ce n’erano due vagabondi; e Alessi si tormentava il cervello a cercarli dove potevano essere, per le strade arse di sole e bianche di polvere, che in paese non sarebbero tornati più, dopo tanto tempo.
Una sera, tardi, il cane si mise ad abbaiare dietro l’uscio del cortile, e lo stesso Alessi, che andò ad aprire, non riconobbe ’Ntoni il quale tornava colla sporta sotto il braccio, tanto era mutato, coperto di polvere, e colla barba lunga. Come fu entrato e si fu messo a sedere in un cantuccio, non osavano quasi fargli festa. Ei non sembrava più quello, e andava guardando in giro le pareti, come non le avesse mai viste; fino il cane gli abbaiava, chè non l’aveva conosciuto mai. Gli misero fra le gambe la scodella, perchè aveva fame e sete, ed egli mangiò in silenzio la minestra che gli diedero, come non avesse visto grazia di Dio da otto giorni, col naso nel piatto; ma gli altri non avevano fame, tanto avevano il cuore serrato. Poi ’Ntoni, quando si fu sfamato e riposato alquanto, prese la sua sporta e si alzò per andarsene.
Alessi non osava dirgli nulla, tanto suo fratello era mutato. Ma al vedergli riprendere la sporta, si sentì balzare il cuore dal petto, e Mena gli disse tutta smarrita: — Te ne vai?
— Sì! — rispose ’Ntoni.
— E dove vai? — chiese Alessi.
— Non lo so. Venni per vedervi. Ma dacchè son qui la minestra mi è andata tutta in veleno. Per altro qui non posso starci, chè tutti mi conoscono, e perciò son venuto di sera. Andrò lontano, dove troverò da buscarmi il pane, e nessuno saprà chi sono.
Gli altri non osavano fiatare, perchè ci avevano il cuore stretto in una morsa, e capivano che egli faceva bene a dir così. ’Ntoni continuava a guardare dappertutto, e stava sulla porta, e non sapeva risolversi ad andarsene. — Ve lo farò sapere dove sarò; — disse infine, e come fu nel cortile, sotto il nespolo, che era scuro, disse anche:
— E il nonno?
Alessi non rispose; ’Ntoni tacque anche lui, e dopo un pezzetto:
— E la Lia che non l’ho vista?
E siccome aspettava inutilmente la risposta, aggiunse colla voce tremante, quasi avesse freddo: — È morta anche lei?
Alessi non rispose nemmeno; allora ’Ntoni che era sotto il nespolo, colla sporta in mano, fece per sedersi, poichè le gambe gli tremavano, ma si rizzò di botto, balbettando:
— Addio addio! Lo vedete che devo andarmene?
Prima d’andarsene voleva fare un giro per la casa, onde vedere se ogni cosa fosse al suo posto come prima; ma adesso, a lui che gli era bastato l’animo di lasciarla, e di dare una coltellata a don Michele, e di starsene nei guai, non gli bastava l’animo di passare da una camera all’altra se non glielo dicevano. Alessi che gli vide negli occhi il desiderio, lo fece entrare nella stalla, col pretesto del vitello che aveva comperato la Nunziata, ed era grasso e lucente; e in un canto c’era pure la chioccia coi pulcini; poi lo condusse in cucina, dove avevano fatto il forno nuovo, e nella camera accanto, che vi dormiva la Mena coi bambini della Nunziata, e pareva che li avesse fatti lei. ’Ntoni guardava ogni cosa, e approvava col capo, e diceva: — Qui pure il nonno avrebbe voluto metterci il vitello; qui c’erano le chioccie, e qui dormivano le ragazze, quando c’era anche quell’altra.... — Ma allora non aggiunse altro, e stette zitto a guardare intorno, cogli occhi lustri. In quel momento passava la Mangiacarrubbe, che andava sgridando Brasi Cipolla per la strada, e ’Ntoni disse: — Questa qui l’ha trovato il marito; ed ora, quando avranno finito di quistionare, andranno a dormire nella loro casa.
Gli altri stettero zitti, e per tutto il paese era un gran silenzio, soltanto si udiva sbattere ancora qualche porta che si chiudeva; e Alessi a quelle parole si fece coraggio per dirgli:
— Se volessi anche tu ci hai la tua casa. Di là c’è apposta il letto per te.
— No! — rispose ’Ntoni. — Io devo andarmene. Là c’era il letto della mamma, che lei inzuppava tutto di lagrime quando volevo andarmene. Ti rammenti le belle chiacchierate che si facevano la sera, mentre si salavano le acciughe? e la Nunziata che spiegava gli indovinelli? e la mamma, e la Lia tutti lì, al chiaro di luna, che si sentiva chiacchierare per tutto il paese, come fossimo tutti una famiglia? Anch’io allora non sapevo nulla, e qui non volevo starci, ma ora che so ogni cosa devo andarmene.
In quel momento parlava cogli occhi fissi a terra, e il capo rannicchiato nelle spalle. Allora Alessi gli buttò le braccia al collo.
— Addio, — ripetè ’Ntoni. — Vedi che avevo ragione d’andarmene! qui non posso starci. Addio, perdonatemi tutti.
E se ne andò colla sua sporta sotto il braccio; poi quando fu lontano, in mezzo alla piazza scura e deserta, che tutti gli usci erano chiusi, si fermò ad ascoltare se chiudessero la porta della casa del nespolo, mentre il cane gli abbaiava dietro, e gli diceva col suo abbaiare che era solo in mezzo al paese. Soltanto il mare gli brontolava la solita storia sotto, in mezzo ai Fariglioni, perchè il mare non ha paese nemmen lui, ed è di tutti quelli che lo stanno ad ascoltare, di qua e di là dove nasce e muore il sole, anzi ad Aci Trezza ha un modo tutto suo di brontolare, e si riconosce subito al gorgogliare che fa tra quegli scogli nei quali si rompe, e par la voce di un amico.
Allora ’Ntoni si fermò in mezzo alla strada a guardare il paese tutto nero, come non gli bastasse il cuore di staccarsene, adesso che sapeva ogni cosa, e sedette sul muricciuolo della vigna di massaro Filippo.
Così stette un gran pezzo pensando a tante cose, guardando il paese nero, e ascoltando il mare che gli brontolava lì sotto. E ci stette fin quando cominciarono ad udirsi certi rumori ch’ei conosceva, e delle voci che si chiamavano dietro gli usci, e sbatter d’imposte, e dei passi per le strade buie. Sulla riva, in fondo alla piazza, cominciavano a formicolare dei lumi. Egli levò il capo a guardare i Tre Re che luccicavano, e la Puddara che annunziava l’alba, come l’aveva vista tante volte. Allora tornò a chinare il capo sul petto, e a pensare a tutta la sua storia. A poco a poco il mare cominciò a farsi bianco, e i Tre Re ad impallidire, e le case spuntavano ad una ad una nelle vie scure, cogli usci chiusi, che si conoscevano tutte, e solo davanti alla bottega di Pizzuto c’era il lumicino, e Rocco Spatu colle mani nelle tasche che tossiva e sputacchiava. — Fra poco lo zio Santoro aprirà la porta, — pensò ’Ntoni, — e si accoccolerà sull’uscio a cominciare la sua giornata anche lui. — Tornò a guardare il mare, che s’era fatto amaranto, tutto seminato di barche che avevano cominciato la loro giornata anche loro, riprese la sua sporta e disse: — Ora è tempo d’andarmene, perchè fra poco comincierà a passar gente. Ma il primo di tutti a cominciar la sua giornata è stato Rocco Spatu.
fine.