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V - I mostri dell’Oceano
Capitolo IV Capitolo VI

Capitolo V


I mostri dell’Oceano


Quella parte dell’isola, a prima vista, non presentava passaggi per salire la costa, la quale era alta assai e scendeva quasi a picco. Pel momento l’unico rifugio era quella caverna, la quale doveva essere stata scavata dall’impeto continuo delle ondate.

Nè a destra nè a sinistra, scorgevasi alcun tratto di terra larga abbastanza da permettere ai naufraghi di sedersi e tanto meno di sdraiarsi.

Quantunque nella caverna entrassero le onde, il marinaio s’inoltrò, sperando di trovare nell’interno un posticino per potersi riposare.

Aspettò un istante perchè l’ondata uscisse, poi si spinse arditamente innanzi, seguito dal signor Emilio e dal mozzo; ma d’improvviso si ritrasse, emettendo un grido di sorpresa e di terrore.

Una specie di braccio assai grosso, appena visibile in quella prima luce che penetrava a stento dall’apertura, gli era piombato addosso, stringendolo a mezzo corpo.

Dapprima il marinaio credette che fosse un braccio umano, ma ben presto s’accorse d’essersi ingannato: dinanzi a lui brillavano due occhi grandi, rotondi, fosforescenti, i quali lo fissavano in tal modo che pareva volessero affascinarlo.

Il marinaio era coraggioso, ma nel trovarsi dinanzi a quel mostro misterioso, fra quelle semi-oscurità, colle onde che gli urlavano intorno minacciando di rovesciarlo e con quel braccio che lo stringeva già con grande energia, si sentì rimescolare il sangue e rizzare i capelli.

— Signor Emilio!... — urlò con voce strozzata.

— Che cosa avete? — chiese il veneziano, che nulla aveva potuto vedere, trovandosi ancora indietro.

Il marinaio non potè rispondere. Quel braccio lo stringeva in modo da soffocarlo e alle reni gli faceva provare un dolore così acuto, come gli si succhiasse il sangue a forza.

Non si era però smarrito d’ animo. Facendo uno sforzo disperato, trasse il coltello dalla cintola e con un rapido colpo tagliò netto quel membro dotato di forza straordinaria.

Il veneziano correva allora in suo aiuto, tenendo ben stretta in pugno la scure. Con un solo sguardo vide subito con quale formidabile avversario avevano da fare.

— Indietro! — urlò.

Il marinaio girò sui talloni lanciandosi verso l’apertura, ma due altre braccia lo afferrarono cercando di sollevarlo, mentre altre tre piombavano sul suo compagno.

— Ah!... Canaglia! — urlò Albani, furibondo.

Non badando che alla propria rabbia, si era scagliato a corpo perduto contro quei due grandi occhi che brillavano nell’oscurità, menando colpi disperati, mentre il marinaio agitava pazzamente il coltello percuotendo a destra ed a sinistra.

A un tratto si sentirono inondare da una scarica di liquido denso e che tramandava un acuto odore di muschio, mentre le braccia che li stringevano cadevano inerti.

Mezzo soffocati e acciecati, guadagnarono a tentoni l’uscita, presso la quale si teneva il mozzo, che urlava come un ossesso.

— Fulmini di Genova! — esclamò il marinaio, correndo a tuffarsi nelle onde. — Che m’abbia acciecato?...

— Ma siete inondati d’inchiostro! — urlò il mozzo. — Ma cosa è accaduto adunque?..

— Aspetta un po’ che mi lavi!... Mondaccio birbone.... Sono profumato come un caimano!... —

Il veneziano era pure balzato in acqua e si lavava con grande vigore, stropicciandosi il viso, i capelli e le vesti.

— Ma cos’è accaduto, dunque? — ripeteva il mozzo, il quale lanciava sguardi impauriti verso la caverna.

— Auff! — esclamò finalmente il marinaio, riguadagnando la sponda. — Era inchiostro di prima qualità!...

— Ma avete combattuto contro dei calamai? — chiese il mozzo, che ormai rideva a crepapelle.

— No, contro uno solo; ma se tu l’avessi veduto, ragazzo mio, non avresti più una goccia di sangue in corpo. Che braccia!... E che occhi!... Se mi stringeva un po’ di più, mi faceva uscire gl’intestini dalla bocca, te lo assicuro.

— Un polipo formidabile, dunque?...

— Enorme.

— E l’avete ucciso?

— Lo credo.

— E stava in quella grotta come nella sua casa?

— Precisamente, Piccolo Tonno.

— Ah!... San Gennaro, aiutami!...

— Cosa c’è?

— Oh! l’orribile mostro!...

— Fulmini!... ancora lui!... Signor Emilio! —

Albani, che aveva allora terminato di lavarsi, guadagnò prontamente la riva, ma subito si arrestò.

Dalla caverna marina, usciva in quel momento il mostro che li aveva poco prima assaliti, tentando di tornare in mare.

Quel calamaro gigante faceva paura. Era di dimensioni enormi, poichè poteva pesare mille chilogrammi, biancastro ma quasi gelatinoso, con delle braccia lunghe sei metri, fornite d’un gran numero di ventose destinate a succhiare il sangue delle vittime, con un becco grandissimo, di sostanza cornea, che somigliava, nella forma, a quello dei pappagalli e due occhi grandi, piatti, dai glauchi colori.

S’avanzava penosamente, essendogli state recise tre braccia e cercava di approfittare delle onde che la risacca scagliava contro la caverna.

— Fuggite! — gridò il signor Emilio.

Sul fianco destro della caverna si prolungava una fila di scoglietti, gli uni collegati agli altri da banchi di sabbie che la bassa marea aveva lasciati scoperti, e che si univano ai piedi dell’altra sponda.

I naufraghi senza più esitare si slanciarono verso quegli scogli, cercando di giungere presso la riva e si arrestarono dinanzi a una rupe gigantesca che s’inalzava per due o trecento piedi.

Il calamaro gigante, fortunatamente, pareva che non pensasse a dare loro una seconda battaglia, ma a raggiungere il mare. Attese che una nuova onda giungesse presso la caverna, e quando la vide ritirarsi, si lasciò trascinare via.

Per qualche istante furono vedute le sue braccia agitarsi fra la spuma, poi l’intera massa scomparve sotto le acque.

— Buon viaggio! — gridò il marinaio, respirando liberamente. — Fulmini!... Come era brutto!... Non ne ho mai visto uno simile!...

— I cefalopodi sono piuttosto rari, — disse Albani.

— Si chiamano cefalopodi, quei mostri?...

— Sì, Enrico.

— Sono pericolosi?...

— Posseggono tale forza nelle loro braccia, da stritolare un uomo robustissimo. Aggiungi poi che le loro ventose dove si applicano succhiano il sangue, e se tu non fosti stato vestito, le avresti provate.

— Ma il furfante morrà, così mutilato.

— Non crederlo, amico mio. I cefalopodi hanno la vita dura e per ucciderli bisogna colpirli al cuore o meglio nei cuori, poichè ne hanno tre.

— Ma ha perduto tre braccia, signore.

— Col tempo le rifarà.

— Cosa dite?... Torneranno a crescergli le braccia?...

— Sì, fra sette anni. Ma lasciamo andare il cefalopodo e cerchiamo di scalare questa costa. Vedo degli alberi lassù e promettono delle frutta, se non m’inganno.

— Siamo marinai, signore, e spero che ci riusciremo. —

Il sole spuntava allora, illuminando il mare e l’isola. Alzando gli occhi verso l’alta sponda, i naufraghi ormai distinguevano perfettamente degli alberi di mole enorme, coperti di folte e grandi foglie, in mezzo alle quali apparivano delle grosse frutta spinose, di forma un po’ allungata.

— Se non m’inganno sono durion, — disse il signor Emilio. — Sarà un po’ difficile far cadere quelle frutta, ma chissà che a terra ve ne siano. —

Si misero a osservare la rupe, ma alla base essa era così liscia, da non permettere la salita nemmeno a un gatto o ad una scimmia. Quattro metri più sopra però vi erano numerosi crepacci e radici e sterpi, i quali potevano offrire appigli per una scalata.

— Corpo d’un tre alberi sventrato! — esclamò il marinaio, che si rompeva inutilmente le unghie contro quella parete liscia e dura. — Che non si possa giungere lassù?

— Colla pazienza ci riusciremo, — disse il signor Emilio. — Dov’è il rottame?

— Si è arenato presso la caverna, — rispose il mozzo.

— Va’ a tagliare un paterazzo dell’albero. —

Il mozzo si recò presso la caverna e poco dopo ritornava tirando la lunga e grossa gomena incatramata.

— Formiamo ora una scala umana, — disse il veneziano. — Tu, Enrico, appoggiati alla rupe; io salgo sulle tue spalle e Piccolo Tonno sulle mie, portando con lui il paterazzo.

— Sarai poi capace di salire? — chiese il marinaio al mozzo.

— Mi basta cacciare un piede ed una mano in una di quelle fessure, — rispose Piccolo Tonno.

— Avanti, allora! —

Il marinaio s’appoggiò alla rupe inarcando il robusto dorso, il signor Emilio gli salì sulle spalle con un solo salto, poi il mozzo, che si era legata la fune attorno ai fianchi, s’arrampicò con un’agilità da scoiattolo, aggrappandosi ad una radice e puntando i piedi nudi entro un crepaccio.

— Ci sei? — chiese il marinaio.

— Salgo, — rispose il ragazzo.

Il signor Emilio balzò a terra e guardò in aria. Piccolo Tonno s’arrampicava sul fianco della rupe con rapidità sorprendente e con sicurezza, tenendosi stretto agli sterpi o alle radici ed approfittando delle più lievi sporgenze e delle più piccole fessure.

In pochi istanti raggiunse felicemente la vetta della grande rupe, la quale si addossava alla spiaggia.

— Che cosa vedi? — chiese il marinaio, impaziente.

— Tanti alberi e delle canne immense.

— Vi sono delle capanne? — chiese il signor Emilio.

— Non ne vedo.

— Lega la fune, poi gettala.

— Signor Albani!...

— Cosa c’è ancora?...

— Vedo delle scimmie.

— Non valgono il giupin1 ma allo spiedo basteranno pei nostri stomachi affamati, — disse il marinaio. — Giù la fune, ragazzo mio!... —

Il mozzo legò un capo del paterazzo attorno alla punta d’una roccia e gettò l’altro, il quale cadde in acqua.

— A voi, signore, — disse Enrico.

Albani afferrò la fune e si mise a salire con una destrezza che dimostrava come quell’uomo fosse famigliarizzato cogli esercizi ginnastici, e raggiunse il mozzo il quale ammirava estatico alcuni uccelli dalle penne splendidissime, che volteggiavano attorno agli alberi.

Quella parte dell’isola, le cui sponde erano così elevate, pareva che fosse assai accidentata e formasse le ultime pendici della montagna già scorta, la quale s’alzava a meno di un miglio dal mare.

Quel terreno saliva e scendeva in forma d’ondulazioni assai accentuate, ed era coperto da folte boscaglie, le quali poi s’arrampicavano sui fianchi del monte.

Si vedevano alberi d’ogni specie incrociare i rami, tanto crescevano uniti, gli uni altissimi e grossi assai, altri esili e più bassi e altri ancora nodosi e contorti, tutti coperti da piante arrampicanti che formavano dei pittoreschi festoni.

Molti uccelli di diverse specie volavano quà e là fuggendo in mezzo agli alberi più folti, mentre sulle sponde volteggiavano bande di rondini salangane e parecchi volatili acquatici.

Nessuna traccia d’abitanti si scorgeva su quella costa: non canotti, non capanne, non un fuoco o del fumo che indicassero la presenza di qualche abitante. Si vedevano invece numerose scimmie, di quelle chiamate nasi lunghi (Nasalis larvatus), dalla fisonomia comica, col naso lungo, grosso, a punta rigonfia e rossa come quella dei discepoli di Bacco e che erano occupate a saccheggiare le frutta degli alberi.

— Nessun abitante, signore? — chiese il marinaio, raggiungendo Albani.

— No, finora, — rispose questi.

— E da mettere sotto i denti, nulla?... Ho un appetito formidabile e vi assicuro che darei un anno di vita per una zuppiera di quel giupin, che papà Merlotti sapeva fare così delizioso.

— E io due per un piatto di maccheroni col pomodoro, — disse il mozzo.

— Per ora vi accontenterete delle frutta di questi durion, — rispose Albani sorridendo.

— Sono buone almeno? — chiese il marinaio.

— Le migliori e le più nutrienti di tutte, ma....

— C’è un ma?...

— Non so se saprete vincere l’odore ingrato che esalano.

— Toh!... Sono le frutta più squisite e hanno un profumo che non tutti possono affrontare!... Che specie di frutta sono dunque?

— Deliziose, ti ho detto.

— Puzzassero anche di catrame, io le manderò giù, — disse il mozzo. — Ho lo stomaco vuoto che reclama la colazione molto imperiosamente.

— Seguitemi, — disse Albani. — Ecco delle frutta ben mature, che sono già cadute. —


  1. Zuppa genovese.

Note

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