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XXVII - Gl’incendiari della «Liguria»
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Capitolo XXVII


Gl’incendiari della «Liguria»


Venti giorni dopo il varo della scialuppa, essendo ormai cessata la stagione delle piogge, cominciarono i preparativi della partenza, essendo risoluti ad esplorare le sponde meridionali dell’isola, per conoscere i misteriosi individui che abitavano quella parte della loro possessione.

Non potendo abbandonare gli animali e i volatili che si trovavano nel recinto, nè il campicello che poteva venire saccheggiato dalle scimmie, avevano deliberato che il mozzo rimanesse a guardia della capanna. Del resto, il ragazzo aveva accettato ben volentieri di rimanere a terra in compagnia di Sciancatello e delle due scimmie, premendogli di conservare le ricchezze accumulate con tante fatiche.

La mattina del 16 novembre il veneziano e il marinaio, dopo d’aver imbarcato delle provviste capaci di nutrirli per una settimana e abbracciato Piccolo Tonno, salirono sulla scialuppa.

— Ti raccomando la capanna e i nostri animali, — disse Albani al ragazzo. — Se il vento ci sarà favorevole, fra quattro giorni contiamo di essere di ritorno.

— Non temete, signore, — rispose il mozzo. — Avrò cura degli animali e del campicello. Buon viaggio, signore. —

La Roma prese il largo e oltrepassata la piccola penisola che chiudeva la baia verso occidente, virò di bordo costeggiando l’isola. Il mozzo, dall’alto d’una rupe, con Sciancatello a fianco, li salutava col cappello di fibre di rotang.

Era una splendida mattina: il cielo era purissimo, d’un azzurro profondo, e il sole splendeva in tutto il suo fulgore, salendo rapidamente sull’orizzonte.

Il mare tranquillissimo, s’increspava appena appena sotto i soffi regolari del venticello dell’est. Solamente presso le spiagge si rompevano le onde della risacca, balzando e rimbalzando e sfasciandosi in una pioggia di pagliuzze d’oro.

La scialuppa filava rapidamente, colla vela ben gonfia, tenendosi a quattrocento metri dalle spiagge, lasciandosi a poppa una scìa biancheggiante e perfetta.

Il marinaio si era messo alla scotta e masticava beatamente il suo siri, ed il signor Albani si era seduto accanto alla barra del timone.

Le coste dell’isola fuggivano rapidamente, ma i due Robinson potevano osservarle con loro comodo, mantenendo sempre la scialuppa a breve distanza. Il signor Albani, che si era munito di carta e di penna, tracciava le punte, le piccole baie, le scogliere, dando a tutte un nome.

Così aveva notato le baie Aida Maria e regina Elena, i capi Savoia e Piemonte, la punta Ischia, e le scogliere Venezia, Rialto e Pellestrina.

Le coste si mantenevano però sempre assai alte e dirupate, rendendo difficili gli approdi. Sulle cime i boschi si succedevano ai boschi con poche interruzioni, prodotte per lo più da spaccature profonde causate, a quanto pareva, da antichi torrenti.

Si vedevano macchioni di alberi del garofano, di arecche, di tamarindi, di cocchi bellissimi, di goiani, di mangostani, di cedri selvatici; enormi alberi della canfora le cui esalazioni giungevano perfino alla scialuppa, di durion altissimi e bambù smisurati.

Gran numero di uccelli volteggiavano sulle sponde; sulle scogliere e sopra quei macchioni si vedevano bande di pappagalli d’ogni colore, di loris rossi ma colla gola nera, di cacatoe nere e bianche, di terenguloni col dorso color di smeraldo, la coda azzurra e il ventre giallo dorato; di rondini salangane, leggiadri uccelli di mare color turchino metallico sopra e nero lucentissimo sotto; di splendidi fagiani, di epimachi reali neri, turchini, verdi e rossi, e di alcioni i quali volteggiavano superbamente sopra la superficie del mare.

Verso il mezzodì, nel momento che stavano rosicchiando alcuni biscotti, i due Robinson scorsero, in fondo ad una baia dalle sponde tagliate a picco, degli alberi così enormi, da strappare a entrambi delle esclamazioni di sorpresa.

Erano alti più di cento metri e così grossi che otto uomini non sarebbero stati capaci di abbracciarli. Rassomigliavano alle querce giganti della California, ma portavano dei fiori rossi, molto larghi, i quali tramandavano un profumo così acuto, che si espandeva per parecchie centinaia di metri sul mare.

— Cosa sono? — chiese il marinaio.

— Non lo saprei, — disse Albani, — ma somigliano a certi alberi scoperti ultimamente nell’isola di Formosa.

— Quei colossi devono avere un bel numero di anni.

— Certo, Enrico.

— Ditemi, signore, vivono molto gli alberi?

— Delle migliaia d’anni, taluni.

— Delle migliaia d’anni!... Volete burlarvi di me, signore?...

— Niente affatto. Si sa che gli ontani, per esempio, vivono in media 360 anni, l’edera 450, gl’ippocastani 600, gli ulivi 700, i cedri 850, e le querce perfino 1500 anni.

— Fulmini!... Millecinquecento anni!...

— Oh ma vi sono delle piante che hanno resistenza ben più lunga. Gli annali botanici ricordano dei tigli di 2000 anni, dei castagni e dei platani di 1200 anni e anche dei rosai celebri che varcarono i dieci secoli. Gli alberi che hanno maggior durata sarebbero invece i baobab, alberi enormi che crescono in Africa e se ne sono veduti alcuni, ai quali i botanici non hanno esitato a dare sessanta secoli di vita.

— Seimila anni!...

— Sì, Enrico.

— E gli animali che campano di più, quali sarebbero?

— Le tartarughe giganti dell’Imalaya.

— Credevo che fossero gli elefanti.

— No, poichè quelle tartarughe possono campare cinque o seicento anni.

— Che bella esistenza!...

— Forse non tanto bella, poichè quelle testuggini, rinchiuse nelle loro rocce, passano anni interi in una specie di torpore. Bada alla vela, Enrico: vi sono delle scogliere subacquee dinanzi a noi e dobbiamo evitarle con cura. —

Infatti dinanzi alla scialuppa si vedevano emergere, attraverso l’acqua profonda ma trasparente, delle punte grigiastre le quali avevano ramificazioni strane. Alcuni di quegli scoglietti erano rotondi ma altri, che si trovavano a una profondità maggiore, rassomigliavano a tronchi sostenenti dei rami, i quali si allungavano assai in varie direzioni.

— Sono scogli coralliferi, — disse Albani, che li osservava con viva curiosità. — Sono in lavorazione e fra pochi anni e forse prima, tutti quei rami giungeranno a fior d’acqua.

— Ma sono coralli vivi? — chiese il marinaio, stupito.

— Vivi, Enrico: guarda all’estremità di quei rami: che cosa vedi?...

— Ma... non saprei; come dei fiorellini.

— Sono gruppi di polipi corallini.

— Ma come fanno quei molluschi, che mi dissero essere gelatinosi e piccolissimi, a costruire questi scogli che sembrano di granito?

— È una cosa facilissima a spiegarsi. Un giorno qualunque, alla profondità di quaranta o cinquanta metri, si fissa un polipo corallino. Si nutre, cresce, mette dei rami come una pianta e produce delle uova le quali si fissano, dopo un certo tempo, a breve distanza. Nascono altri polipi, crescono e cominciano anche loro a ramificare.

La piccola colonia a poco a poco ingrandisce, s’intreccia e forma dapprima un banco rudimentale, che gli indigeni chiamano ordinariamente focaccie di corallo.

— Su quel banco spuntano migliaia di altre gemme, migliaia di altri rami, che poi si solidificano e s’innalzano, s’allargano e continuano a intrecciarsi, finchè giungono a fior d’acqua. Solamente allora le costruzioni cessano, poichè i polipi rifuggono dalla luce del sole; ma se non s’innalzano più, continuano però ad allargarsi.

Le onde spezzano di frequente quei coralli, ma quei guasti sono tosto riparati, anzi i detriti corallini servono a rinforzare, a cementare sempre più e a rialzare il banco. Ecco adunque lo scoglio costruito, scoglio che col tempo, continuando il lavoro dei polipi, può diventare un’isola.

— Il corallo che serve di base alle isole costruite dai polipi, è eguale a quello che noi peschiamo sulle coste della Sicilia, della Sardegna e dell’Algeria?

— No, Enrico: il corallo nobile che ha quella bella tinta rosea o rossa non si trova che nel nostro Mediterraneo. I nostri polipi sono di specie un po’ diversa e le piante sono rivestite da una specie di membrana con fori da cui escono i polipetti.

— Ma da cosa derivano quelle belle tinte rosse?...

— Una volta si credeva che la tinta provenisse dall’ossido di ferro; ma ora si sa invece che la si deve ad una particolarità di polipi.

— E la nostra isola, credete che sia stata costruita dai polipi coralliferi?

— No, Enrico.... ma.... guarda lassù!...

— Dove? — chiese il marinaio.

— Su quella rupe. —

Il marinaio guardò nella direzione indicata e, non senza una viva sorpresa, scorse una pertica altissima, sulla quale ondeggiava uno straccio bianco.

— Un segnale?... — chiese egli.

— Così sembra, — rispose il veneziano, cacciando la ribolla del timone all’orza.

— Ma collocato lassù da chi?...

— Forse dagli individui che hanno perduto quella capsula.

— Ma allora devono essere marinai; dei selvaggi non avrebbero innalzato quel segnale di soccorso.

— Lo credo anch’io, Enrico.

— Che ci sia qualche carta, ai piedi di quell’albero?...

— È precisamente per accertarmi di ciò, che dirigo la scialuppa verso quella rupe.

— Forse sapremo chi sono quegli uomini, signore, — disse il marinaio.

— Speriamolo. —

Virarono di bordo e diressero la scialuppa verso la sponda. In quel punto la costa si ripiegava formando una profonda insenatura, chiusa all’estremità da una grande rupe che si innalzava per ottanta o novanta metri.

Tutto il ciglione dell’alta spiaggia era coperto d’alberi, sopra i quali si vedevano svolazzare grandi stormi di anhinga, uccelli che hanno il collo così lungo che valsero a loro il nome di uccelli serpenti, sormontato da una testa piccola, affilata, cilindrica, con un becco acuto e diritto.

Questi volatili sono valenti nuotatori, avendo i piedi palmati, ma a terra si trascinano penosamente. Diffidenti assai, non meritano un colpo di fucile, poichè la loro carne è detestabile come quella dei cormorani.

Arenata la scialuppa su un piccolo banco di sabbia, Albani ed il marinaio si misero a scalare la rupe, aggrappandosi ai rotang che pendevano dall’alto e puntando i piedi nelle fessure.

In dieci minuti si trovarono sulla cima, dinanzi a quella specie d’albero sormontato dallo straccio. Un cumulo di sassi s’innalzava presso la base e pareva che nascondesse qualche cosa.

— Vi è qualche documento lì sotto, — disse il veneziano.

Con una scossa fece crollare quel cumulo ed ai loro occhi apparve una bottiglia, sulla quale stava scritto in lettere dorate:

«Marsala-Palermo»

I due Robinson si guardarono in viso l’un l’altro, colla più grande sorpresa.

— Marsala! — esclamò Albani. — Che questa bottiglia abbia appartenuto ad una nave italiana?...

— Guardate se contiene qualche documento, signore, — disse il marinaio, che pareva in preda a una viva emozione. —

Il veneziano l’alzò esponendola contro i raggi del sole e vide nell’interno un pezzo di carta.

Spezzò il vetro, s’impadronì del documento, lo spiegò e lesse queste righe, tracciate a matita:

«Harry Tompson e Marino Novelli - naufragati il 6 settembre 1840 - punta meridionale dell’isola.»

Due grida eruppero dalle labbra dei Robinson, una di sorpresa, l’altra feroce.

— I maltesi!... — aveva esclamato il veneziano.

— I traditori!... — aveva urlato il marinaio, con intraducibile accento d’avversione. — Andrò a ucciderli! —


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