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XXXI - Sullo scoglio
Capitolo XXX Capitolo XXXII

Capitolo XXXI


Sullo scoglio


L’uragano imperversò tutta la notte senza un istante di tregua. Il mare, furiosamente aizzato dal ventaccio impetuoso di ponente, flagellò senza posa lo scoglio con tremendi muggiti, irrompendo con crescente impeto entro le spaccature e le caverne marine, smuovendo dei massi del peso di parecchi quintali e lanciando i suoi spruzzi fino sotto la rupe dove si trovavano rannicchiati i tre naufraghi.

Anche la pioggia continuò a cadere, scrosciando sopra le cime dell’isolotto e scendendo attraverso le balze in torrentacci impetuosi.

Verso l’alba però, le nubi che si erano accumulate in cielo si ruppero sotto un vigoroso vento del settentrione e l’acquazzone cessò quasi istantaneamente.

Poco dopo il sole fece capolino da uno squarcio in quelle masse di vapori, fugando bruscamente le tenebre e illuminando il mare ancora tempestoso. L’isola apparve subito verso l’est, ma ad una distanza tale che i naufraghi si guardarono in viso sbigottiti.

— Ma è la nostra isola o un’altra? — si chiese il genovese. — È impossibile che ci siamo allontanati tanto!

— Non ne scorgo altre, — disse Marino. — E poi la nostra deve trovarsi in quella direzione.

— È molto lontana? — chiese Albani, il quale, trovandosi ancora coricato, non riusciva a scorgerla bene.

— Almeno venticinque miglia, signore, — rispose Enrico.

— Tanta via abbiamo dunque percorso ieri sera, per trovare un passaggio tra i frangenti?... Ciò è grave, amici miei. Aiutatemi ad alzarmi.

— No, signore, rimanete coricato; siete ancora assai debole.

— Mi sento meglio, Enrico.

— Ma voi siete ferito, signore. Vedo delle gocce di sangue sui vostri calzoni.

— Ho una contusione sopra il ginocchio destro, ma è nulla, amico mio. Credevo di aver riportato delle ferite ben più gravi. —

Appoggiandosi alle braccia del genovese e di Marino, si alzò e guardò verso l’est.

Ad una distanza di venticinque e forse trenta miglia, si scorgeva l’alta montagna dell’isola spiccare nettamente sul fondo luminoso del cielo, ma le coste non erano visibili. Una fila di frangenti, staccandosi dallo scoglio, si estendevano in quella direzione, ma gli scoglietti, tutti di origine corallifera, non erano uniti, anzi pareva che ad una certa distanza, mancassero totalmente. Forse più oltre esistevano quei banchi che avevano impedito alla scialuppa di passare, ma essendo il mare ancora assai agitato, non si potevano scorgere.

— La cosa è grave, — ripetè il signor Albani, che era diventato pensieroso. — Come attraverseremo noi queste venticinque o trenta miglia, ora che abbiamo perduto la scialuppa?... Che siamo destinati a rimanere prigionieri su quest’isolotto?...

— Voi riuscirete a trarvi d’impiccio, signore, — disse Enrico. — Voi sapete tanto che potete trarre utilità da tutto.

— Ma quest’isolotto mi sembra un arido scoglio privo di tutto, Enrico.

— Non lo abbiamo ancora visitato, signore.

— Aiutatemi a salire quella rupe. Di lassù potremo meglio vedere se la linea dei frangenti si estende fino alla nostra isola e accertarci delle risorse che potrebbe offrire questo scoglio. —

I due marinai passarono le loro braccia sotto le ascelle del veneziano e sorreggendolo lo condussero sulla cima dell’isolotto, il quale alzavasi una cinquantina di metri sul livello del mare.

Di lassù potevano dominare tutto il mare all’intorno, distinguere, un po’ confusamente però, le alte sponde della loro isola e riconoscere con un solo sguardo il loro nuovo rifugio.

Il signor Albani non si era ingannato. Quell’isolotto, che sorgeva all’estremità di una lunga fila di frangenti e di banchi, non poteva offrire loro alcuna risorsa, nè fornire in modo alcuno, i mezzi per far ritorno alla loro capanna.

Pareva che fosse l’estremità d’un antico vulcano, sollevatosi in causa di qualche cataclisma sottomarino, poichè i suoi fianchi erano coperti di vecchie lave, di lapilli e di incrostazioni marine. Si vedevano soprattutto, anche verso la cima, numerosi gusci di conchiglie e pezzi di quel corallo, così comune in quei mari, dove i piccoli infusorii costruiscono meravigliose scogliere che poi finiscono col diventare delle vere isole.

Quello scoglio aveva però dimensioni ragguardevoli, poichè poteva avere una circonferenza di oltre mille metri. Non era tutto dirupato: mentre le sue coste meridionali scendevano quasi a picco, quelle settentrionali e occidentali calavano dolcemente e alla base si spianavano formando una vera spiaggia sabbiosa.

Nessun albero cresceva fra quelle rocce; solamente pochi magri cespugli e delle piante sarmentose si vedevano crescere in fondo ai burroncelli, alimentate dalle piogge che dovevano raccogliersi in quelle bassure.

Gli animali dovevano mancare, ma non così gli uccelli, poichè su certe rupi tagliate a picco sul mare, si udivano di quando in quando dei cicalecci allegri.

Probabilmente dovevano essere rondini marine della specie delle salangane, volatili assai comuni in tutte le isole di quegli arcipelaghi e sopratutto in quelle deserte o poco abitate, non amando di essere disturbate.

— E così, signore? — chiese Enrico al veneziano, il quale continuava a osservare l’isolotto. — Credete che si possa riguadagnare la nostra isola?

— Temo, amico mio, che questa avventura inaspettata ci faccia passare dei brutti momenti, — rispose Albani. — Dimmi: credi tu che la scialuppa si sia fracassata contro i frangenti?

— No, signore, poichè si è capovolta prima di toccare la sponda di questo dannato scoglio.

— Se non si è spezzata, galleggerà adunque ancora.

— Lo credo, essendo tutta d’un pezzo e assai pesante.

— Speriamo che le onde l’abbiano spinta sui frangenti e arenata su qualche banco. Senza di quella noi non potremo lasciare quest’isolotto.

— Ma le onde possono averla spinta assai lontana, signore, — osservò Marino. — Il vento soffiava dall’ovest e l’avrà trascinata all’est.

— È vero, — disse Albani, scuotendo il capo.

— Vi sono i frangenti, — disse Enrico. — Possiamo, nuotando, passare dall’uno all’altro e avvicinarci all’isola.

— Ma vi sono delle interruzioni considerevoli nella linea, — rispose Albani. — E poi tu sai che in queste acque i pesci-cani e le torpedini sono numerose e non possediamo ora alcuna arma per difenderci.

— Saremo dunque costretti a perire di fame su questo deserto scoglio?...

— Non disperiamo così presto, Enrico. Quando il mare si sarà calmato, vedremo se i frangenti ed i banchi ci permetteranno di avvicinarci all’isola e poi, chissà, un grande fuoco si potrebbe forse scorgere dalla piattaforma della nostra capanna.

— Avete ancora l’acciarino e l’esca?

— Sì, Enrico, è sempre rinchiuso nella sua scatoletta impermeabile.

— E credete che Piccolo Tonno possa scorgere un fuoco acceso su questo scoglio?

— Forse, poichè ritengo che questo vulcanello non sia molto lontano dalla costa settentrionale. Intanto, amici miei, cerchiamo un ricovero e se è possibile qualche cosa da porre sotto i denti. Le conchiglie non devono mancare su quella spiaggia sabbiosa. —

Lasciarono la cima e girando attorno alla base di quel cono vulcanico, riuscirono a scoprire una profonda cavità sufficiente a ripararli dai raggi del sole, che erano cocentissimi, essendosi ormai il cielo sgombrato in gran parte dai vapori che lo coprivano.

Il signor Albani e Marino si spogliarono delle loro vesti per metterle ad asciugare, ma Enrico continuò ad esplorare l’isolotto colla speranza di trovare arenata la scialuppa o di scoprire, in fondo a qualche burroncello, degli alberi che potessero fornire una zattera.

Le sue ricerche però furono vane; non vi erano che cespugli e anche questi erano poco numerosi e non in grado di fornire un galleggiante qualunque. Visitando però la spiaggia sabbiosa, egli fece un’ampia raccolta di datteri di mare, di conchiglie di varie specie, e trovò anche alcune di quelle deliziose ostriche chiamate di Singapore, pesanti qualche chilogramma. Vide anche numerose tracce di testuggini, ma non riuscì a scoprirne alcuna, quantunque fosse certo che ve ne fossero nascoste in mezzo alle scogliere.

Si provò a frugare qua e là la sabbia, non ignorando che quei rettili hanno l’abitudine di seppellire le loro uova, ma senza frutto, essendo abilissime nel far sparire le più piccole tracce.

Ritornando trovò anche un serbatoio d’acqua di capacità considerevole, racchiuso fra due rocce profondamente incavate. Quella scoperta lo rallegrò assai, poichè non vi era almeno il pericolo di morire di sete, nel caso che la loro prigionia si prolungasse.

Durante la giornata il mare continuò a mantenersi agitatissimo, impedendo ai naufraghi di poter accertarsi fin dove si estendeva la linea dei frangenti e dove si ergevano i banchi che avevano impedito il passaggio alla scialuppa. Solamente verso sera le onde cominciarono ad abbassarsi e a percuotere con meno violenza la base dello scoglio.

Quando le tenebre calarono, i naufraghi riguadagnarono la vetta, portando con loro delle piante rampicanti secche e dei rami strappati ai cespugli, per tentare dei segnali.

Appena giunti sulla cima guardarono verso l’isola, la cui alta montagna si disegnava confusamente sull’orizzonte stellato, cercando di scoprire qualche punto luminoso che indicasse la direzione della capanna aerea.

— Guardate, signor Albani, — disse a un tratto il maltese, che teneva gli sguardi fissi verso nord-ovest.

Il veneziano ed Enrico guardarono nella direzione indicata e sul margine estremo della loro isola, quasi a fior d’acqua, scorsero un lumicino che non poteva confondersi colla luce d’una stella.

— È Piccolo Tonno che si prepara la cena dinanzi alla capanna, — disse Enrico. — Se quel bravo ragazzo sapesse che noi lo spiamo ansiosamente e che invochiamo il suo aiuto! Ah! Come sarei contento di dividere il suo pasto!

— Sì, — disse Albani. — Quel fuoco è stato acceso dal ragazzo. Non mi ero ingannato sulla posizione di questo scoglio. Deve essere quello che noi abbiamo scorto dalla finestra della nostra caverna.

— Dunque noi ci troviamo di fronte ai nostri magazzini?

— Se non proprio di fronte, un po’ più al sud, ma a venticinque o trenta miglia di distanza.

— Credete che Piccolo Tonno possa scorgere il nostro fuoco?

— Certo, Enrico.

— E che accorra in nostro aiuto?

— Ecco quello che non possiamo sapere. Può temere che il fuoco sia stato acceso da pirati e invece di farci dei segnali, fuggire.

— Diavolo, — mormorò Enrico, grattandosi furiosamente la testa. — Ma non vedendoci ritornare, dovrebbe immaginare che una disgrazia ci è toccata.

— Ma dovranno trascorrere prima parecchi giorni, non avendogli fissata l’epoca del nostro ritorno. Però, vedendo tutte le sere questo fuoco, finirà forse col persuadersi che si cerca di attirare la sua attenzione. Orsù, accendiamo gli sterpi. —

Radunarono sulla più alta cima del cono le legna portate e le accesero. Una grande fiammata si alzò subito, lanciando in aria lembi di scintille che il venticello notturno spingeva sul mare come tante minuscole stelle.

L’antico vulcano pareva che fosse risvegliato dal suo sonno secolare. I suoi fianchi, illuminati da quel falò che il vento ravvivava, parevano essersi coperti di lave ardenti, mentre il mare tutto all’intorno, si tingeva di riflessi sanguigni.

Quel vivo chiarore, che spiccava nettamente sul fondo oscuro del cielo e sui flutti, non doveva passare inosservato al mozzo, malgrado la notevole distanza che separava lo scoglio dalle sponde settentrionali dell’isola.

Il falò per un quarto d’ora scintillò fra le tenebre; poi non più alimentato si abbassò lentamente, finchè si spense del tutto.

I naufraghi, ritti sulla più alta punta, guardavano sempre verso nord-est, sperando di vedere il punto luminoso a ingrandirsi; ma invece tutto a un tratto scomparve.

— Piccolo Tonno non ci ha compresi, — disse Enrico. — Forse si sarà invece spaventato.

— È probabile, — rispose Albani; — ma finirà col persuadersi che questo fuoco è un segnale.

— Ripetiamolo, signore.

— È inutile, Enrico. Piccolo Tonno deve aver scorto questa luce e noi dobbiamo economizzare le piante che sono così scarse su quest’isolotto. Anche mantenendo il fuoco acceso tutta la notte, non riusciremmo a persuadere il mozzo che è un segnale di pericolo.

Ripetendolo per parecchie sere e non vedendoci ritornare, forse s’immaginerà che siamo noi che chiediamo aiuto.

Scendiamo, amici, e andiamo a dormire. —

Essendo inutile vegliare, non avendo da temere assalti da parte di nessuno, ed essendo assai stanchi, non avendo dormito la notte precedente, s’affrettarono a ritornare al loro ricovero ed a chiudere gli occhi.

Il loro sonno non fu turbato da alcun incidente e poterono riposare tranquillamente fino allo spuntare del giorno, malgrado i muggiti delle onde, le quali si sfasciavano sempre contro lo scoglio con grande violenza.

L’indomani però, il mare era ritornato calmo. Solamente delle larghe ondulazioni lo percorrevano, rompendosi contro i frangenti.

Inghiottirono alcune dozzine d’ostriche che il maltese era andato a raccogliere sulla spiaggia sabbiosa, poi risalirono sulla vetta del vulcano per vedere se sulla loro isola si scorgeva qualche segnale, ma invano. Nessuna colonna di fumo s’alzava sulle spiagge, nè sulla cima della montagna.

Senza dubbio Piccolo Tonno, non sospettando chi erano gli autori di quel segnale, aveva stimato cosa prudente il non rispondere. Probabilmente aveva creduto che fossero dei pirati o dei pescatori delle Sulu o del Borneo, individui che stavano meglio lontani anzichè cercare di attirarli sull’isola.

Rivolsero allora la loro attenzione sui frangenti, per vedere se era possibile di tentare il passaggio; ma in causa delle larghe ondulazioni che di tratto in tratto si rovesciavano sulle scogliere, non fu possibile scorgere i banchi che dovevano prolungarsi in direzione dell’isola. Bisognava aspettare che il mare tornasse perfettamente calmo.

— Per oggi nulla possiamo tentare, — disse Albani. — Questa sera ripeteremo i segnali e se non avremo alcuna risposta, domani, se il mare sarà tranquillo, ci avventureremo sui frangenti. —

Un po’ scoraggiati da quelle delusioni, ridiscesero e si diressero verso la spiaggia per fare raccolta di ostriche, non avendo altro cibo disponibile.

Mentre i due marinai, immersi fino alle ginocchia, frugavano le scogliere vicine raccogliendo gli appetitosi molluschi e cacciando i granchiolini, il signor Albani, quantunque zoppicasse ancora, esplorava l’isolotto sperando di scoprire qualche testuggine o per lo meno qualche buca ripiena d’uova di quei rettili.

Ma le sue ricerche riuscirono infruttuose. Si scorgevano bensì sulle sabbie delle tracce recenti, ma non una testuggine emergeva sulla riva.

Risalì le rocce e visitò i burroncelli, sperando di trovare almeno qualche pianta utile, ma non riuscì a vedere che cespugli semi-intristiti, delle piante rampicanti quasi disseccate e degli sterpi. Abbondavano invece le lave, le pomici, specialmente in una valletta che risaliva verso la cima del cono.

Avendo trovato un vero torrente di lava raffreddata, ma che non sembrava tanto vecchia, servendosi d’una grossa pietra spezzò le diverse croste e s’accorse, che a una certa profondità, quella lava conservava ancora un certo calore.

— Che cosa fate, signore? — chiese Enrico, che aveva terminato la sua raccolta. — Sperate di trovare qualche tesoro sotto quelle pietre?

— No, guardavo se fra queste lave vi fossero delle sostanze minerali che potessero giovarci.

— Dell’oro, forse?

— No, del ferro.

— Ne avete trovato?

— No, Enrico, ma ho fatto una scoperta curiosa.

— E quale, signore?

— Ho trovato delle lave che conservano ancora un certo calore.

— Delle lave eruttate da questo vulcanello?

— Sì, Enrico.

— E ancora calde! — esclamò il marinaio, con stupore. — Ma allora non è un vulcano spento.

— Se il cratere più non esiste, dev’essere spento.

— Ma noi non lo abbiamo mai veduto eruttare, signore.

— Può essere spento da venti, da cinquanta, fors’anche da cento anni.

— Ma se dite che le lave sono ancora calde!... Dovrebbe averle eruttate pochi giorni fa e noi non abbiamo veduto alcuna fiamma in questa direzione.

— Ti dirò, amico mio, che le lave, coprendosi quasi subito d’una crosta e avendo una irradiazione debolissima, conservano il loro calore per molti anni; anzi, secondo taluni scienziati degni di fede, perfino per un secolo.

— Mille terremoti!... Se queste cose me le narrasse un altro, parola da marinaio, non gli crederei.

— Aggiungerò che l’irradiazione delle lave è così minima, che si sono veduti dei vulcani vomitare massi di ghiaccio e lave insieme.

— Dei massi di ghiaccio uscire da un vulcano fiammeggiante?

— Sì, Enrico. In Islanda questo strano caso si è verificato sovente.

— Ditemi, signore, che sia molto antico questo vulcanello?

— Non lo credo, essendo le conchiglie che abbiamo veduto ammucchiate nei suoi burroni, ancora in ottimo stato.

— Ma io sarei curioso di sapere come fanno queste isole a sorgere dal mare. Che si sprofondino, si può ammetterlo, ma che si innalzino, mi sembra inesplicabile.

— S’innalzano in seguito ad una spinta formidabile che viene causata dalle masse di vapori racchiuse nella crosta terrestre. Come tu forse saprai, nell’interno del nostro globo, non sono spenti i fuochi. L’acqua che filtra attraverso i pori della crosta, trovandosi un dì o l’altro a contatto con quei fuochi, si evaporizza.

— Vi comprendo, signor Albani. Il vapore, non trovando sfogo, urta e spezza la crosta.

— Sì, Enrico, ma l’urta con forza irresistibile, rovesciando le gallerie sotterranee, producendo guasti immensi specialmente in alto e sollevando qua e là la crosta terrestre.

Un cataclisma simile, formidabile di certo, è avvenuto in un’epoca più o meno lontana sul fondo di questo mare e la spinta deve essere stata tale, da sollevare considerevolmente la crosta e da portare questo cono fuori dalle acque.

Le isole così formate non sono rare. Quasi tutte le Azzorre sono di origine vulcanica e anche non molti anni or sono, nel 1812 se non erro, una ne sorse improvvisamente presso le coste della nostra Sicilia, ma i flutti più tardi la distrussero.

— Quei sollevamenti producono dei terremoti?

— Sono anzi dovuti ai terremoti.

— Ma come si sarà poi spento questo vulcano?

— Forse per la brusca invasione delle acque del mare.

— Deve essere scoppiato come una bomba.

— Di certo, Enrico. Forse era molto più alto, ma scoppiando si sarà mozzato, riempiendo poi il cratere di rottami.

— Vi sono stati altri vulcani che sono scoppiati, signor Albani?

— Parecchi, ma non sempre a causa dell’irrompere delle acque e non sempre si sono poi spenti. Anche il nostro Etna è scoppiato, formando la così detta Valle del Bove, e così pure il nostro Vesuvio nel 79 subissando Ercolano, Pompei e Stabia sotto una pioggia di cenere e di lapilli. Quando nell’America centrale scoppiò il Coseguina, coperse le campagne circostanti d’uno strato di cenere alto cinque metri, per una superficie di quarantanove chilometri, e la detonazione fu udita a millecinquecentosessanta chilometri di distanza.

— Fulmini!... Che rombo!...

— Quando invece nel 1698 scoppiò il Timboro nell’isola di Sumbava, causò la caduta di una tale massa di rottami eguale a tre volte la mole del Monte Bianco, si estese su una superficie eguale a quella dell’Italia e di mezza Francia, mentre le pomici galleggiavano sul mare per uno spessore d’un metro.

— Lampi e terremoti! Ringraziamo questo vulcanello che ha avuto il buon senso di scoppiare cinquanta o cent’anni fa. Da simili mostri è meglio tenersi lontani, signore. —

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