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Capitolo XXXV
La famiglia dei Robinson
Quattro ore dopo il maltese e i naufraghi della giunca, che avevano marciato con grande rapidità, giungevano nella possessione dei Robinson italiani, dove gli aspettavano un pranzo poco meno che luculliano.
Rinunciamo a descrivere il loro stupore, la loro meraviglia, nel trovare su quell’estrema punta di quell’isola deserta e selvaggia una tavola così riccamente imbandita, una casa così comoda, quel campo coltivato con cura estrema, quel recinto già popolato di parecchi animali e di numerosi volatili, e quei magazzini riboccanti di viveri.
E rinunciamo pure a descrivere le congratulazioni fatte a quegli operosi Robinson che approdati con quasi nulla, mercè la loro attività, la loro costanza, avevano saputo procurarsi più di quanto sarebbe stato necessario alla loro esistenza. Potevano ben dire che quella microscopica colonia, nel suo piccolo, era in caso di gareggiare colle secolari e più fiorenti colonie delle isole dell’arcipelago della Sonda.
Il maltese sopratutto era il più stupito, memore delle miserie e dei lunghi digiuni sofferti sulle coste meridionali di quella istessa isola, che a lui e al suo compagno era sembrata inabitabile.
L’indomani la piccola colonia, sotto la direzione del valente ed infaticabile veneziano, si metteva animosamente al lavoro. I tagali, il molucchese e il maltese non chiedevano altro che di essere utili ai Robinson italiani per non essere, in alcun modo, di peso.
In quindici giorni altre tre belle capanne sorsero su quella sponda, formando un villaggio piccolo sì ma graziosissimo, poi sorsero nuovi recinti, altre uccelliere, altri vivai.
Un mese dopo il campicello aveva una estensione dieci volte maggiore. Avevano abbruciata una parte della foresta, una parte della piantagione di bambù e dissodato la terra, cingendola poi con una grande palizzata per difenderla dalle escursioni degli animali selvaggi.
Banani, durion, mangostani, noci di cocco, sagu, palme d’ogni sorta e arenghe saccarifere erano state piantate. Per di più i tagali avevano triplicato la produzione delle patate dolci avendone trovate altre sui fianchi della montagna, e avevano seminate altre piante utilissime pure trovate nei boschi: ignami, che sono grossi come tuberi che raggiungono un peso di quaranta libbre, somiglianti alle nostre patate; dei piccoli poponi colla polpa candidissima, ma molto succolenti, e uva marina che ha il sapore dell’acetosella.
Dalla foresta poi avevano ricavato grandi quantità di farina di sagu che poi avevano convertito in biscotti ed in gallette, riempiendo i nuovi magazzini appositamente costruiti e assicurandosi gli alimenti per lungo tempo.
Anche le altre piante non erano state dimenticate, sopratutto quelle preziose arenghe saccharifere, dai cui succhi avevano estratto zuccheri, sciroppi, liquori, nè le noci di cocco, dalle quali ricavarono una provvista considerevole di vino bianco, gustoso, che si conservava benissimo in una profonda cantina, scavata sotto una rupe, in prossimità della costa.
Un giorno, il signor Albani, vedendo che le loro vesti, in causa di quelle continue escursioni nelle foreste se ne andavano pezzo a pezzo, ebbe l’idea di trarre anche della tela da quei preziosi alberi.
Furono ancora quelle miracolose arenghe saccharifere, che gli procurarono la materia prima, ossia una specie di cotone di cui i popoli della Sonda si servono per adoperarlo come esca.
Ne fece raccogliere una quantità considerevole, lo mescolò colle fibre più sottili degli alberi di cocco e lo fece filare dalle tre tagale.
Avuto il filo, aiutato dai marinai, dopo lunghe e pazienti prove potè costruire una specie di telaio ottenendo della tela grossa e ruvida bensì, ma discreta e sopratutto robustissima.
La prima pezza fu regalata alla fidanzata del bravo genovese, la seconda a quella di Marino e la terza a quella del molucchese. Ormai la dote c’era e non mancava che il matrimonio.
Due mesi dopo, ultimati quei diversi ed importanti lavori, i due marinai e il molucchese, con grande gioia del vecchio capo, impalmavano le tre brave ragazze secondo il rito tagalo, rito molto spiccio e molto semplice, che richiede una tazza e un po’ di liquore di toddy che gli sposi devono bere in compagnia.
Le tre coppie felici andarono ad abitare in tre belle capanne costruite appositamente dietro la casa aerea, all’ombra d’un macchione di splendidi durion.
L’esistenza della colonia era ormai assicurata.
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Quattro anni dopo, cioè nel 1845, quando la squadra inglese dell’estremo Oriente, comandata dal contrammiraglio Campbel, approdò in quell’isola dopo una visita fatta al sultano delle Solù, trovò la colonia più fiorente che mai e già cresciuta di numero.
Gran parte dell’isola era stata dissodata ed i coloni nuotavano nell’abbondanza. Vasti magazzini si ergevano sulle coste settentrionali, i campi erano ricchi di tutte le produzioni più importanti dell’arcipelago della Sonda, i recinti pullulavano di scimmie, di babirussa, di orsi neri e di tapiri già addomesticati.
Fu solamente in quell’occasione che i coloni, aumentati di quattro ragazzini e di tre ragazzine, appresero che la loro isola era la più meridionale dell’arcipelago delle Solù e distava solo ottanta miglia da Tawi-Tawi.
Quei coloni erano così felici, che rifiutarono di abbandonare la loro terra. Si limitarono ad accettare parecchi oggetti indispensabili, sopratutto armi da fuoco e munizioni per sterminare le ultime tigri che ancora infestavano le boscaglie della montagna, degli attrezzi rurali e delle sementi contro scambio di viveri freschi.
Accettarono anche una baleniera, offerta a loro dal contrammiraglio, perchè potessero mettersi in relazione con Tawi-Tawi.
Oggi quest’isola, colonizzata dai naufraghi della Liguria, si chiama Samary, tale essendo il suo nome prima dell’approdo dei Robinson italiani. È una delle più prosperose dell’arcipelago, ed è abitata da una razza di meticci discendenti dai marinai italiani, dal molucchese e dalle tre figlie del capo delle Calamine.