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IV.
825Miseramente ricca è d’infinite
Fallaci industrie coscïenza, i cari
Proponimenti ad abbellir, pur quando
Luce severa di ragion li danna.
Ma chi d’iniquità volonteroso
830Per l’infame sentier non move il piede,
Sente per quel sentier, sebben cosparso
Da inferne mani di stupendi fiori,
Un ribrezzo frequente, un indistinto
Fetor che si frammesce a que’ profumi,
835Ed il ferma e il sospinge ad arretrarsi;
Simile a que’ timori innominati
Che invadon ne’ deserti il buon destriero,
S’ivi non lungi s’accovaccia il tigre;
E simile a que’ taciti spaventi
840Che fanno impallidir la verginella,
Quando in sembiante d’uom che di bellezza
Adorno splende, ella ravvisa ignoto
Lineamento, o non so qual favilla
Nel sorridente sguardo, o non so quale
845Moto di labbro che le dice: « Trema! »
In que’ presaghi palpiti d’un core
Ch’è vicino al periglio, e per potenza
Misterïosa se n’accorge e guata,
V’è la voce di qualche angiolo amante
850Che tutti sforzi a pro dell’uomo adopra:
V’è la possa d’Iddio che lume sempre
Bastevol dona a illuminar suoi figli.
Vane di coscïenza in Eleardo
Son le fallaci industrie: ei sulla fronte
855Porta il corruccio di talun che vive
Fra scoperti ribaldi, e più li mira,
Più inorridisce; e nondimen vorrebbe
Insensato scusarli e amarli ancora.
Oh come trista di quel dì esecrando
860Giunse la sera, e qual più trista notte
Agitò ognun che, pari ad Eleardo,
Alti e pietosi sensi ivi serbasse!
Ma la dimane di quel dì pur troppo
Sorse peggior! Repente una perfidia
865Entro le mura di Saluzzo avvenne,
Che affrettò la caduta. In vari alberghi
Scoppiano incendi orribili, ed il volgo
De’ cittadini si sgomenta, accoglie
Di calunnia le voci. Un grido s’alza
870Esser Tommaso degl’incendi autore,
Affinchè al buon Manfredo omai vincente
Nulla Saluzzo fuorchè cener resti.
Da poche mani congiurate i fochi
Erano stati per le soglie accesi,
875E poche fur le labbra che dapprima
Spargere osaro il grido abbominoso.
Ma frenesìa nel popolo s’appiglia,
E ratto si moltiplica il pensiero,
Esser Tommaso un barbaro oppressore
880Abborrito dal ciel. Lui benedetto
Asseriscon invan con generosa
Gara i ministri delle chiese e i sempre
Pacificanti Francescani e il colto
Stuol di color, che stretti avea la legge
885Di Domenico santo all’esercizio
De’ forti studi e della pia parola.
Benefiche potenze eran que’ frati
Sullo spirto de’ popoli, e sovente,
In tai secoli d’impeti e di sangue,
890Ma di gagliarda fè, coi gonfaloni
Di Francesco e Domenico a feroci
Animi imponean calma e pentimento.
Ma spuntano ai viventi ore talvolta
Di contagiosa irrefrenabil rabbia,
895E sotto ore sì infauste debaccava
Del Saluzzese popolo assai parte.
Dal di fuori frattanto a que’ momenti
Ecco irromper l’assalto! ecco le mura
Scalate, superate! ecco Tommaso
900Astretto a ceder le abitate vie,
A salir frettoloso all’alta rocca
A lui ricovro ed a’ suoi cari estremo!
Non eccelsa metropoli prostrata
Da infinite falangi era Saluzzo,
905Nè i suoi dolori fur soggetto a carmi
Di stupefatte illustri nazïoni,
Ma fur sommi dolori! E li divise
Quel Iacopo da Fia, che vergò in forti
Carte la istoria del tremendo eccidio.
910Ah, inorridisco in leggerle, e m’ispiro
Io tardo trovadore al mesto canto!
La fella di Manfredo anima irosa
Crucciavan nuovi aneliti a vendetta,
Perocchè a’ piedi suoi sotto le mura
915Fracassati da travi e da macigni
Dianzi veduto alcuni cari avea,
E fra loro un fratello, il più diletto
De’ prodi e truci due degni fratelli.
In ogni vinto armato cittadino,
920Ed anco negl’inermi e ne’ vegliardi,
E nelle donne stesse il furibondo
Immaginava la nemica destra
Ch’orbo l’avea di quel fratello, e tutti
Ei sterminati indi li avrìa. Frenava
925Il proprio acciar, ma non frenava quelli
Della brïaca moltitudin varia
Ivi con esso a imperversar prorotta.
Rifugge l’estro mio dalla pittura
Degl’inauditi singolari strazi
930Che segnalàr quel giorno. Oh vane e stolte
Speranze dei domati! oh retrospinte
Preghiere fervidissime, innalzate
Da’ miseri che proni eran nel sangue
De’ figli loro o nel fraterno sangue!
935Oh giustamente non curati applausi
Della stolida feccia scellerata
Che menar volea festa ai vincitori,
Liberator’ chiamandoli, e mandati
A raddrizzar tutti i plebei diritti!
940Oh inutil congregarsi trepidando
Di lagrimose vergini e di madri
E di fanciulli anzi ai predoni infami,
Ricordando a costoro i dolci nomi
Di pietà, di giustizia e d’innocenza!
945Oh ingiurie non dicibili! Oh colpiti
Dalle scuri sacrileghe gl’ingressi
Di più case di Dio, dove sgozzati
Cadono antichi sacerdoti, e gioco
Reliquie vanno e sacri vasi ai ladri!
950Tutto è dileggio e rubamento e morte
Intero un giorno e la seguente notte,
E già parte dell’armi e de’ congegni
Ratta si volge ad investir la rocca.
Magnifico sorgea d’aprile un sole,
955E delle pompe di sì splendid’astro
Raccapricciaron di Saluzzo i vinti,
Lor macerie e cadaveri mirando,
Quand’a lor s’apprestàr novelle ambasce.
Clangor repente innalzasi di tromba,
960E nel nome abborrito di Manfredo
Gridan gli araldi questo atroce bando:
« Esser giusto castigo al contumace
Popol de’ ribellanti soggiogati,
Ch’ivi su pietra più non resti pietra,
965E irremovibilmente or quel castigo
Compiersi pria che il sol giunga all’occaso;
Ma perdonata andare ancor la vita
Ai puniti felloni, e per clemenza
Che maggiormente moderi il flagello,
970Concedersi ad ognuno il portar seco
Qual ch’egli serbi di tesori avanzo ».
Tal legge uscita, il raddoppiato pianto
Chi dirla degli oppressi? A que’ lamenti
Inesorata del tiranno è l’alma,
975Inesorata al supplicar di molti
Infra suoi cavalieri e d’Eleardo:
Forz’è ch’ogni abitante i cari tetti
Sgombri innanzi la sera, e chi sa dove
Ramingo vada. Non v’è tempo a indugi,
980E vedi con sollecito, confuso
Moto d’alme avvilite e disperate,
Fra i singhiozzi e fra gli urli incominciarsi
L’infelice spettacolo. Agl’infermi
Ed agli avi decrepiti sostegno
985Fansi gli adulti d’ambo i sessi, e cinte
D’adolescenti e pargoli e lattanti
Collacrimar vedi le donne. Ognuno
Che già d’averi non sia privo, or seco
Gli ultimi tragge vestimenti e arredi.
990Di sì misera vista i vincitori
Gioìron crudelmente insin che tutta
Fosse la turba delle case uscita.
Frodolento il decreto era a sol fine
Di scovrir se ricchezza aveavi ancora
995Che al saccheggio primier fosse sfuggita.
Or poichè tutti di lor robe carchi
Furono i cittadini, il rio Manfredo
Misericorde spirito ostentando,
Disse che rasi non andrian gli ostelli,
1000Ma diè barbaro cenno alle coorti
Che assalisser la turba, e d’ogni spoglia
La derubasser. Così il vil tiranno
Suoi debiti solveva ai masnadieri,
Che a quel regno di sangue aveanlo alzato.
1005L’inverecondo estremo predamento
Desta a furor gli sventurati. Allora
Più non resiste agl’impeti possenti
Del suo sdegno Eleardo: ― Io m’ingannai,
Alto grida fra il popolo; io sognava
1010Esser Manfredo della patria padre;
Usurpator mi s’appalesa infame!
Con lui rompo ogni vincolo, al cospetto
Di voi, di lui medesmo!
Intorno al prode
Cento gagliardi giovani un celato
1015Ferro traggon dal seno, od ai nemici
Tolgon con forza l’arme, e questo pronto
Saluzzese drappello osa brev’ora
Sperar prodigi. Orribile, ostinato
Combattimento per le piazze ferve,
1020E più fïate incontrasi Eleardo
Coll’iniquo Manfredo, e mescolati
Sono i lor brandi valorosi indarno.
S’incontrano Eleardo e Arrigo pure,
E quei più volte può svenare il vecchio
1025Ma con affetto filïal lo sparmia,
Benchè Arrigo lo imprechi. Alfin dal troppo
Numero sopraffatta è l’animosa
Schiera de’ cento, e arretra, e quasi intera
Esce fuor delle mura, ed inseguìta
1030Viene per la campagna infin che l’ombre
Delle selve la involano ai crudeli.
Intanto agli occhi di Saluzzo un nuovo
Si compiva infortunio. In man degli empi
Cade la rocca stessa, e prigioniero
1035Indi co’ dolci figli esce Tommaso,
E tratti van gli sciagurati illustri
In carceri diverse. Alta ventura
Ancor si fu che in piena sua balìa
Non li avesse Manfredo: ei li avrìa spenti.
1040Il fero siniscalco uman s’è fatto,
Sì perchè non abbietto era il suo core,
Sì perchè astutamente al rio Manfredo
Volea serbar temuto un avversario,
E sì perch’egli al generoso senno
1045Ed alle scaltre previdenze unìa
Non leve sete d’oro: immenso chiede
Pel vinto sir riscatto ai ghibellini.
Ma che diss’io, nel provenzal barone
Immaginando non abbietto il core?
1050Qual fu pietà la sua, mentre di scherni
Osò abbevrar fuor di Saluzzo, a’ piedi
De’ trionfati muri, innanzi a tutte
Le invereconde vincitrici squadre,
L’illustre prigionier, lui dichiarando
1055Spoglio di signorìa? lui dividendo
Da’ lagrimosi tenerelli infanti,
Che al sir d’Acaia fur commessi e tratti
Di Pinerol nella superba rocca?
L’infelice Tommaso a sorso a sorso
1060D’amara prigionìa sorbì la tazza,
Prima in Cardeto brevi dì, poi chiuso
Di Savigliano entro il castel, poi tolto
Maggiormente alla vista de’ mortali,
E seppellito in solitaria torre,
1065Di Pocapaglia sovra l’erta cima,
Indi levato da quel forse troppo
Mal securo deserto, e fra le mura
Di Cuneo inespugnabili nascoso.
Non sì tosto compita, ahi! di Tommaso
1070Fu la caduta dall’avito seggio,
Volò del tristo avvenimento il grido
Pe’ saluzzesi piani e per le balze,
E l’intese Eleardo entro a’ suoi boschi.
Disconfortati allora esso e i compagni,
1075Depongon le arditissime speranze
Accarezzate nella prima ebbrezza,
O se tutti non vonno appien deporle,
In avvenir remoto, indefinito
Le vagheggiano omai. Son ripetuti
1080D’amicizia fra loro e di costante
Cor ghibellino i dolci giuramenti,
E con dolor s’abbracciano bagnando
Di lagrime fraterne i forti petti,
E chi per questa sponda e chi per quella,
1085A diverso destin ciascun si trae.