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Capitolo 8
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VIII.
Una notte, mentre Lucrezia, a letto, russava profondamente, e Benedetto studiava a tavolino il bilancio comunale, una scampanellata improvvisa fece sussultare il marito e destò la moglie. Andato ad aprire, Benedetto si vide dinanzi il principino bianco in viso come un foglio di carta.
— Datemi da lavare, — disse allo zio, traendo dalla tasca della giacchetta la destra rossa di sangue.
— Consalvo!... Che è stato?... Che hai?..."
— Nulla, non gridate.... Per aprire una finestra.... ho rotto un vetro, mi sono tagliato.... Datemi da lavare!... È una cosa da nulla....
La ferita era invece profonda; cominciava dal dorso della mano, girava sotto la giuntura del pollice e finiva sul polso. Medicata con taffettà, doveva essersi riaperta, perchè del fazzoletto che fasciava la mano non restava neppure un angolo bianco, e il sangue gocciolava, macchiando l’abito e la camicia.
— Non potevo andare a casa, conciato in questo modo.... — spiegava il giovinotto, mentre teneva immersa la mano in una catinella, l’acqua della quale s’arrossava; ma ad un tratto, perduta la sicurezza che l’aveva fin lì sostenuto, cominciò a tremare, con la fronte madida di sudor freddo, girando intorno lo sguardo stravolto, dove Giulente leggeva adesso lo sbigottimento di un’improvvisa aggressione, la paura della morte intravista nel baleno d’una lama.
— Di’ la verità: com’è stato?...
— Ancora?... La vetrata rotta, v’ho detto.... Chiamate piuttosto Giovannino che m’accompagnò dal farmacista e aspetta giù....
L’amico, più pallido di Consalvo, confermò la narrazione. La verità si seppe il domani. Da un pezzo Consalvo andava dietro alla figlia del barbiere del Belvedere, Gesualdo Marotta: una ragazza che si tirava su per pettinatrice e, quantunque girasse sempre per le vie, non dava retta a nessuno, con una gran paura dei fratelli poco disposti, articolo onore, a scherzare. Ma il principino, quando concepiva un capriccio, non si chetava se non dopo averlo soddisfatto; e, nonostante le preghiere, gli avvertimenti e le minacce dei Marotta, aveva messo in moto tutte le mezzane della città per vincere la resistenza della pettinatrice e della famiglia, promettendo di toglierla dalle strade, da quel mestiere penoso e pericoloso; di metterle su una bella bottega di modista, assicurandole anche la clientela di tutte le sue parenti ed amiche. Tutto era stato inutile. Allora, vedendo che con le buone non otteneva nulla, egli fece un bel giorno rapire la ragazza e la tenne tre giorni con sè al Belvedere. I fratelli, per un certo tempo, stettero zitti, quasi fossero al buio; solo quella brutta notte, mentre il principino usciva dal Caffè di Sicilia, in compagnia di Giovannino Radalì, s’era sentito urtare e squarciare da una lama tagliente la mano distesa istintivamente per difendersi. «Ci rivedremo!...» aveva detto l’aggressore, scappando alle grida di Radalì.
Il principe non disse nulla quando vide il figliuolo conciato a quel modo: mostrò di credere alla storia della vetrata rotta e si mise a vegliarlo insieme con la principessa, la quale stette al capezzale di Consalvo premurosa ed inquieta come una vera madre. Il giovane dissimulava male il suo fastidio per quelle cure antipatiche e accoglieva come altrettanti liberatori gli amici che venivano a fargli visita mattina e sera. Il pericolo corso, il sangue perduto, gli procuravano l’ammirazione di quei suoi compagni di bagordo; però, guarito, egli non mise il naso fuori dell’uscio. I Marotta avevano fatto sapere che erano pronti a ricominciare appena lo avrebbero rivisto, di notte o di giorno, e che la seconda volta non se la sarebbe cavata con una semplice graffiatura, e che, aspettando di farsi giustizia da loro, denunziavano intanto la cosa ai giudici. Tutti gli Uzeda, inquieti per la vita dell’erede del nome, ricorsero al duca: egli solo, con l’autorità che gli veniva dalla posizione politica, poteva ottenere dal prefetto, dal questore, dai magistrati che quei malviventi lasciassero quieto il giovanotto. Il duca, udito il fatto e quel che volevano da lui, invece di dar ragione al pronipote, fece inaspettatamente una gran sfuriata, tanto più strana, quanto che non era nel suo carattere.
— Bene gli sta! Queste sono le conseguenze della sua vitaccia! E voialtri che non lo chiudete a chiave! Che vi rallegrate delle sue prodezze! Adesso che volete da me?
Nessuno lo aveva mai visto così rabbuffato; un altro poco e pareva suo fratello don Blasco. La questione era che i suoi avversarii tentavano con accanimento un nuovo assalto alla sua riputazione e che l’imbroglio di Consalvo dava loro buono in mano. Il deputato non andava da due anni alla capitale, dimenticava interamente gli affari pubblici per badare ai proprii. Che gran patriotta, eh? Di quanto disinteresse, di quanto amor patrio non dava prova? Quando aveva avuto da imbrogliare a Torino e a Firenze, se n’era stato sempre lontano, col pretesto degli affari pubblici, anche se la Camera era chiusa a catenaccio e il ministero disperso di qua e di là; pei fatti del Sessantadue nessuno lo aveva strappato da Torino; in patria era venuto solo per essere rieletto; l’ultima volta neppur s’era data questa pena, considerando il collegio come un feudo elettorale la cui proprietà nessuno poteva contrastargli; adesso che gli conveniva accomodare le sue faccende, avevano un bel discutere delle più gravi quistioni, in Parlamento: egli non si moveva. Ma quando pure ci fosse andato? Che cosa avrebbe fatto, lì dentro? Che cosa aveva fatto in otto anni di deputazione? Come un burattino, aveva alzato ed abbassato il capo, per dire sì o no, secondo gl’imbeccavano! E avesse una volta, una sola volta, aperto la bocca! Si scusava col dire che il pubblico lo sgominava ma la verità era che non aveva neppur l’ombra di un’idea in fondo alla zucca, che non sapeva scrivere un rigo senza fare sette spropositi; e credeva di poter nascondere la sua assoluta ignoranza con l’aria di presunzione e di sufficienza! E ad una bestia di quella cubatura affidavano tutti gli affari della città e della provincia, lasciavano dettar sentenze intorno a ogni sorta di quistioni: d’istruzione pubblica, di ingegneria, di musica, di marina!... Non contento di esercitare personalmente tanto potere, ficcava i suoi aderenti da per tutto perchè facessero il suo giuoco: così Giulente zio aveva avuto la direzione della Banca, così Giulente nipote era stato fatto sindaco!...
Tutte quelle accuse dei suoi nemici giravano per il paese, trovavano credito, erano una minaccia. Giulente prendeva le sue difese, ma adesso non lo ascoltavano più come un tempo; il discredito del deputato si estendeva un poco su lui. Gli davano dell’ipocrita perchè pretendeva conservare le antiche amicizie mentre era diventato settario, l’esecutore delle partigianerie, delle ingiustizie del duca. Ipocrita soltanto? I più accaniti assicuravano che teneva anzi il sacco all’Onorevole, perchè qualcosa doveva entrargliene, perchè spartivano gli illeciti profitti, il frutto dei loschi affari!... E più di ogni altro argomento, questo dei guadagni del deputato aveva la virtù d’infiammare i suoi nemici. Delle cariche pubbliche s’era servito per accomodar le sue cose; i denari impiegati nella rivoluzione gli fruttavano il mille per cento! Così spiegavasi il suo patriottismo, la commedia della sua conversione alla libertà, mentre Casa Uzeda era stata sempre covo di borbonici e di reazionarii, mentre egli stesso, al Quarantotto, aveva goduto col cannocchiale, come al teatro, lo spettacolo della città agonizzante! Spiegavasi un poco con la paura, col bisogno di dar prova di liberalismo e di democrazia per non essere fucilato — e i gonzi s’eran lasciati prendere dalla famosa abolizione del pane di lusso, durata quindici giorni! — ma la cupidigia era stata più grande della paura; e certuni bene informati assicuravano che una volta, nei primi tempi del nuovo governo, egli aveva pronunziato una frase molto significativa, rivelatrice dell’ereditaria cupidigia viceregale, della rapacità degli antichi Uzeda: «Ora che l’Italia è fatta, dobbiamo fare gli affari nostri....» Se non aveva pronunziato le parole, aveva certo messo in atto l’idea; per ciò vantava l’eccellenza del nuovo regime, i benefici effetti del nuovo ordine di cose! Le leggi eran provvide quando gli giovavano; per esempio, la famosa soppressione delle comunità religiose! A dargli retta, i beni tolti alla Chiesa dovevano permettere di alleggerir le tasse, e far divenire tutti proprietarii. Invece, le gravezze pubbliche crescevano sempre più, e chi aveva ottenuto quei beni? il duca d’Oragua, la gente più ricca, i capitalisti, tutti coloro che erano dalla parte del mestolo!...
L’opposizione al deputato si confondeva così, a poco a poco, nel generale malcontento, nel disinganno succeduto alle speranze riposte nella mutazione politica. Prima, se le cose andavano male, se il commercio languiva, se i quattrini scarseggiavano, la colpa era tutta di Ferdinando II: bisognava mandar via i Borboni, far l’Italia una, perchè di botto tutti nuotassero nell’oro. Adesso, dopo dieci anni di libertà, la gente non sapeva più come tirare avanti. Avevano promesso il regno della giustizia e della moralità; e le parzialità, le birbonate, le ladrerie continuavano come prima: i potenti e i prepotenti d’un tempo erano tuttavia al loro posto! Chi batteva la solfa, sotto l’antico governo? Gli Uzeda, i ricchi e i nobili loro pari, con tutte le relative clientele: quelli stessi che la battevano adesso!
Per combattere queste idee che facevansi strada e che nocevano anche a lui, Giulente le attribuiva all’invidia degli inetti, alla mala fede dei nemici, sopra tutto alla propaganda dei suoi antichi amici rivoluzionarii. Il gran torto del duca era quello di sostenere la causa dell’ordine, della moderazione, della prudenza! Se invece di appoggiare il governo, si fosse gettato tra gli esaltati della Sinistra, gli avrebbero battuto le mani! Ma predicava ai Turchi; per essere ascoltato, per riscuotere approvazioni ed incoraggiamenti, non gli restava altro che rivolgersi ai partigiani del duca. Questi erano sempre numerosi, ma soprattutto più autorevoli, più influenti della folla anonima degli accusatori, tra la quale gli elettori si contavano sulla punta delle dita. Fedeli, anche; e sordi a quelle accuse, e tanto più ligi al deputato quanto che la sua caduta li avrebbe rovinati.... Ora, in queste condizioni dell’opinione pubblica, il pasticcio del nipote seccava moltissimo don Gaspare. Non già che gl’importasse del pericolo a cui il giovanotto era esposto: egli non provava le tenerezze di donna Ferdinanda o l’interesse degli altri parenti per l’erede del principato; nè che temesse veramente di rimaner nella tromba a un prossimo scioglimento della Camera, di non poter continuare a spadroneggiare in paese; ma non voleva esser discusso, presumeva serbare intatto il prestigio dei primi tempi; e giusto per questo la sventataggine di Consalvo lo metteva in un bell’impiccio: giacchè dando mano ad un sopruso, perseguitando i parenti della ragazza rapita, avrebbe sollevato più forti clamori contro sè stesso; mentre la rinunzia a difendere il nipote sarebbe stata attribuita appunto alla paura di attirarsi nuove opposizioni. Dopo avere esitato un poco fra i due partiti, facendo sentire a Consalvo il peso del proprio sdegno, ma difendendolo dinanzi agli estranei, egli si apprese al più audace. Il più facinoroso fratello della pettinatrice fu chiamato un giorno da un ispettore di polizia, il quale gli consigliò pel suo meglio di desistere dalle minaccie, altrimenti lo avrebbero denunziato per l’ammonizione; nello stesso tempo i testimonii del ratto voltarono casacca, dichiararono invece che la giovane era andata liberamente alla villa Uzeda; e si trovarono poi due contadini che dissero di avercela veduta altre volte, e parecchi altri i quali affermarono che in paese si diceva non esser quella la prima scappata della ragazza. I parenti gridavano vendetta, ma i vicini li persuadevano a desistere, ad accomodarsi con le buone; il principino, quantunque le migliori testimonianze lo sollevassero da ogni responsabilità, pure, per evitar altre noie era pronto a sborsare tre mila lire per la bottega di modista.
Ora un bel giorno, mentre s’aspettava da un momento all’altro la notizia che l’imbroglio, un po’ con le minaccie, un po’ con le promesse era accomodato e che il giovinotto non correva più alcun pericolo, il principe che non aveva ancora mosso un solo rimprovero al figliuolo entrò nella camera di quest’ultimo rosso in viso come un pomodoro, spiegazzando un foglio di carta:
— A te!... Che significa questa lettera?
Era per un debito di seimila lire che il principino aveva garentito con una cambiale rinnovata parecchie volte di quattro in quattro mesi; il creditore, volendo esser soddisfatto e profittando della clausura del giovinotto, scriveva al padre avvertendolo della scadenza e invitandolo al pagamento.
Consalvo, nel primo momento, rimase; ma poichè suo padre, animato da quel silenzio, chiedeva spiegazioni gridando più forte, egli rispose freddo e calmo:
— Non c’è bisogno d’alzar la voce. Che cosa le hanno scritto?
— Sai leggere, sì o no? — esclamò il padre, mettendogli il foglio sotto il naso.
Ma il giovinotto si trasse vivamente indietro, come se fosse minacciato da un contatto impuro. Durante i lunghi giorni che aveva passati sopra una poltrona, tenendo il braccio appeso al collo, nell’inerzia forzata, con l’impossibilità di servirsi della mano destra, rabbrividendo alla vista del sangue che ancora trapelava dalla ferita e macchiava la fasciatura, a poco a poco s’era svegliato in lui ed era cresciuto e s’era fatto irresistibile lo stesso senso di ribrezzo che era stato il tormento di sua madre, la stessa repulsione per tutti i toccamenti, lo stesso schifo per le cose che altri aveva maneggiate, la stessa paura dei sudiciumi contagiosi. Come suo padre più gli s’avvicinava porgendo la lettera, più egli si scostava, con le mani dietro la schiena, per evitare di prenderla.
— Va bene... va bene... — diceva, schermendosi e guardando di sbieco i caratteri; — ho visto... è don Antonio Sciacca.
— Ah, don Antonio? — gridò il principe. — Dunque è vero? Non ti dài neppur la pena di fingere?... Ed hai il coraggio...
Consalvo piantò a un tratto gli occhi negli occhi del padre, guardandolo fisso, con un’espressione dura, come di sfida, e lasciato improvvisamente il lei:
— Che cosa volete?... — gli disse. — Avevo bisogno di danari... Me ne date tanti!... Li ho presi: voi che ne avete li pagherete...
Il principe pareva sul punto di cader fulminato. Rivolgendo al figliuolo uno sguardo non meno fisso nè meno duro:
— Pagherò un cavolo... pagherò!... — articolava. — I miei quattrini?... Ti lascerò condannare e legare, bestione! Capisci, bestione?
Più freddo di prima, Consalvo rispose:
— Va benissimo. Dunque non mi seccate...
— Ah, ti secco?... Ti secco?...
E di repente, come uno che riesce a vomitare dopo vani conati, cominciò a sfogarsi. Gonfiava da due anni, per due lunghi anni aveva lasciata la briglia sul collo al figliuolo; durante tutto quel tempo aveva compresso, soffocato, vinto l’imperioso bisogno che era in lui di comandare, di veder tutti piegare dinanzi alla propria volontà di capo della casa, di padrone, di arbitro assoluto del destino della famiglia; egli che aveva martoriato tutti i suoi, fatto di loro ciò che gli era piaciuto, s’era piegato a lasciar la briglia sul collo al figliuolo, a colui sul quale più legittimamente avrebbe potuto esercitare la propria potestà. Per due anni, fingendo la tolleranza, l’indulgenza, l’affezione, s’era arrovellato sordamente, covando l’antipatia e l’avversione contro il figlio, ricambiando l’odio che si sentiva portato; adesso finalmente scoppiava. Finchè s’era trattato della mala vita del giovane, della sua freddezza verso la madrigna, egli era riuscito a frenarsi; ora invece Consalvo lo feriva nel sentimento più forte di tutti gli altri, attentava non più alla sua autorità morale ma alla sua borsa. Il principe aveva lottato tutta la vita, fin dall’età della ragione, per accumulare nelle proprie mani quanto più denaro gli era stato possibile, per toglierlo alla madre, ai fratelli, alle sorelle, alla moglie; meglio che tutti gli altri Uzeda, egli era il rappresentante degli ingordi Spagnuoli unicamente intenti ad arricchirsi, incapaci di comprendere una potenza, un valore, una virtù più grande di quella dei quattrini; e adesso che era riuscito nel proprio intento, che vedeva arrivato il tempo di godere serenamente il frutto delle lunghe e pazienti fatiche, ecco suo figlio cominciare a disporre di quella fortuna come di cosa propria! Se Consalvo gli avesse chieste le seimila lire, forse egli le avrebbe date; ma l’idea del debito contratto, della cambiale firmata, degli interessi rilasciati anticipatamente agli usurai, produceva una rivoluzione nella testa del principe, gli faceva vedere irreparabilmente pericolante la propria ricchezza, giacchè quella cambiale non doveva esser sola, giacchè la naturale inclinazione del figlio allo sperpero gli riusciva adesso evidente, giacchè quello sciagurato osava parlare alteramente, quasi non avesse fatto se non esercitare un proprio diritto! E non voleva esser seccato per giunta! E rispondeva con quel tono a suo padre!
— Ah, ti farò veder io se ti secco! Come t’accomoderò!... Qui il padrone sono io: ficcati bene questa idea nel cervellaccio pazzo! Qui s’ha da far sempre, unicamente, in tutto e per tutto, la mia volontà! Perchè sono stato troppo buono finora?... Ti farò veder io, pezzo d’imbecille!... E la gente, i miei parenti, tutto il paese che mi rinfaccia ad una voce la vitaccia di quest’ animale! la vita delle taverne e dei lupanari!... Credi forse che non sappia le tue sporche prodezze?... Come non arrossisci dalla vergogna? Come non vai a nasconderti lontano dalle persone a modo? La dignità del tuo nome calpestata in compagnia dei più schifosi bagordieri! E non parlo dei denari scialacquati, buttati via come fossero sassi! Chi spende per capricci, per divertimenti pazzi quanto questa bestia?... E non basta lasciarlo fare, non dirgli nulla, metter mano tutti i giorni al portafoglio!... E ardisce lagnarsi che non ha abbastanza! E invece di scusarsi, di chiedere perdono, vuol rifatto il resto! Oh, con chi credi di trattare, imbecille?... Io non pagherò un soldo! Ed è tempo d’intendersi, sai! Giacchè ci siamo, una volta per tutte!... Qui bisogna mutar registro!... Fin a quando starai in casa mia, hai da fare quel che piace a me, comportarti come tra la gente civile!... Questa non è una locanda, da venirci solo per mangiare e dormire! Io non ti posso imporre l’affezione, e non m’importa che me ne voglia: ma esigo il rispetto che m’è dovuto; il rispetto che devi a tua madre....
Consalvo non aveva detto una sola parola, non aveva fatto un gesto durante la sfuriata del principe. Questi aveva un bell’arrestarsi, dopo un’interrogazione o una esclamazione, quasi per dargli il tempo di rispondere qualcosa, di giustificarsi: in piedi presso la finestra, il giovanotto guardava nel cortile di servizio le carrozze tirate fuori delle rimesse e i famigli intenti a ripulirle: se fosse stato solo nel suo salottino non sarebbe rimasto più impassibile. Ma alle ultime parole del principe, si voltò lentamente.
— Mia madre?...
Aveva sul volto un’espressione indefinibile, di curiosità, di stupore, di dubbio, dominata da un sorriso tenuissimo, di soli occhi.
— Mia madre?... Mia madre è morta. Lei lo sa meglio di tutti.
Il principe tacque, guardandolo. A un tratto s’udì un fruscìo di gonne, e la principessa Graziella, avvertita dalla cameriera che aveva udito le voci, entrò:
— Che c’è?... Che cosa avete?...
Consalvo si mise le mani in tasca e senza dir nulla passò nella camera attigua. Il principe si lasciò condurre via dalla moglie.
Per molte settimane padre e figlio non scambiarono più una parola. L’affare del debito, risaputo dai parenti, divise in due campi la famiglia. Il duca, che non perdonava ancora al pronipote l’imbarazzo in cui l’aveva messo, sosteneva il principe, l’incitava a non cedere, a lasciar protestare la cambiale; Giulente anche lui giudicava necessario dare un po’ di paura al giovinotto, perchè niente avrebbe poi potuto arrestarlo nella via dei debiti, se il principe decidevasi a pagare il primo; ma Lucrezia, pel gusto di contraddire al marito, per dare una lezione di munificenza a quel pezzente che giudicava tutti alla sua stregua, esclamava che Consalvo aveva il diritto di svagarsi; che seimila lire per il principe di Francalanza erano come dieci lire per Giulente, e che in casa Uzeda per nessuna ragione al mondo poteva darsi lo scandalo d’un protesto. Donna Ferdinanda, manco a dirlo, se la prendeva con l’avarizia del principe, che non dando abbastanza al figliuolo lo costringeva a ricorrere al credito, e Chiara dava un poco ragione agli uni e un poco agli altri, secondo l’umore di Federico. Quanto a don Blasco, che da un pezzo era diventato invisibile, un bel giorno venuto a palazzo, cominciò a prendersela non solo contro Consalvo pei debiti e per la condotta scandalosa, ma anche contro il principe e la principessa, alla cui debolezza attribuiva lo sfrenamento di Consalvo.
— La colpa è tutta vostra! Questo non è il modo d’educarlo! Pagargli i debiti? Alzargli la mangiatoia, bisogna!... — E senza nominarla, si scagliò contro donna Ferdinanda, dandole della bestia a tutto spiano, perchè coi vezzi che gli aveva fatti ella era l’origine prima della mala creanza del principino.
Donna Ferdinanda riseppe il discorso tenuto dal monaco nello stesso tempo che il suo sensale le dava una notizia strepitosa: don Blasco, non contento d’aver comprato la tenuta di San Nicola, aveva preso dal demanio, giusto in quei giorni, una delle case appartenenti al convento: il palazzotto di mezzogiorno, l’antica abitazione della Sigaraia; ed armeggiando così bene, da farselo aggiudicare per un boccon di pane. Allora, apriti cielo:
— Anche la casa? — gridò la zitellona. — Io l’ho sempre detto che è un porco, un vero maiale! E fa la voce grossa con gli altri, dopo quello che ha sulla coscienza!... Che gli estranei comprino i beni del convento, si capisce: non hanno nessun obbligo; ma lui? che se non l’avessero fatto monaco sarebbe morto di fame? che s’è ingrassato a spese della comunità?...
— O non era quello, — rincaravano nella farmacia di Spataro, — che voleva mangiarsi i liberi pensatori e bandire una nuova crociata addosso agli usurpatori scomunicati e ridare la roba loro al Papa ed a Francesco II?
Ma a don Blasco importava adesso un fico secco se il Re chiamavasi Francesco o Vittorio; chè, entrato nella casa di San Nicola, ci stava da papa: le botteghe le aveva affittate a buoni patti, ed il primo piano anche, a un professore che dava lezioni nella scuola tecnica istituita nel convento. Scrupoli egli non ne provava; perchè anzi, se tutti i monaci avessero imitato il suo esempio, accaparrando le proprietà del monastero invece di sciupare i quattrini che ne avevano portato via, i beni di San Nicola non sarebbero andati in mano di estranei.
— Questo era il vero modo di riparare all’abolizione e non le vociate inutili e ridicole. Ricompràti i beni da tutti i monaci, l’avremmo fatta in barba al governo!
Egli se la pigliava ancora con questo governo, specialmente per via delle tasse che gli faceva pagare; però, siccome i fedeli alla causa della reazione predicevano la fine della baldoria e il ritorno allo stato antico e la restituzione del maltolto alla Chiesa, il monaco protestava:
— Come, il maltolto? Io ho pagato il Cavaliere e la casa con bei quattrini sonanti; ho affrancato il censo, avete capito?... Me li hanno regalati, o li ho rubati, perchè possano riprenderli?
— Non dovevate comprarli, sapendone la provenienza! E arriverà il giorno della resa dei conti, del Dies iræ: non dubitate!...
— Chi? Che? Chi ha da venire?... — gridava allora il monaco. — Verrà un cavolo!
— La mano di Dio arriva da per tutto!... Le vie della Provvidenza sono infinite!...
Le liti ricominciavano ogni dopo pranzo: quei borbonici e clericali ricevevano certi fogliacci dove la fine della rivoluzione era data come certa ed imminente: gli articoli letti ad alta voce, ascoltati come il Vangelo, applauditi ad ogni periodo, facevano andare in bestia il Cassinese. Un giorno che la brigata, dopo una di quelle letture, gli diede addosso con maggior vivacità del solito, don Blasco s’alzò, fece un gesto molto espressivo, gridò un: Andate a farvi!... e andò via per non metter più piede dallo speziale. Il pomeriggio, passando dinanzi alla bottega, affrettava il passo, guardando dritto dinanzi a sè, e se c’era gente seduta al limitare, traversava la strada, per passare dal marciapiedi opposto. Egli non metteva neppur piede a palazzo, dove quell’usuraia della sorella gracidava anche lei contro i compratori dei beni ecclesiastici come se fossero altrettanti ladri, e dove quell’altro pezzo di gesuita di Giacomo gli faceva la corte, adesso che lo sapeva ricco, ma non dava torto alla zia.
— Vorrebbe che lasciassi a lui il Cavaliere! — gridava in casa alla Sigaraia, a Garino e alle figliuole. — A prenderlo da me, di seconda mano, non avrebbe scrupoli! Ma gli vorrò lasciare trentasette mazzi di cavoli, a cotesto gesuita e ladro!
La Sigaraia, Garino e le ragazze approvavano, rincaravano la dose, parlavan male al monaco di tutta la parentela, affinchè egli lasciasse loro ogni cosa. E lo servivano come un Dio, si precipitavano ad un suo cenno, camminavano in punta di piedi quand’egli riposava, gli tenevano compagnia fino a tarda notte se non aveva sonno, lo accompagnavano al Cavaliere, gli lodavano le sue culture, le sue fabbriche, la riuscita di tutte le sue speculazioni.
Una di queste, però, era venuta corta al Cassinese. Il Cavaliere era attaccato, da levante, a un altro fondo del demanio ancora invenduto, e la linea del confine, consistente in un’antica siepe di fichi d’India, in molti punti aveva soluzioni di continuità. Don Blasco, facendo costruire un bel muro sodo e alto, irto di rovi e di cocci di bottiglie, s’era appropriato qua e là molti ritagli di terra; a un certo angolo, dove non restavano più tracce della siepe, aveva annesso al Cavaliere un bel tratto dell’altro fondo. Ora la cosa, venuta in chiaro all’Intendenza di Finanza, gli aveva fatto piovere in casa certa carta bollata, per cui il monaco s’era messo a sbraitare come ai bei tempi contro i ladri Italiani, e quasi quasi voleva riconciliarsi coi reazionarii della farmacia.
— A me l’accusa d’usurpazione? Se la proprietà di San Nicola arrivava fino alle vigne? Vogliono insegnare a me qual era la proprietà del convento, cotesti ladri che hanno spogliato un regno?
Garino aggiungeva il resto; ma poichè le chiacchiere non facevan andare indietro i reclami del Demanio, e una perizia avrebbe potuto legittimarli, l’ex-confidente di polizia, vedendo che il monaco ci s’arrabbiava, gli disse un giorno:
— Vostra Eccellenza perchè non ne dice una parola a suo fratello il deputato?
Don Blasco non rispose. Era già stato dal duca.
Da anni ed anni non rivolgeva più la parola al fratello, da un tempo più lungo ancora lo vituperava in pubblico e in privato; don Gaspare dunque rimase, vedendoselo apparire dinanzi. Il monaco entrò nello scrittoio del fratello col cappello in testa, come a casa propria; gli disse: «Ti saluto,» col tono di chi vede una persona lasciata il giorno innanzi e si mise a sedere. Il duca, passato il primo momento di stupore, sorrise finemente, dicendogli con lo stesso tono: «Che abbiamo?» e il monaco entrò subito in argomento.
— Sai che ho comprato il Cavaliere da San Nicola? Non c’era più la linea del confine, e feci alzare un muro. Per questo il Demanio m’accusa d’usurpazione!..
Il duca continuava a sorridere in pelle in pelle, godendosela, e poichè il monaco taceva, credendo di non aver bisogno d’aggiunger altro, egli che voleva avere la soddisfazione di sentirsi richiedere d’aiuto da quell’arrabbiato che gli aveva mossa tanta guerra, fece:
— E...?
— Non si potrebbe parlare a qualcuno?
Non era precisamente quel che s’aspettava; ma il duca, in fondo, era un buon diavolo, non aveva il fiele del principe e del Priore, e se ne contentò.
— Va bene. Torna domani con le carte.
Così, con immenso stupore di tutta la parentela, furon visti i due fratelli andare insieme su e giù per le scale dell’Intendenza, della Prefettura, del Genio civile e del Catasto. In pochi giorni la cosa fu avviata bene; ma il duca suggerì al Cassinese una soluzione più radicale:
— Perché non compri addirittura l’altro fondo?
— E i danari?
— I danari si trovano!
Egli li prendeva dalle Banche delle quali era amministratore: con essi speculava sui fondi pubblici, riscattava le proprietà prese dalla manomorta, ne comperava delle altre; adesso, per stare anche lui da sè, faceva fabbricare una grande e bella casa in via del Plebiscito.... Per suo mezzo, don Blasco fu ammesso allo sconto alla Banca dei Depositi e Crediti, e una cambiale di venticinquemila lire del monaco passò. Il Cavaliere, ingrandito di quasi il doppio, divenne così una proprietà ragguardevolissima, «un vero feudo!» diceva Garino, il quale adesso esaltava il duca, i suoi talenti, la potenza a cui aveva saputo arrivare: ma quei ciarlatani della farmacia borbonica sbraitavano peggio di prima e profetavano imminente il giorno in cui don Blasco e gli altri sacrileghi avrebbero dovuto restituire il maltolto. Il monaco li lasciava cuocere nel loro brodo e non passava più nel tratto di strada dov’era la farmacia, chè solo a vederli da lontano gli facevano venir da recere. Però, alla lunga, la mancanza della conversazione gli pesava, e una domenica, incontrato per le scale il professore suo inquilino, lo invitò a venirlo a trovare.
Il professore diceva d’essere stato garibaldino, narrava il fatto d’Aspromonte, non parlava d’altro che di cospirazioni e minacciava anche lui il finimondo, ma solo nel caso che l’Italia non andasse a Roma.
— Voi dunque dite che questo governo durerà? — domandava don Blasco, trepidante.
— Se farà il suo dovere! Altrimenti lo manderemo all’aria come gli altri! Gli sbirri non ci spaventano! Abbiamo visto il fuoco! Sappiamo come si fanno le rivoluzioni!
— C’è però gente che crede si possa tornare indietro....
— Tornare indietro? Ma bisogna andare avanti, invece! integrare l’unità nazionale! smantellare l’ultima cittadella della teocrazia, l’ultimo baluardo dell’oscurantismo!... L’umanità non torna indietro! Abbiamo sepolto il medio Evo! Lo stato dev’esser laico e la Chiesa tornare alle sue origini, perchè come disse quel grand’uomo di Gesù Cristo: «il mio regno non è di questo mondo!»
La conversazione dell’inquilino, quantunque di tratto in tratto gli facesse passare qualche brivido per la schiena, piaceva moltissimo a don Blasco, e un giorno anzi, mentre passava dalla farmacia Cardarella, antico ritrovo dei liberali, il professore, che era lì dentro a discutere calorosamente, lo chiamò. Parlavano delle soppresse corporazioni religiose, e il professore non voleva credere che le rendite di San Nicola toccassero certi anni il milione di lire.
— Sissignore, — confermò don Blasco. — Era il più ricco di Sicilia e forse di tutto l’ex-regno.
Allora il professore si scagliò contro i monaci, i preti, i parassiti d’una società che per buona sorte s’era finalmente «seduta sopra altre basi.»
Da quel giorno don Blasco prese l’abitudine di frequentare la nuova farmacia. Vi bazzicavano i liberali più arrabbiati i quali gridavano contro il governo, come quegli altri retrogradi, ma per una ragione diversa: perchè era un governo di conigli, di lacchè della Francia, di lustrastivali di Napoleone III: perchè perseguitava i patriotti veri e faceva il gesuita nella questione romana. Gli rinfacciavano Aspromonte e Mentana; ma Roma doveva essere italiana a dispetto di tutti, o sarebbero scesi in piazza a ricominciar le schioppettate. «O Roma o morte!» vociferava il professore, il quale aveva sempre notizie di guerre e di moti rivoluzionarii pronti a scoppiare, e don Blasco, tra le grida generali, sentenziava:
— Il Santo Padre dovrebbe pensarci a tempo, con le buone, e rammentarsi del Quarantotto; chè se allora non dava ascolto ai retrivi, oggi sarebbe il Presidente rispettato della Confederazione italiana!
— Con le buone? — gridava il professore. — Sante cannonate vogliono essere! Il sangue di Monti e Tognetti è ancora fumante! Ci vuole il cannone per abbattere l’antro del fanatismo!
Un giorno, entrò dal padron di casa con un’aria gloriosa e trionfante:
— Questa volta ci siamo! La guerra è pronta!
Don Blasco, turbato dalla notizia, poichè temeva che d’una guerra fosse minacciata l’Italia, si rassicurò quando l’inquilino gli riferì che l’elezione d’un principe tedesco al trono di Spagna era considerata dalla Francia come un casus belli. «Il nostro dovere....» Ma, mentre spiegava il dovere dell’Italia, venne un servitore di casa Uzeda. Il principe mandava a chiedere notizie dello zio e nello stesso tempo l’avvertiva che Ferdinando stava molto male, e che era bene fargli una visita. Don Blasco, a cui premeva sopra ogni cosa udire il verbo del suo nuovo amico, rispose:
— Va bene, va bene; domani ci andrò....