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Il dottor Fausto era uscito con Wagner un giorno di festa per fare un giro nella circostante campagna.
I cittadini andavano qua e colà con animo giocondo seguendo ciascuno i suoi gusti. Il dottor
Fausto portava dappertutto con sé il martirio nell’anima e la tempesta. A un certo punto egli vede un
cane nero camminar lentamente lungo i margini dei campi di stoppia e di biade. Se ne inquieta,
Wagner gli dice che non c’è di che meravigliarsi. Il cane si accosta, si mostra docile. Fausto s’induce
a lasciarselo venir dietro in casa sua e Wagner dice che troverà in esso un ottimo scolaro.
Qui, come sempre, Goethe non parla a caso. I vecchi maestri, sconfortati dopo lunghi anni di scuola fatta agli esseri della loro specie, presa la giubilazione, si danno ad ammaestrare un cane a far le viste di sfogliare un libro, o un canarino a cantare un’aria di organetto.
Rientrato nel suo studio, Fausto si acqueta un poco, ma il cane incomincia a moversi, ad annusare intorno poi a latrare disturbando il maestro nelle sue meditazioni; poi s’ingrossa, diventa un ippopotamo, un elefante, e finisce per risolversi in mezzo alla nebbia in uno scolaro che viaggia. Ma veramente era Mefistofele.
Il diavolo, quando piglia la forma di un cane, veste sempre il pelo nero. Un tesoro che sia stato sotterrato da oltre un anno diventa proprietà del diavolo, e allora è custodito da un cane nero. In Baviera chiamano appunto per ciò «Hund» un tesoro nascosto. Qualche volta, venuta la sera, il cane nero guardiano del tesoro va in questo o quel podere, o in questa o quella casa del villaggio: se il padrone della casa non lo maltratta, se gli dà da mangiare e lo lascia andare a sua posta, quel cane si commove, e finisce per parlare e dire all’uomo di seguirlo, lo mena dove è il tesoro, e glielo lascia prendere senza nemmeno domandargli l’anima in compenso.
Io consiglio il mio lettore a leggere la Faune populaire de la France del signor Eugenio Rolland, dalla quale ricavo ciò e altro assai. Non ho bisogno di consigliare la lettura della Mitologia zoologica del professor Angelo De Gubernatis, scritta in inglese e in francese, ma non ancora in italiano. Aggiungo a scanso di citazioni e per non mostrarmi bello delle penne del pavone, che due pavoni da cui prendo molte penne sono il professore Arturo Graf e il professore Italo Pizzi, dei quali mi piace dichiararmi scolaro riconoscente.
Nel Convegno degli spiriti Giovanni Prati cantò di due amanti separati nell’eternità, la donna in paradiso, l’uomo nell’inferno, che tuttavia, per essersi molto amati, per volere divino trovansi ogni notte sotto un tiglio.
Nell’Oberland due amanti furono entrambi maledetti, e il verde paese circostante mutato in un mare di ghiaccio. Un segno misterioso avvertì prima le persone e le bestie perché se ne andassero, e le une e le altre non intesero a sordo. Ma coi due amanti sciagurati rimasero sepolti nei ghiacci la vacca e il cane. Qualche volta, quando più infuria l’uragano, si sente il mugghiare di una vacca e l’ululare lamentoso di un cane, e le voci di un uomo e di una donna che domandano aiuto e scongiurano che si venga a mungere la vacca che li insegue e a pascere il cane che li sbrana. Finirebbe a un tratto quel supplizio di eterna angoscia se si trovasse un uomo abbastanza ardito per avventurarsi a mungere quella vacca e mettere la museruola a quel cane, i due amanti rivivrebbero una seconda vita felice, ripiglierebbe il suolo l’antico suo manto di verde e di fiori.
Il cane Katmir fece la guardia per più di dugento anni alla bocca della spelonca dove erano ricoverati i sette dormienti, e i maomettani lo posero in paradiso insieme con alcuni altri illustri animali.
San Rocco, trovandosi ammalato di peste e solo in un bosco, fu nutrito da un cane che ogni giorno gli portava una pagnotta presa sulla mensa del suo padrone. Quel padrone era un gentiluomo chiamato Gottardo. Egli ebbe un giorno vaghezza di sapere che cosa facesse di quella pagnotta il suo cane che, appena abboccatala, se ne andava, e gli tenne dietro. Vide che l’animale, giunto davanti al santo ammalato, chinava reverentemente la testa e gli poneva ai piedi il pane, mentre il santo, accettando l’offerta, dava all’oblatore la sua benedizione. Il gentiluomo, commosso da quello spettacolo, rinunziò alla vita mondana e si fece eremita.
La Madonna passava un giorno, in sembianza di vecchia mendica, presso a una fontana dove parecchie donne di un povero villaggio della Bretagna stavano lavando. Il cane di quelle donne prese a inseguire latrando la povera vecchia cenciosa, e questa, spaventata, pregò le lavandaie perché volessero fermare quel cane; ma esse lo aizzarono ancora. La vecchia indignata disse allora a quelle donne che per castigo di quella crudeltà esse e le loro discendenti sarebbero state condannate sempre a latrar come cani in certi giorni dell’anno. La maledizione d’allora in poi si è sempre compita. A Josselin, che è il paesetto di cui parlo, certe donne soffrono di tratto in tratto di una malattia che le spinge a latrare. Anche oggi a Josselin ove avvene il fatto, due volte all’anno, il lunedì della Pentecoste e il 15 agosto, si fa la procession des aboyeuses. Si trascinano quelle disgraziate davanti alla Madonna di Josselin, si pongono, a malgrado delle grida e della resistenza che fanno, davanti alla statua della Madonna, si costringono a baciarle i piedi due, tre volte, e più ancora, fino a che non siano guarite. Si dice che sono guarite quando cadono in una prostrazione profonda, per cui sembrano morte.
Questi fatti io li riferisco dall’opera sovraccitata del signor Rolland; ma soggiungo che se Messenia piange, Sparta non ride. Vedi la festa di San Pancrazio presso Torino.
Aggiungo poi, per dimostrare sempre più che tutto il mondo è paese, che in Abissinia domina una malattia somigliante a quella delle abbaiatrici di Josselin. La gente presa da questa malattia va saltellando a quattro gambe e urla come le iene.
La magia, dicono, qualche volta ha tramutato l’uomo in cane. In un podere aveva preso l’uso di andare presso il fuoco a riscaldarsi un cane ignoto, e lo lasciavano entrare e rimanere, anzi gli davano anche da mangiare. Ma un giorno il padrone, che era di cattivo umore, lo scacciò a calci. Il cane gli si volse guardandolo malinconicamente, e disse:
«Oh padre mio, se sapeste chi io sono, non mi trattereste così duramente».
Quel cane era un figliuolo della famiglia che era scomparso dal paese qualche tempo prima, e che credevano in viaggio. Gli era venuto nelle mani un libro bizzarro, si era abbandonato alla curiosità di leggerlo e s’era trovato tramutato in cane.
Taluni viaggiatori asseriscono di aver veduto nelle Indie orientali degli uomini colla testa di cane.
Quante cose asseriscono di aver veduto i viaggiatori!
Si attribuisce anche a un cane la scoperta della porpora. Ercole passeggiava in riva al mare con una bella fanciulla e seguito dal suo cane. Quando si dice che un uomo che passeggia è seguito dal cane si dice il rovescio di ciò che è veramente, perché il cane allora non segue ma precede. Il cane di Ercole saltellava in riva al mare, andava nell’acqua ora camminando ora a nuoto. Scorse una chiocciola attaccata a uno scoglio a fior d’acqua e la abboccò. Quando ebbe levato il naso, la bella giovinetta vide che era rosso di sangue; credette che fosse ferito, si fece a lavarlo, e riconobbe che il rosso non era sangue, che il naso era integro, e che si trattava di una materia colorante. La fanciulla disse ad Ercole che voleva tingersi di quel colore un vestito; Ercole, che colle donne era debolissimo e la pagò cara più tardi, si fece, come si suol dire oggi, a studiare la quistione, e trovò la porpora. Questa storiella dimostra che chi l’ha inventata o ripetuta non sapeva che la porpora non è rossa dapprima quando esce dal corpo del mollusco, ma azzurra, e si fa rossa più tardi alla luce.