Questo testo è completo. |
◄ | I cani nella medicina | La rabbia | ► |
Il temperamento del cane è meno caldo di quello del leone, più caldo di quello del toro, più asciutto
di quello dell’uomo, più umido di quello delle formiche e delle api. Così insegna Galeno.
Per molti secoli tutte le malattie dell’uomo e quelle degli animali furono considerate siccome dipendenti da un eccesso o da un difetto di caldo, o di freddo, d’umido o di secco. La buona salute si credeva risultare da un giusto e ben contemperato equilibrio nell’operare di questi quattro agenti. C’era questo guaio, che qualche volta due visceri che si toccavano erano l’uno troppo caldo e l’altro troppo freddo, e bisognava stare attenti per non nuocere all’uno dei due, mentre si voleva giovare all’altro, e tener conto di ciò, che un rimedio riscaldante per un viscere poteva essere raffreddante per un altro, e via dicendo.
Di tutto ciò si tenne gran conto dagli antichi medici nei loro giudizi sulle malattie dei cani, intorno alle quali fu molto scritto.
In ogni tempo, come oggi, di un cane malato un signore, o una signora, si danno più pensiero che non di un servo, e volontieri spendono quanto viene loro domandato, purché se ne possa ottenere la guarigione.
La più grave fra tutte le malattie dei cani, anzi orrendamente spaventosa, è la rabbia. Di questa voglio parlare di proposito, e ciò farò nel capitolo seguente.
Ho già detto sopra come qualche volta venga la moria nei cani, e come ciò non sia raro in Siberia, e con indicibile danno di quegli abitanti.
Ho veduto in Egitto morire in breve i cani portati dall’Europa, che generalmente erano bellissimi cani inglesi da caccia. Morivano quasi sempre di mal di fegato.
Il padre di Alfredo Edmondo Brehm, che era pur esso valente naturalista, aveva in casa un cane bassotto gravemente infermo, il quale guarì in un modo inaspettato. Il signor Brehm figlio, che racconta la storia di quella inaspettata guarigione, dice di quel cane:
«... Era nemico dichiarato di tutti quanti gli altri animali che si trovavano in casa. Non viveva in pace con nessuno, ma più di tutti gli era avverso un grifone di cui la codardia gli assicurava la vittoria. Solo quando i due cani si erano morsicati a vicenda, il grifone ripigliava coraggio, e allora si aggomitolavano insieme rotolando giù, non solo lungo le scale, ma anche dall’alto di un muro, sopra le aiuole del giardino, o sul pendio della montagna, senza cessare la loro furiosa lotta prima che fossero fermati da una siepe, nel caso più favorevole, o in caso più serio rinfrescati dall’acqua del ruscello nel quale capitombolavano insieme. Tale animosità doveva essere la salvezza del bassotto ammalato. Da alcuni giorni stava male, rifiutava ogni cibo, e i mezzi adoperati non lo risanavano. Si vedeva approssimarsi il suo fine. Malgrado il ricordo di tutte le sue cattive qualità, una certa mestizia regnava nella casa, e mia madre in ispecie vedeva con rincrescimento venire la sua morte. Alfine le venne in pensiero di fare ancora un tentativo. Portò un piatto pieno delle più ghiotte cose davanti al giaciglio dell’infermo; esso si sollevò, guardò con mestizia le ossa tenerelle di pollo, i saporiti pezzetti di carne, ma era troppo debole, troppo ammalato per poter mangiare. Allora mia madre portò l’altro cane per spazzare il piatto. L’ammalato si drizzò, tentennò sulle gambe, si rafforzò, riprese un po’ di vita; e si precipitò forsennato sul grifone, brontolando, abbaiando, schiumando di furore; lo morse rabbiosamente, ne fu respinto, morsicato fino al sangue, e perciò così commosso, scosso, eccitato, cadde sulle prime sfinito, poi da quel momento migliorò, e fu dopo poco tempo risanato dalla sua febbre».
Fra noi sovente i cani hanno il moccio, hanno la tenia, hanno la rogna, hanno delle mignatte attaccate alle fauci, hanno le zecche, le pulci, e la molestia dei mosconi. Il Wrangel dice che in Siberia questi animali per schermirsi dai mosconi stanno quasi sempre nell’acqua.
Dante trova nell’Inferno gli usurai seduti sotto a una pioggia di fuoco.
Per gli occhi fuori scoppiava lor duolo:
Di qua, di là soccorrean con le mani,
Quando a’ vapori e quando al caldo suolo.
Non altrimenti fan di state i cani,
Or col ceffo, or col piè, quando son morsi
O da pulci, o da mosche, o da tafani.
L’Ariosto prende da Dante la similitudine, ma, secondo il solito, la dà un po’ diluita.
Ruggero sul cavallo alato combatte contro l’orca; piomba sul mostro repentinamente, poi subito poggia in alto, cerca di ferirlo in questa o in quella parte, lo molesta.
Simil battaglia fa la mosca audace
Contro il mastin nel polveroso agosto,
O nel mese dinanzi o nel seguace,
L’uno di spiche e l’altro pien di mosto;
Negli occhi il punge e nel grifo mordace;
Volagli intorno e gli sta sempre accosto,
E quel suonar fa spesso il dente asciutto...
Mi avevano raccontato da piccino la malizia della volpe che, per liberarsi dalle pulci, va in riva all’acqua, incomincia ad immergervi la coda, poi a poco a poco, molto lentamente, vi affonda le zampe posteriori, e in seguito le reni, il tronco, le spalle e il collo, poi, più lentamente ancora, il capo. La volpe ha avuto cura, prima di scendere nell’acqua, di prendere in bocca, tenendolo coll’apice del muso, un mucchietto di fieno. Le pulci, così mi raccontava la nonna, quando la coda tocca l’acqua, quelle che sono proprio fra i peli della punta, incominciano a venir su all’asciutto. A mano a mano che la coda s’affonda tutte salgono sulla groppa, poi sempre più in su, per modo che a un certo punto finiscono per arrivare tutte raccolte sulla pelle del cranio. Quando anche questo è sott’acqua, si spingono su pel muso, arrivano alla punta del naso, e da questo, cacciate sempre dall’acqua, si accampano sul mucchio di fieno natante. Allora la furba volpetta apre un tantino la bocca, lascia il fieno sull’acqua, e se ne ritorna senza pulci alla riva.
Io mi ebbi da giovinetto una volpe che mi era messo in capo di ammaestrare. La smania dello ammaestrare mi tenne tutta la vita, e incominciai cogli animali. Quella volpe che, sia detto di passata, come tanti scolari che ebbi poi dei due sessi, non imparò nulla da me, era coperta di pulci. Allora mi ritornò alla mente la storiella della nonna, e io volli porgere alla volpe la opportunità di fare il bagno in quel miglior modo che le piacesse. Allogai la volpe in un ampio ricinto nel mezzo del quale c’era una vasca coll’acqua che veniva su fino al livello del terreno, dove avrebbe potuto a bell’agio fare la operazione sopra descritta per poco che ne avesse avuto gusto. La bestiola non se ne diede per intesa. Allora volli costringerla a quel bagno, la presi per forza, e per forza le cacciai la coda nell’acqua. Si difese con morsi e graffiate, la lasciai per darle tempo a pensarci sopra. Ricominciai un’altra volta, poi altre ancora, e fu sempre peggio.
Allora pensai che se le volpi non ne volevano sapere, o almeno la volpe mia, il metodo attribuito alla volpe avrei potuto applicarlo io stesso ai cani. Aveva un cane inglese docilissimo, che mi era molto affezionato. In breve riuscii a fargli comprendere ciò che io voleva da lui, ed egli, come si suol dire, si prestò gentilmente. Gli feci parecchie volte l’immersione graduata, lentissimamente, e riconobbi che le pulci non risalgono affatto. Stanno tenacissimamente alla pelle di quel punto dove l’acqua le ha trovate. Il medico del mio paese, quando seppe di quella mia prova, pronosticò in me un futuro campione della fisiologia sperimentale, e fece un grande sbaglio, che, purtroppo, non fu né il solo né il più grosso che egli abbia fatto.