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XIX.
La rivolta
Una fresca brezza che si alzò poco dopo il tramonto del sole, spingendo celeremente la zattera verso l’est, calmò a poco a poco la disperazione e la tristezza che aveva invaso l’equipaggio della nave naufragata. Scagliarsi sopra Ovando e rovesciarlo sul ponte, fu l’affare di un solo istante. (Pag. 151)
Pareva che fosse imminente un cambiamento di tempo e che si preparasse qualche burrasca. Dovesse essere terribile sarebbe stata sempre la benvenuta, poichè avrebbe finalmente rinfrescata quell’aria infuocata che disseccava le carni di tutti, esaltava i cervelli ed avrebbe portato di certo qualche violento acquazzone. Quale delizia per quei disgraziati, già mezzo disseccati, il sentirsi inondare il corpo da torrenti d’acqua bevibile!... Avrebbero finalmente potuto spegnere quella sete bruciante, che da quattro giorni li tormentava senza tregua.
Un leggiero velo di vapori si estendeva già in cielo, attenuando la luce degli astri e laggiù, verso l’orizzonte meridionale, si vedevano alzarsi delle grandi macchie nere, tinte all’estremità d’un colore ramigno; l’atmosfera si saturava rapidamente di elettricità e sulla punta dell’albero era già comparsa una fiammella azzurra, il fuoco di Sant’Elmo, come lo chiamano i marinai.
Anche l’Oceano pareva che si preparasse a destarsi dal lungo sonno ed a rompere quella liscia superficie. Un fremito strano agitava le acque che diventavano più plumbee del solito ed ai confini dell’orizzonte le si udivano a brontolare sordamente, come se laggiù la tempesta avesse cominciato a imperversare.
La zattera, spinta da quella brezza che aumentava, trasformandosi in un vero vento, frangeva rumorosamente quei flutti neri come l’inchiostro, ma che di quando in quando avevano strani bagliori, come se sotto di essi scorressero dei getti di bronzo fuso.
I marinai, il dottore, Seghira, Niombo, avevano tutti abbandonato le tende ed aspiravano avidamente quell’aria fresca, vivificante, già satura d’umidità. Tutti invocavano la procella, che rumoreggiava sull’orizzonte.
Verso le ventidue, quando l’oscurità era più profonda, un gran lampo fendette le nubi che si erano ammonticchiate nelle profondità del cielo coprendo gli astri, ed il tuono si fece udire.
– La tempesta!... – gridò Kardec. – Sia la benvenuta!... Su, marinai, rinforzate l’albero, assicurate le casse e le botti e tendete delle funi se non volete esser portati via dalle onde. Giù le tende e preparate le tele incatramate per raccogliere la pioggia: fra poco faremo un’orgia d’acqua!...
Era tempo!... La procella si avanzava con quella rapidità incredibile che è speciale in quelle regioni equatoriali, dove i perturbamenti atmosferici si scatenano da un istante all’altro.
Bastano pochi minuti perchè la calma si spezzi, il cielo, poco prima d’una purezza superba, si copra bruscamente di nuvoloni neri come la pece ed il vento acquisti una foga terribile. Durano ordinariamente poco, ma quale violenza acquistano in quel breve tempo!...
L'equipaggio aveva appena terminato di tendere le funi e di assicurare le casse e le botti delle provviste, che l'Oceano si sollevò come se il fondo dell'Atlantico fosse stato scosso da un formidabile terremoto, mentre la brezza si mutava in ventaccio impetuoso, che strideva ed urlava fra il sartiame dell'albero. Lividi lampi illuminavano la notte e tuoni interminabili scuotevano e laceravano le masse vaporose, volteggianti sulle ali del turbine.
Ad un tratto fra i muggiti delle onde, i sibili del vento ed i tuoni, si udì in alto un violento crepitìo, un cupo ronzìo che rapidamente s'avvicinava e poco dopo si rovesciò sull'oceano un diluvio d'acqua, ma quale diluvio!... Era una vera tromba, era una cateratta immensa; pareva che lassù si fosse improvvisamente capovolto un lago di mille miglia quadrate.
L'equipaggio, sdraiato sul ponte della zattera, si lasciava inondare. Quale gioia nel sentirsi immollare le carni da quella pioggia fresca, inzuppare le vesti, irrigare il viso bruciato, cotto e ricotto dal terribile sole equatoriale! E quale ebbrezza nel sentirsi la bocca piena di quell'acqua che pareva più dolce del miele a quei disgraziati morenti di sete e sentirla scendere nella gola inaridita!... Era, come aveva detto poco prima Kardec, una vera orgia d'acqua!...
Quella cateratta durò mezz'ora, niente di più, ma bastava. Tutti si erano finalmente dissetati, tutti si erano rinfrescati e le tele incatramate sospese fra l'albero e le estremità della zattera erano piene al punto di scoppiare. Ormai non vi era più pericolo di morire di sete.
Ma se la pioggia era cessata e se le nubi si erano spezzate lasciando intravedere l'astro notturno e le stelle, il vento continuava a ruggire con crescente violenza e l'Oceano montava sempre, coprendosi di onde gigantesche e spumeggianti.
La zattera, che fuggiva verso il sud-est con velocità crescente, crepitando, oscillando violentemente, sormontando penosamente i cavalloni, veniva spazzata da un capo all'altro dai colpi di mare, che superavano facilmente i bordi.
Gli uomini, che si erano affrettati a rinchiudere nei barili l'acqua raccolta nelle tele, cercavano di resistere a quei rullii, a quei beccheggi disordinati e all'irrompere furioso delle acque, ma invano. Venivano strappati dalle corde, sbattuti e travolti in tutte le direzioni e rotolati fino agli orli. Niombo e il dottore, penavano assai a difendere Seghira dall'impeto delle enormi ondate.
Tre volte Vasco e Kardec, che si tenevano al timone, cercando di mantenere la zattera sul filo del vento, corsero il pericolo di venire travolti nell’Oceano.
A mezzanotte, l’uragano parve che toccasse la massima intensità. Il vento fischiava tremendamente minacciando di atterrare l’albero e di far scoppiare la vela, e le onde salivano sul ponte con tale rabbia da spezzare le funi e da sollevare le casse ed i barili. Vi erano certi momenti che tanta e tanta era l’acqua, che i naufraghi non sapevano se la zattera galleggiasse ancora o se si fosse sfasciata.
All’una una cassa, scaraventata contro l’albero da un colpo di mare, si sfasciò. Fu una perdita terribile, poichè i cinquanta chilogrammi di biscotti che conteneva, in un momento furono spazzati via dai cavalloni. Ed era l’ultima che rimaneva a bordo!...
Più tardi, il barile del porco salato fu pure strappato dall’albero e rotolato verso prua. Un marinaio si slanciò per trattenerlo, ma un’altra onda li spinse entrambi nell’Oceano. Fu un lampo: una testa mostruosa subito emerse, una bocca enorme si schiuse ed i marinai atterriti ed impotenti, videro sparire il disgraziato fra una selva di denti bianchi e triangolari!... Un cerchio di sangue galleggiò per un istante fra due onde, poi più nulla. Il pescecane aveva avuto la sua preda!...
Durante tutta la notte l’uragano imperversò, mettendo a dura prova i naufraghi della Guadiana, ma verso l’alba il vento mancò quasi improvvisamente come se volesse lasciare il campo al sole, che s’alzava rapidamente sull’orizzonte. Mancando quella potente spinta, anche le onde scemarono di violenza ed invasero con minor frequenza il ponte della zattera.
Ormai non vi era più nulla da temere. Di lì a poco l’Oceano doveva ritornare tranquillo come prima e forse per lungo tempo, essendo alquanto rari gli uragani in quelle regioni. La zattera, quantunque costruita frettolosamente, aveva resistito a meraviglia contro gli assalti delle onde e nemmeno l’albero aveva ceduto dinanzi ai soffi poderosi del vento, ma quale disgrazia stava per piombare sull’equipaggio!... Se l’acqua abbondava e non vi era più pericolo di morire di sete, un altro nemico e non meno terribile stava per sorprenderli: la fame!... Gli ultimi colpi di mare, fracassando le casse, avevano disperso parte dei viveri e Kardec diede all’equipaggio il triste annuncio che a bordo non rimanevano che poche scatole di conserve alimentari, un po’ di pesce secco e venti o trenta libbre di biscotti, tanto da poter vivere tre giorni, riducendo le razioni ai minimi termini.
– Bah! – disse un
– Bah! — disse un marinaio, – quando non avremo più nulla da porre sotto i denti, mangeremo i pescicani. A me, per ora, mi basta di bere a crepapelle.
– E poi, aggiunse un altro, con feroce cinismo, vi è qui tanta carne da nutrire un bel numero di bocche. L’equipaggio della Medusa, ci ha insegnato che cosa si deve fare quando la fame batte alle porte.
– E anche vi è una pelle nera che pesa un quintale, – aggiunge un terzo. – Sarà carne meno salata ed amara della nostra.
– Od un’altra che peserà meno, ma sarà più delicata, – disse un quarto.
– Purchè il comandante lo acconsenta, Ovando. Si dice che sia la sua bella.
– Eh, por todos los santos! – esclamò il marinaio che si chiamava Ovando. – Quando non vi saranno più viveri a bordo, comanderanno i più forti!
– Ben detto! – approvò un altro.
– Benissimo! – confermò un terzo.
– Si matura una rivolta qui? – chiese Vasco, che si era appressato al gruppo. – Cominciate male, ragazzi.
– Si parlava di fame, – spiegò Ovando.
– Ed anche di peggio, mi sembra.
– Ne parleremo più tardi di questo, – disse un marinaio. – Per ora lasciamo che le cose vadano pel loro verso, ma quando non vi saranno più viveri, non vi saranno più capi sulla zattera, signor Vasco.
– E per qual motivo?
– Perchè tutti dovranno prendere parte all’estrazione del bottone.
– Antropofago!
– Eh per mille boccaporti! Io non voglio morire di fame!
– E nemmeno io, – disse Ovando.
– Ed io neppure, – aggiunse un altro.
– Vi mangerete fra voi.
– No, signor Vasco. Tutti tenteranno la sorte del bottone nero.
– Anche Seghira? – chiese Vasco, impallidendo.
– Siamo tutti uguali qui e quella donna affronterà il pericolo di venire mangiata come lo affronteremo noi: non è il momento di avere riguardi.
– Vergognati, Ovando! Una donna!
– Bah! È una pelle nera! – dissero i marinai in coro.
– Ma troverete chi la difenderà.
– Sarà il comandante forse? – chiese ironicamente Ovando.
– Io, sì! – esclamò una voce minacciosa.
Kardec, livido più del solito, ma con gli occhi in fiamme, la destra stretta sull’impugnatura del coltello che teneva nella cintura, era improvvisamente comparso in mezzo al gruppo. Nel vederlo, i marinai retrocessero: avevano ancora paura di quell’uomo, che esercitava su tutti uno strano fascino, e che fino allora, era il comandante di bordo.
– Sì, io! – ripetè Kardec con voce sorda, dardeggiando su Ovando uno sguardo feroce. – Sulla zattera comando ancora io e se tu, canaglia, osi alzare una mano su Seghira, ti faccio appiccare!
– La vedremo, signor Kardec – rispose il marinaio. – Quando la fame tenaglierà i nostri stomachi, non vi saranno più comandanti a bordo e tutti saranno eguali dinanzi al fatale bottone!
– Ma ti farò appiccare prima, miserabile!
– Non l’oserete!
– È una sfida?
– Prendetela come volete, io vi dico che qui siamo tutti eguali!
– È vero – dissero i marinai, incoraggiati dall’audacia del loro camerata.
– È una ribellione? – chiese Kardec. – A me, amici!
Tre o quattro marinai risposero all’appello, ma gli altri che a poco a poco avevano formato attorno al gruppo un circolo, non si mossero. Kardec divenne più pallido di prima: comprese che ormai la sua autorità era molto problematica, ma non si diede per vinto.
Egli era un uomo, che malgrado i suoi difetti, possedeva un coraggio a tutta prova ed una energia poco comune, un vero uomo nato per comandare e farsi obbedire. Eppoi non ignorava, che un atto di debolezza poteva diventare fatale per la donna che amava.
Scagliarsi sopra Ovando con un salto da tigre, afferrarlo per la gola e rovesciarlo sul ponte, fu l’affare di un solo istante.
– Miserabile! – gli urlò agli orecchi, alzando su di lui il coltello.
Un mormorìo minaccioso s’alzò fra l’equipaggio, ma nessuno osò accorrere in aiuto del marinaio che si dibatteva, ma invano, sotto la potente stretta del bretone.
Già stava per colpirlo, quando il dottore, avvertito da Vasco di ciò che accadeva, uscito rapidamente dalla tenda di Seghira, seguìto da Niombo che teneva in pugno una manovella, terribile arma nelle sue mani, comparve.
– Fermatevi, signor Kardec – gli disse afferrandogli la mano armata. – È stato sparso fin troppo sangue, per versarne dell’altro.
– Lasciate che lo uccida! – gridò il bretone, furioso.
– Vi perderete, – gli soffiò in un orecchio Esteban.
Kardec lo comprese: l’equipaggio che lo circondava aveva assunto un aspetto minaccioso e pareva disposto ad accorrere in aiuto del camerata.
Si rialzò lentamente, senza abbandonare l’arma, gettò sull’equipaggio uno sguardo che pareva una sfida e si allontanò dirigendosi verso prora.
– Ai vostri posti, voi – disse il dottore con un tono di voce, che non ammetteva replica.
Poi, volgendosi verso Ovando che stava rialzandosi, più pallido d’un morto:
– Bada, – gli disse. – Non troverai sempre me per salvarti.
Il marinaio non rispose, ma i suoi sguardi si fissarono sul bretone e quegli occhi contenevano una terribile minaccia.
– Vattene, – gli disse Vasco, spingendolo verso poppa. – Tu vuoi farti appiccare troppo presto.
L’equipaggio si disperse pel ponte, ma fra quei gruppi si parlava sommessamente e non certo in favore del comandante. Quella canaglia, reclutata fra la schiuma di dieci diversi paesi, cominciava a sentire troppo pesante la disciplina del bretone.
– La va male, – disse il dottore a Vasco. – Kardec non durerà molto.
– Eppure è necessario che rimanga al comando della zattera – rispose il portoghese. – Se la sua autorità svanisce, non so a quali accessi si lascerà trasportare l’equipaggio, quando i viveri saranno terminati.
– Cosa temi?
– Una rivolta per sacrificare Niombo o Seghira. La fame non ragiona e questi uomini mi sembrano decisi a rinnovare gli orrori della Medusa.
– Infamia!
– Vegliate, dottore, e non abbandonate la tenda di quella donna.
– Niombo non lascerà avvicinare nessuno e quel gigante è capace di tenere testa a dieci uomini.
– Non basterà, poichè Kardec non conta ormai che pochi fedeli, forse cinque o sei francesi.
– Ma ci saremo anche noi, Vasco.
– Sì, signor Esteban e le armi da fuoco le tengo io.
Quel principio di rivolta contro l’autorità del bretone, non ebbe seguito, anzi parve che rendesse più tranquilli e più prudenti i marinai, poichè all’ora della distribuzione dei viveri, contrariamente al solito, nessuno osò protestare, quantunque la razione fosse stata ancora diminuita.
Kardec però, ebbe la prudenza di starsene zitto e di trattare Ovando al pari degli altri, ma di mostrarsi anche armato delle sue pistole.
Durante quel giorno la zattera filò costantemente verso l’est, spinta da un venticello piuttosto fresco che soffiava però irregolarmente. Alla sera, Vasco calcolò la distanza percorsa di oltre sessanta miglia, malgrado che la corrente equatoriale corresse in direzione contraria.
Disgraziatamente, col calare del sole, cadde anche il vento, ed il galleggiante rimase quasi immobile in mezzo al grande oceano.
Quella notte Kardec non dormì nella tenda dell’equipaggio ma all’aperto, sotto la guardia di cinque suoi compatrioti. Temeva qualche tradimento da parte degli altri e specialmente da Ovando? È probabile.
Anche il dottore non si allontanò dalla piccola tenda di Seghira e si coricò all’aperto, a fianco di Vasco, mentre Niombo vegliava, tenendo sottomano una scure.
A mezzanotte, quando la luna tramontò, e l’oscurità divenne più profonda, Niombo udì verso poppa un urlo soffocato e poco dopo vide la torma dei pescicani dibattersi attorno alla zattera come si contendessero una preda, mentre alcune ombre umane si agitavano sull’orlo del ponte.
Vedendo che il dottore e Vasco dormivano a breve distanza e udendo nella tenda la lieve respirazione della giovane schiava, non si occupò di verificare ciò che era accaduto.
All’indomani però si seppe che un marinaio era scomparso dalla zattera e che quel marinaio era Ovando. Era caduto in mare mentre dormiva o qualcuno ve lo aveva gettato dopo di averlo assassinato? Nessuno lo seppe e pochi si occuparono a chiarire quella misteriosa scomparsa.
C’era qualche cosa di più grave che preoccupava gli animi di tutti: la fame!...
Durante la notte gli ultimi biscotti e le ultime scatole di conserve erano misteriosamente scomparsi e sulla zattera non rimaneva più una briciola di pane, per sfamare quei ventiquattro uomini!...