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II.
Gl’incrociatori
Il punto nero, che spiccava sull’oceano illuminato dalla luna, dopo il segnale del mastro ed il razzo, si era messo in movimento. Lo si vedeva correre velocemente lungo la costa africana e ingrandire di minuto in minuto.
Le sue bianche vele, percosse in pieno dall’astro notturno, spiccavano nettamente sull’azzurro cupo dell’oceano quantunque la distanza fosse ancora notevole.
Il mastro ed i marinai, ritti sulle rocce più elevate del promontorio, non perdevano di vista la rapida nave e pareva che volessero attirarla con la potenza dei loro sguardi.
— Più presto, più presto — mormorava il mastro, che gettava degli sguardi inquieti verso l’ovest. — Forse gl’incrociatori non sono lontani!
Dopo mezz’ora, la Guadiana giungeva presso i primi banchi di sabbia del promontorio. Con una rapida manovra virò di bordo, girò attorno al lungo capo, evitò destramente le secche numerose che si celavano a fior d’acqua ed entrò a vele spiegate sull’ampia baia, guizzando con una sicurezza meravigliosa, fra le isolette ed i banchi di sabbia.
— Imbarca! — gridò una voce partita dalla nave.
— Al Nazareth? — chiese Vasco.
— Al Nazareth! — rispose la medesima voce.
— Ai remi, ragazzi — disse il mastro, che pareva contentissimo. — Per questa volta gli incrociatori non ci prendono.
Discese le rocce seguito dai suoi marinai, attraversarono i banchi che la bassa marea aveva allora lasciati quasi scoperti, e s’imbarcarono nella baleniera.
— Arranca a tutta lena! — comandò Vasco.
La rapida e leggera imbarcazione girò il capo ed entrò nella baia, seguendo la medesima via tenuta poco prima dalla nave, la quale era ormai scomparsa entro una grande fenditura della costa. Mentre Vasco aveva ripresa la barra del timone, il mastro si era messo a prua per meglio evitare i numerosi banchi subacquei che si estendevano in tutte le direzioni, formando una specie di immenso labirinto, ma quasi invisibile.
Erano già giunti a mezza baia, quando i marinai si arrestarono bruscamente dall’arrancare, gettando una sorda imprecazione.
— Cosa succede? — chiese il mastro, volgendosi. — Avete qual...
La frase gli si gelò sulle labbra, mentre impallidiva come un cencio lavato.
— Un segnale!... — esclamò con voce rotta.
Laggiù verso l’ovest, dove l’orizzonte si confondeva con l’oceano, un razzo azzurro s’innalzava in aria descrivendo degli strani serpeggiamenti, come se un forte vento lo investisse. Scoppiò spandendo all’intorno una pioggia d’oro, con una detonazione che giunse fino agli orecchi dei marinai della baleniera.
— Un segnale! — ripetè mastro Hurtado, coi denti stretti e facendo un gesto di furore. — Ah! Lo dicevo io, che qui c’è odor di polvere...
— E di corda — aggiunse Vasco.
— Carramba, no. La corda è ancora lontana, Vasco, ve lo dico io — disse il mastro. — Quei cani non ci tengono ancora nelle loro mani, e la Guadiana è tal nave da difendersi con un coraggio da leonessa ferita.
— Uhm! — fe’ un marinaio, levandosi di bocca il pezzo di tabacco che masticava e mettendoselo delicatamente nella fodera del berretto. — Temo di non poter terminare la mia cicca.
— Cosa mormori tu, squalo d’acqua dolce? — chiese il mastro.
— Vi dico che non ci vedo chiaro in questa faccenda, mastro Hurtado, e quella nave che lancia dei razzi non deve essere sola.
— Cosa vuoi dire? — chiese il gigante, con ansietà.
— Voglio dire che quella nave corrisponde con qualche altra e che ci prepara un agguato fra due o tre fuochi. Là..., guardate, mastro..., ve lo dicevo io?...
— Sacripanti! — esclamò il mastro, con furore.
Verso il sud, ma ad una grandissima distanza, una sottile linea di fuoco si era innalzata, descrivendo una grande curva e prima di dileguarsi aveva mandato uno sprazzo di luce tale, da poter essere scorto ad una quindicina ed anche ad una ventina di miglia.
Ormai non vi era più alcun dubbio. In alto mare, due navi corrispondevano fra di loro col mezzo di razzi di grande potenza, e tali dovevano essere, poichè in quella direzione non vi era alcuna terra. Erano segnali di soccorso o dovevano avere un significato ben più terribile pei negrieri? Se il mare fosse stato sconvolto, o fuor della baia infuriasse un uragano, si poteva credere che una nave pericolante invocasse dei soccorsi, ma la notte era tranquilla e la costa africana era troppo vicina perchè le scialuppe di quella nave non potessero raggiungerla, con l’equipaggio ed i passeggieri. No, quelle due navi dovevano scambiarsi dei segnali ben più gravi, il cui significato sfuggiva agli occhi dell’equipaggio della baleniera, ma non interamente. Quei marinai sentivano per istinto che si trattava di loro o meglio della Guadiana, e che un grande pericolo minacciava tutti.
Dopo quei due razzi, nessun altro segnale apparve sulla fosca linea dell’orizzonte occidentale. Invano i marinai sbarrarono per bene gli occhi, sperando di discernere qualche punto oscuro sull’acqua dell’oceano e invano il mastro scrutò lungamente l’orizzonte, col canocchiale.
— Orsù — disse questi, con voce sorda. — Qui non bisogna perdere tempo ed è necessario avvertire subito il comandante. Mano ai remi e avanti a tutta velocità!
La baleniera ripartì rapida come una freccia, balzando e rimbalzando sulle ondate della risacca e s’avvicinò al baracon dinanzi a cui si vedevano vegliare parecchi negri armati di lance e di vecchi fucili. Il mastro s’alzò gridando:
— È sul fiume, Bango?
— Sì, — risposero le sentinelle.
— Avete veduto i fuochi?
— Sì.
— Buona guardia, se volete bere del tafià.
— Non temete.
La baleniera riprese la corsa dirigendosi verso il Nazareth, uno dei bracci principali dell’Ogobai, che la Guadiana aveva già risalito senza arrestarsi.
La foce di quel vasto fiume, che forma un delta considerevole, che si estende fra 0° 44’ di latitudine sud e 9° 3’ di longitudine est e 1° 17’ di latitudine e 5° 56’ di longitudine, è intersecata da un numero infinito di bracci, i cui più notevoli sono il Nazareth, il Messia e il Fernando Vas, che per lungo tempo si credettero fiumi indipendenti.
Grandi paludi la ingombrano, tagliate da canali e canaletti in mezzo ai quali nuotano mostruosi coccodrilli, sempre avidi di preda, ma più oltre si estende un bosco immenso di mangifere che si prolunga per parecchie dozzine di miglia entro il territorio dipendente dal re Bango.
A quell’epoca, nessuna fattoria europea aveva ancora osato affrontare le esalazioni pestilenziali che s’innalzano sulle acque nerastre puzzolenti dei canali, che gli stessi negri fuggivano. Quelle paludi godevano una sinistra fama e tutti non ignoravano, che fra quei bambù e quei paletuvieri, si celava la morte sotto forma di febbri fulminanti.
Già all’olfatto dei marinai giungevano i primi sintomi di quell’aria mortale. Erano miasmi puzzolenti, prodotti dal corrompersi degli alberi e delle erbe trascinati al mare dalle piene, durante la stagione delle grandi piogge e bagnate alternativamente dalle acque dolci e salate; ma quei negrieri, uomini rotti a tutte le fatiche e abituati a tutti i climi, non erano tali da spaventarsi per così poco.
La baleniera, guidata dalla robusta mano di Vasco, superò la barra e si cacciò nel Nazareth, le cui sponde sparivano sotto una vera muraglia di verzura. Colà s’intrecciavano confusamente dei giganteschi mangli, che in quelle regioni raggiungono uno sviluppo enorme, colle felci arboree, dal fusto sottile e assai lungo; le aloe si curvavano graziosamente sulle nere acque del fiume accanto agli asclepodi e alle mangifere; gli alberi del legno di ferro, così chiamati per la loro estrema durezza e che sfidano la migliore scure, si frammischiavano ai fichi baniani dalle radici immense, disposte in forma di palafitte; i bambù s’intralciavano cogli arbusti acquatici esalanti febbri mortali; i banani cogli alberi rossi da tintura ed in mezzo a quel caos di vegetali d’ogni specie e d’ogni dimensione, giganteggiavano i secolari baobab, che da soli formavano una foresta intera, coi loro tronchi enormi ed il numero infinito dei loro rami.
Qua e là, sotto quelle volte di verzura, i marinai udivano, non senza un brivido, rauchi sospiri, sibili acuti, sordi muggiti, potenti fischi e di quando in quando dei sonori ruggiti, che facevano tacere tutti gli altri per parecchi minuti, poi nelle acque fangose e puzzolenti udivano piombare dei corpi pesanti e degli spruzzi giungevano fino alla scialuppa.
— È un serraglio questo — borbottava il mastro. — Coccodrilli, serpenti, ippopotami, rinoceronti e perfino dei leoni, si divertono come fossero nei grandi boschi dell’interno. Compiango i sudditi di quel furfante di Bango, che devono fornire non poche costolette a questi signori della foresta.
La baleniera, che saliva con grande rapidità, essendo la corrente debolissima, quantunque scendesse colla marea, dopo venti minuti giungeva dinanzi ad una profonda insenatura, sulle cui rive si rizzavano parecchie grandi capanne e si agitava una tribù di negri chiassosi.
La Guadiana era già giunta ed il suo equipaggio, dopo d’aver gettate le ancore, stava imbrogliando le vele e mettendo in acqua le imbarcazioni.
La baleniera in pochi colpi di remo l’abbordò sotto l’anca di babordo ed il mastro salì la scala con un’agilità da scimmia, malgrado la sua età e la sua pesantezza.
— Dov’è il capitano? — chiese egli, facendosi largo fra i marinari della coperta, che s’affrettavano a levare dalla stiva una quantità di barili, di fucili, di pacchi e di casse che disponevano confusamente lungo le murate ed attorno agli alberi.
— Eccolo laggiù a prua, mastro — disse un timoniere. — Abbiamo delle novità?
Hurtado si allontanò rapidamente senza rispondere e si diresse verso un uomo, che impartiva degli ordini ad un gruppo di marinai riuniti a prua.
Quell’uomo poteva avere trentacinque o trentasei anni. Era di statura elevata, di forme vigorose ma eleganti, di carnagione assai abbronzata, quasi olivastra, ma con due occhi di un nero scintillante, che delle donne gli avrebbero invidiati, ed i lineamenti fini ed energici, ombreggiati da una barba nera tagliata all’americana. Anche di primo acchito s’indovinava che quell’individuo doveva essere dotato di un coraggio non comune e di un’audacia a tutta prova, ed infatti non vi era da ingannarsi.
Il capitano Alvaez, di nascita brasiliano, quantunque alla sua nave facesse battere bandiera portoghese, passava per uno dei più audaci negrieri che solcassero i flutti dell’Atlantico.
Nessun pericolo lo sgomentava. Sfidava con sangue freddo straordinario e le più tremende tempeste, e le insidie degli incrociatori scaglionati sulle coste africane per impedire la tratta degli schiavi. Rotto a tutte le avventure, pronto a tutto, nessuna cosa lo sgomentava, e sfidava imperterrito la morte, con una temerità che rasentava la pazzia.
Già noto a tutti gli incrociatori, che l’avevano più volte — Basta — disse Alvaez, ruvidamente. inseguito per catturarlo e impiccarlo come avevano appiccato dodici anni prima suo padre, sorpreso alla foce della Coanza da due navi da guerra inglesi, lo si cercava accanitamente dappertutto, ma egli era tale uomo da ridersi di quei potenti nemici.
Aveva già compiuto oltre trenta viaggi dalle coste d’Africa a quelle del Brasile, con carichi di negri, guadagnando milioni, ma non si era ancora ritirato. Quella vita piena di pericoli e di grandi emozioni, esercitava su di lui un fascino strano e non si era mai deciso a dare un addio definitivo a quell’oceano irto di tanti pericoli per lui ed a vendere la sua Guadiana, che amava come fosse carne delle sue membra.
Vedendosi dinanzi mastro Hurtado col viso sconvolto, gli occhi irrequieti, indovinò subito che qualche cosa di grave doveva essere accaduto, per scombussolare quel gigante, che sapeva non essere facile a commuoversi.
— Mi rechi qualche brutta nuova, Hurtado? — gli chiese avvicinandolo.
— Sì, capitano, e molto grave — rispose il mastro.
— Suppongo che non sarà scoppiato il fuoco a bordo — disse Alvaez, sorridendo.
— Eh caramba!... Preferirei un incendio a quello che sta per accadere.
— Parla, adunque.
— Stiamo per essere bloccati, capitano.
— Da chi?... — chiese Alvaez, corrugando la fronte.
— Dagli incrociatori.
— Ah!... Sono giunti?...
— Sì, capitano.
— Quanti sono? — chiese il negriero con voce perfettamente tranquilla.
— Due, se non m’inganno.
— Sei certo?
— Ho veduto due razzi alzarsi al largo.
— L’hanno adunque proprio con me?... Non basta la vita di mio padre per quelle canaglie?... Ma bah!... La pelle del figlio è molto dura e la corda che deve appiccarmi non l’hanno ancora tessuta, Hurtado.
Stette alcuni istanti silenzioso, come se pensasse a qualche cosa, poi riprese:
— Credi che entreranno nella baia?...
— Vi sono troppi banchi, capitano, per avventurarsi fra i due promontorî. Ci aspetteranno al largo.
— Allora li faremo correre, Hurtado. La Guadiana non ha rivali in velocità.
— Ma sono due, capitano.
— Passeremo fra i loro fuochi, e guai a loro, se si mettono dinanzi alla mia prora. Il nostro sperone è solido e li sventrerà.
— Cosa devo fare?
— Preparare i cannoni e le armi; bisogna che fra quattro ore tutto sia pronto per approfittare delle tenebre.
— Lasceremo la baia questa notte?
— È necessario, Hurtado.
— Ma Bango?...
— Si sbrigherà presto o si terrà i suoi schiavi. Signor Kardec!
Un ufficiale, che stava facendo calare in acqua le scialuppe, udendo la chiamata accorse.
Quest’uomo era il comandante in seconda della nave negriera. Poteva avere trentaquattro o trentasei anni: era di statura media, di corporatura massiccia, colle spalle larghe, con una testa quadra, piantata su di un collo corto ma grosso come quello d’un giovane toro.
A prima vista, riusciva subito antipatico, ed infatti a bordo della Guadiana godeva ben pochi amici; inspirava però a tutti un vago, indeterminato terrore.
Quella tinta pallida, quasi cadaverica del suo viso, butterato dal vaiolo, quegli sguardi color dell’acciaio, quei lineamenti duri, che tradivano una ferocia mal celata, quei suoi modi ruvidi, brutali, quella voce che aveva un non so che di metallico, facevano uno strano effetto sulle persone che lo avvicinavano.
Chi era quell’uomo? I marinai lo ignoravano e forse lo stesso capitano non avrebbe saputo dirlo.
Si sapeva solo che era bretone, che malgrado i suoi modi e i suoi difetti era un valente marinaio, pronto a tutto, deciso a tutto, ed un rigido osservatore della disciplina di bordo.
Era stato raccolto tre anni prima su di una scialuppa, perduta in mezzo all’oceano Atlantico ed era stato subito ricevuto fra l’equipaggio. Le sue cognizioni nautiche, la profonda conoscenza che aveva dei negri e della tratta, il suo valore personale, l’avevano spinto subito in alto e il capitano Alvaez, che apprezzava i coraggiosi, dopo sei mesi l’aveva nominato suo tenente.
Sul conto di quel bretone, correvano però delle brutte istorie, fra l’equipaggio; alcuni affermavano che era stato cacciatore di schiavi; altri che aveva fatto il pirata e che sulla coscienza, dei delitti doveva averne parecchi, ed altri ancora affermavano che doveva aver fatto conoscenza colle manette e con le catene dei condannati. Il fatto è che nessuno lo amava, ma che tutti lo temevano e forse anche il capitano non lo vedeva di troppo buon occhio.
— Signor Kardec, — disse Alvaez, muovendogli incontro. — Noi stiamo per venire bloccati.
Il bretone rimase impassibile.
— Mi avete compreso? — chiese il capitano.
— Perfettamente, signore, — rispose il secondo con voce tranquilla.
— Orbene, siccome nè io nè gli altri abbiamo voglia di farci appiccare, v’imbarcherete su di una baleniera e andrete a sorvegliare le navi nemiche alla foce del fiume.
— E poi?
— Fra tre ore noi scenderemo il Nazareth e verrete a riferirmi ogni cosa.
— Sta bene, signore — rispose il bretone.
— Ed ora, — disse Alvaez volgendosi verso il mastro, — andiamo a trovare quel furfante di Bango.