< I drammi della schiavitù
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3. Il re Bango 5. Il carico di carne umana


IV.


La tratta.


La tratta!... Ecco una parola che non può avere un significato più triste: una parola che fa allibire dallo spavento le innumerevoli tribù del grande continente africano; una parola che suona barbarie inaudite, massacri orrendi, saccheggi, incendi, fiumi di sangue, distruzioni spaventevoli.

Se i primi coloni dell’America avessero sospettato ciò che poteva produrre l’importazione degli schiavi africani nelle loro piantagioni, in sostituzione delle deboli razze americane, malgrado la poca delicatezza dei loro animi, avrebbero forse respinto inesorabilmente le prime navi negriere che il Portogallo inviava sulle coste del Brasile, e più tardi quelle spagnole e francesi, che riversavano a migliaia, gl’infelici africani, sulle sponde delle ridenti isole del grande golfo messicano.

È da allora che si cominciò a considerare la razza negra come degenerata, a motivo forse del colore della sua pelle, per paragonarla a poco a poco a una razza di veri animali, destinati a lavorare fino all’esaurimento completo delle loro forze ed a trafficarli come fossero montoni, buoi e forse peggio, cioè anzi molto peggio.

Le continue richieste di negri da parte dei piantatori americani, che vedevano prosperare meravigliosamente le loro immense piantagioni sotto le robuste braccia degli africani, crearono le navi trafficanti di negri, o come dicevansi allora, di ebano vivente e quelle terribili bande di cacciatori d’uomini, che dovevano più tardi acquistare una tremenda, una sanguinaria fama.

Sembrerebbe incredibile, eppure quell’idea mostruosa nacque per la prima ad una nazione, che nel medio evo era più innanzi di molte altre, in fatto di civiltà. Il Portogallo fu il primo a organizzare quelle bande sanguinarie; dietro a questo, corsero gli arabi.

Ed ecco quel vasto continente diventare il teatro di orribili stragi. Le cupe foreste dai giganteschi baobab, che da migliaia d’anni forse mai erano state turbate dallo strepito di un’arma da fuoco, rintronare di spari micidiali; ecco quelle regioni dove vivevano tranquille le tribù nere, invase da quelle orde di uomini assetati di sangue, di rapine e avidi di prede umane; ecco i monti e le valli, i fiumi ed i grandi laghi dell’interno, per secoli e secoli tranquilli, echeggiare di urla di feroci, di gemiti di feriti, di moribondi, di pianti di madri che si vedevano strappare dai fianchi i terrorizzati figli, mentre i mariti soccombevano in difesa delle capanne violate ed i baldi garzoni venivano incatenati e trascinati lontani, lontani, al di là dei grandi boschi che li avevano veduti nascere, al di là dell’immenso oceano, a morire schiavi in terre straniere, sotto la sferza d’implacabili aguzzini.

Là ove sorgeva una tribù popolosa non rimangono che dei cadaveri, che le termiti dalle branche possenti ed i denti degli sciacalli e delle iene trasformeranno in scheletri; là ove sorgeva una borgata, più non rimangono che fumanti rovine, capanne sfondate e qualche muro; là ove si estendeva un regno possente non rimane più un sol uomo a raccontare la storia dei suoi monarchi o i fasti dei suoi antenati: tutto è scomparso, tutto è diventato silenzioso. Per di là sono passate, come tromba devastatrice, le bande dei cacciatori d’uomini e tutto hanno distrutto!

Fortunati coloro che sono caduti colle armi in pugno in difesa dei loro villaggi, delle loro spose, dei loro figli! Almeno quelli non assisteranno alle inaudite barbarie, alle torture che attendono i superstiti; almeno quelli riposeranno sulla terra dei loro avi, all’ombra dei grandi boschi primitivi e sotto il sole bruciante dell’equatore.

Ed i superstiti? Disgraziati, sarebbe stato meglio che fossero stati uccisi come gli altri.

Eccoli là, incatenati, con una forca di legno al collo che li unisce a due a due, in marcia verso la costa dove li attendono le navi negriere. Uomini, donne, bambini, sono là tutti, circondati dai vincitori che li spingono innanzi a colpi di pesanti fruste di pelle di ippopotamo, che strappano ad ogni sferzata, pelle e carne insieme.

La fuga è impossibile, la rivolta vana: essi sanno che i cacciatori d’uomini non hanno pietà per nessuno. Quella lunga catena di disgraziati marcia settimane, mesi, attraverso a boschi, a fiumi, a paludi, appena nutriti, appena dissetati, sotto i torridi raggi d’un sole implacabile.

Guai a chi si arresta! Gli aguzzini battono e continueranno a battere senza misericordia e uomini e donne e fanciulli. Cosa importa a loro se ne rovinano cento? La carne nera abbonda, e si rifaranno in un’altra scorreria.

Gli sfinimenti, le sferzate, le lunghe marce, quella forca che stringe il collo, a poco a poco convertono quei prigionieri in una banda di scheletri viventi, che si trascina penosamente attraverso i boschi. Non importa: avanti sempre!

I bambini cominciano a cadere sfiniti. Ah! Non godranno un’ora di libertà quei miseri! Un colpo di bastone sul cranio ed i loro corpi serviranno da cena alle iene.

Cadono altri uomini e donne, ma la colonna non si arresta, ma nemmeno quei disgraziati, che boccheggiano fra le erbe, non godranno un momento di libertà o morranno in pace.

Gli aguzzini si tramutano allora in belve feroci e martirizzano quegli sciagurati, fino a che soccombono. Si mutilano a colpi di scure, si dilaniano a colpi di coltello, si accoppano a colpi di mazza e giungono, orribile a dirsi, al punto di privarli delle gambe perchè non possano fuggire!... In quella esecuzione la polvere non si adopera mai!... Una carica di fucile, costa più di un negro!...

E avanti sempre per boschi, per valli, per solitudini, per deserti, lasciandosi addietro una lunga, interminabile fila di scheletri.

I superstiti, terrorizzati, istupiditi, sfiniti, si trascinano avanti facendo sforzi disperati fra le minacce, le urla selvagge ed i colpi di staffile di quei cacciatori d’uomini, fin che giungono alla costa, sulle rive dell’immenso oceano.

Erano mille e sono rimasti seicento, cinquecento e forse meno ancora. Gli altri sono tutti caduti durante quella terribile marcia ed i loro scheletri biancheggiano su quell’interminabile sentiero, irrigato di lagrime e di sangue.

Ma tutti i superstiti non saliranno sulla nave negriera. Vi sono degli uomini, delle donne, dei fanciulli, che le fatiche e le privazioni hanno ridotto in uno stato disperato, che nè un nutrimento abbondante, nè un riposo prolungato potranno rimettere in salute. A che mantenere quei miserabili, che i negrieri non acquisteranno? Rimandarli ai loro lontani paesi? Ah no, è meglio ingrassare colle loro carni le fiere della foresta e si fanno scomparire.

Alla costa i superstiti hanno un po’ di tregua. Si nutrono abbondantemente, si lasciano riposare, si accorda a loro qualche ora di libertà perchè si rimettano dalle lunghe fatiche e dalle privazioni e facciano una discreta figura, dinanzi al negriero che verrà a comperarli.

Dove andranno? Quei disgraziati lo ignorano, ma tutti hanno udito a parlare con profondo terrore del vascello che porta i negri ed i più, credono che i bianchi li acquistino per mangiarli!... È adunque un’angosciosa aspettativa, che dura fino all’arrivo della nave negriera.

Quando il misterioso vascello giunge, s’imbarcano sulle scialuppe e si ammucchiano nel frapponte della nave. Cinquecento creature, si sono vedute pigiate nella stiva di una nave di centosessanta o cent’ottanta tonnellate!...

E quella prigionia in quello stretto spazio privo d’aria, sotto i torridi calori dell’implacabile sole equatoriale, dura due mesi, talvolta tre, fors’anche quattro, se le calme sorprendono la nave. Le malattie non tardano a svilupparsi, il colera, la febbre gialla, il tifo o qualche cosa di peggio fanno la loro comparsa e le stragi ricominciano anche sull’oceano. Bah? Cosa importa? I pescicani seguono i vascelli negrieri a dozzine, attratti dal loro istinto infallibile ed i morti, invece di riposare all’ombra dei secolari baobab, avranno per tomba gl’intestini di quei formidabili squali!...

I mille prigionieri son diventati trecento, ma bastano a pagare non solo le spese, ma a realizzare dei lauti guadagni. Al di là dell’oceano si pagano cari e sono ricercati dovunque, nel Brasile, nelle piccole repubbliche americane, nelle isole del golfo del Messico.

Ed eccoli finalmente sbarcati, gli ultimi superstiti di quell’ecatombe umana, ma le loro pene non sono ancora finite.

Nelle piantagioni non vi è sosta e anche là lo staffile li accompagna. Lavorano dall’alba al tramonto e guai a chi vi si rifiuta. Tanto peggio pei deboli o pei malati; tanto peggio per coloro che, stanchi di quella interminabile serie di dolori, tenteranno la fuga. L’implacabile sferza farà cadere gli uni e gli altri, se non cadono prima sotto i denti dei cani che s’adoperano nella caccia degli schiavi fuggiaschi, o, come si chiamano laggiù, marroni.

Le tribulazioni di quei miseri non termineranno che il giorno in cui la morte li sorprenderà, ma nemmeno la morte li farà felici. Morranno lontani dai loro grandi boschi, lontani dalla loro capanna che li ha veduti nascere, lontani dai loro figli, dalle loro madri, dai loro parenti, che più mai rivedranno, soli, dimenticati, in terra straniera...

Ci vollero dei secoli prima che un grido d’indignazione echeggiasse per siffatte infamie, che le pretese nazioni civili dei due mondi, quasi incoraggiavano per non rovinare le loro colonie d’oltre Atlantico.

I filosofi del XVIII secolo, lanciarono il primo grido, la prima protesta contro tante barbarie; quella voce non andò perduta ed ecco le nazioni finalmente a scuotersi. La Francia abolisce la schiavitù nelle sue colonie, l’Inghilterra nel 1809 proclamava la libertà dei suoi negri e la Repubblica Americana del Nord innalza il negro al livello del bianco. Ma non bastava; bisognava colpire le navi negriere che continuavano a riversare migliaia e migliaia di schiavi nelle colonie spagnole e portoghesi e nel Brasile dove la schiavitù non era stata abolita.

Ecco sorgere gl’incrociatori e scaglionarsi lungo le coste africane, per catturare le navi negriere ed appiccare gli equipaggi. Vani sforzi. Sessanta navi non bastano a sorvegliare un continente vasto come è l’africano ed i negrieri si armano e si difendono disperatamente e la schiavitù perdura, le barbarie continuano e nel centro e sulle coste della nera Africa le spietate bande di cacciatori d’uomini si moltiplicano e il sangue scorre, scorre, scorre sempre.

Cesserà un giorno?... Sul mare la tratta è terminata. La proclamazione della libertà dei negri da parte del Brasile, ultimo paese che l’aveva conservata fino a pochi anni or sono, ha portato un colpo mortale alle navi negriere e le ha fatte scomparire definitivamente, ma la schiavitù dura ancora in Africa e durerà ancora a lungo, fino a quando le nazioni europee non avranno conquistate le regioni del centro.

Forse solo allora le misere tribù, sopravvissute, saranno veramente libere e potranno godere ancora, all’ombra delle loro immense foreste, la pace e la tranquillità che godevano prima della creazione delle colonie americane, diventate opulenti col sangue e colle lagrime di tanti milioni di schiavi, strappati brutalmente ai loro paesi nativi. La schiava fissò su di lui i suoi grandi occhi neri... (Pag. 40)

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