< I naufragatori dell'Oregon
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19. I traditori si svelano 21. Il supplizio di Aier-Raja


CAPITOLO XX.

I Dayachi.


I Dayachi formano la popolazione più numerosa della grande isola del Borneo e si disputano coi Biagiassi l’interno e coi Malesi e coi Bughissi le coste.

Le loro tribù sono sparse per lo più verso il sud, ma anche verso il nord se ne trovano e non poche. Esse formano due schiatte distinte: in Dayachi-darrat, ossia di terra ferma, e in Dayachi-laut, ossia di costa.

I primi vivono nelle selve. Hanno villaggi che sanno fortificare in modo da renderli quasi inespugnabili, coltivano il riso, i sagù, diversi tuberi e sono valenti cacciatori; i secondi invece non lasciano mai le coste, anzi si può dire che non lasciano mai il mare, poichè vivono entro le loro belle piroghe, occupandosi della pesca, ma esercitando, quando si presenta l’occasione, anche la pirateria.

I darrat sono di colorito più oscuro, di statura più complessa, di fattezze più regolari, e le loro donne godono fama di essere le più belle di tutto l’arcipelago della Sonda; i laut invece sono di tinta più chiara, di statura più elevata, ma più magra, e conservano qualche cosa del tipo malese, pur presentando alcuni tratti particolari.

Gli uni e gli altri sono più intelligenti delle altre razze e mostrano, in generale ed in modo molto marcato, il tipo mongolico, ed alcuni anzi somigliano assai agli abitanti della provincia meridionale della China, senza però avere gli occhi obliqui.

Si dice che siano leali ed onesti, non essendo stati corrotti, come gli altri popoli delle vicine isole, dal maomettismo, ma godono una pessima fama per le loro abitudini sanguinarie, e per questo vennero chiamati dagli inglesi, e con piena ragione, Head-hunters, ossia cacciatori di teste, e dagli olandesi Koppens-kueller, ossia schiacciatori di teste.

Sono i più arrabbiati collezionisti di teste umane che esistano sulla terra. Ogni nemico che cade in loro potere lo decapitano e conservano gelosamente quei tristi trofei, dopo averli seccati al sole, come testimonianza del loro valore, e più è ricca la loro collezione, più sono stimati.

La testa d’un nemico è il più notevole presente che essi possano fare alla fidanzata o alla moglie. Vi sono perfino delle donne che non si maritano senza quel lugubre regalo di nozze.

Per soddisfare quelle brame sanguinarie, i Dayachi sono perciò sempre in guerra coi popoli civili, specialmente coi Kajou, selvaggi bestiali, che non sanno coltivare, che non costruiscono fabbricazioni, che non conoscono né il riso, né il sale, che errano da soli unendosi di quando in quando colle femmine, che non riconoscono né fratelli, né sorelle, né padri, né madri, che si vestono con pochi pezzi di corteccia e che dormono sugli alberi.

È con quei disgraziati, che non posseggono armi difensive, che i Dayachi se la prendono per arricchire le loro collezioni. Li cercano come bestie feroci, imboscandosi nelle foreste più fitte per dei giorni interi, e allorché passano o li uccidono colle frecce avvelenate che lanciano colla cerbottana o schiacciano la loro testa con un colpo di clava o li decapitano coi loro formidabili parangs-ilang. Oltre le teste degli uomini, conservano pure, dopo averle affumicate, le teste dei mias, cioè dei grandi orang-outang, e vanno orgogliosi di quei trofei.

I Dayachi vivono in villaggi fortificati chiamati kampong o kotta, difesi da palizzate e da numerosi alberi spinosi che rendono l’accesso difficilissimo.

Se sono assaliti, si difendono con valore disperato sotto la guida del loro capo, che chiamano orang-kaja, lanciando frecce avvelenate e riparandosi dietro a grandi scudi di legno coperti di fibre di rotang e di pezzi di conchiglia.

Questi selvaggi non hanno religione, ma alcune tribù riconoscono un Ente Supremo che chiamano Giuvata ed altre adorano delle divinità che appellano Tapa, Giaruwang o Tavangau; ma non posseggono alcun idolo, bensì invece degli strani amuleti.

Si rifiutano anche di mangiare la carne dei cervi e dei buoi perchè la credono proibita dalle loro divinità, ma sono invece ghiottissimi di quella di porco e forse questo fu il motivo per cui non abbracciarono la religione maomettana come i popoli delle vicine isole, essendo il maiale proibito dal Corano come animale immondo.

Sono poi superstiziosi all’eccesso e credono agli spiriti maligni, che chiamano Antu e Buan. Credono ai sogni, traggono auguri dall’incontro di certi uccelli come gli antichi romani, conservano gelosamente dei vasi chinesi importati in quell’isola in tempi remoti ritenendoli come protettori della terra e, cosa strana, annettono grandi virtù al sangue dei galli e lo adoperano nei loro matrimoni, bagnando la fronte ed il petto degli sposi...

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Il soldato aveva appena dato l’allarme, che i Dayachi comparvero. Erano dieci o dodici, essendosi gli altri lanciati sulle tracce del malese e dell’irlandese, armati di pesanti clave lunghe tre piedi, di cerbottane per lanciare le frecce avvelenate e di parangs lucentissimi, possedendo quei selvaggi un acciaio naturale così impareggiabile, che in Europa non si può ottenere in alcun modo.

Erano vestiti come quelli veduti poco prima, ossia con un solo sottanino e adorni di braccialetti, di collane e di piume, ma portavano appeso al fianco sinistro dei canestri di strisce di rotang, di erbe e di vimini intrecciati e dipinti a vivi colori ed a disegni complicati.

Erano le tambuk destinate a ricevere le teste dei nemici.

Held ed il soldato avevano fatto nascondere Amely in mezzo alle canne per difenderla dalle frecce e si erano disposti attorno a lei coi fucili in mano, pronti a far fronte a quei formidabili nemici. Dik si era messo in mezzo ad una folta macchia, a pochi passi da loro ed aveva armato risolutamente la sua piccola carabina a due colpi.

– Non facciamo fuoco che all’ultimo momento – disse l’olandese. – Forse questi Dayachi non sono così cattivi come si crede e so che temono gli europei.

– È vero, signore, e mi pare che non abbiano molta fretta ad assalirci – disse il soldato.

– Temono assai le armi da fuoco.

– Buono!...

– Essi credono che i proiettili, una volta partiti, li inseguano dappertutto. Ecco perchè non osano avanzarsi.

I Dayachi si erano arrestati. Giravano gli occhi verso le macchie vicine come se temessero di venire a loro volta sorpresi, poi guardavano l’olandese, il marinaio e Dik, ma senza far uso delle loro frecce avvelenate, nè pronunciare parola.

– Cosa attendono? – chiese il soldato, che tormentava il grilletto della sua carabina.

– Non lo so.

– Dei rinforzi, forse?...

– È probabile.

– Tuoni!... Signor Held, me la vedo brutta!

– Non disperiamo. Mi hanno detto che i Dayachi sono vendicativi, ma ospitali. Noi non abbiamo fatto alcun male a loro.

– Mi spiacerebbe lasciar qui la mia zucca, signor Held.

– Vi credo.

– Canaglia di O’Paddy!...

– Zitto!... Odo un gong a suonare.

– Hanno i gong come i Chinesi ed i Malesi, questi selvaggi?

– Sì, Lando.

– È un’orchestra che s’avanza, signore. Dzin!... Bum!... Dzin!... Dzin!... Che ci suonino la marcia funebre?...

Verso la foresta si udivano a echeggiare parecchi gong, che sono grandi dischi di metallo tenuti sospesi e che percossi producono un rumore assordante, con delle vibrazioni lunghissime.

I Dayachi si erano ritirati lentamente, pur non perdendo di vista i naufraghi, ed erano andati a schierarsi sul margine della grande macchia, senza fare alcun atto ostile.

Poco dopo l’olandese e il soldato videro avanzarsi parecchi altri selvaggi preceduti da due uomini che battevano i gong. Erano tutti armati, ma avevano i loro parang ilang passati nelle cinture e le loro mazze pendevano ai loro fianchi.

– Non mi pare che vengano per assalirci – disse il soldato, che cadeva di sorpresa in sorpresa.

– Non fidiamoci, almeno per ora, delle loro apparenze tranquille – rispose l’olandese. – Si dice che sono leali, ma io non li ho mai avvicinati.

– Che siano d’accordo con quella canaglia di O’Paddy?...

– Non lo credo, perchè voi mi avete detto che inseguivano il malese.

– È vero, anzi O’Paddy ha fatto fuoco su di loro uccidendone uno. Toh!... Chi è quell’uomo?... Il capo forse?...

I Dayachi erano giunti sul margine del macchione ed uno di loro s’avanzava verso i naufraghi.

Era un dayako d’alta statura, di colore giallognolo, col viso già coperto di rughe. Aveva le braccia coperte di anelli di rame e di ottone, il collo adorno di parecchi monili di denti umani e di denti di tigre e agli orecchi portava numerosi anelli che gli avevano allungato enormemente i lobi.

Indossava una giacca attillata, senza maniche, aperta sul davanti, abbellita da un vecchio gallone semistracciato e da perle di vetro, ed un sottanino stretto ai fianchi da una rawai, specie di larga cintura, alla quale portava appeso un parang col manico di corno chiuso in una guaina di legno tinta di rosso e adorna di ciuffi di capelli, appartenenti probabilmente a teste di nemici.

Nella destra invece teneva un gallo e nella sinistra un piccolo paniere dipinto a vivi colori. S’avanzò, senza esitare, verso gli stranieri che avevano abbassate le armi e pronunciò alcune parole. Non ottenendo risposta ed immaginandosi che non conoscessero quella lingua disse in malese e con una certa cortesia:

– Gli uomini d’oltremare si degnano d’accettare l’ospitalità dell’orang-kaja Sulinari?... Devo considerarvi come amici o nemici?...

L’olandese, che aveva soggiornato lungo tempo nelle isole dell’arcipelago della Sonda e che, come si disse, parlava benissimo il malese, rispose:

– Gli uomini della pelle bianca non sono nemici dei Dayachi e accettano volentieri l’ospitalità del capo Sulinari.

Il dayako, soddisfatto di quella risposta, s’avvicinò all’olandese e gli fece passare sul capo, per due volte, il gallo che teneva in mano, poi glielo porse dicendogli:

– È tuo: siamo amici.

Compiuta quella formalità, che presso di loro è di grande importanza, un vero trattato d’alleanza e di reciproca protezione, Sulinari si sedette dinanzi ai naufraghi, e dopo averli guardati con una certa curiosità uno ad uno, aprì il paniere e rivolgendosi ad Amely le offerse galantemente il siri.

Questo siri è una composizione di foglie aromatiche di piper betel, di noci di areca e di una piccola dose dell’amaro ed astringente gambir, d’una piccola quantità di succo concentrato dell'uncaria gambir e di una presa di calce viva. Questa materia, così largamente adoperata in tutta la Malesia e nelle isole della Sonda, provoca abbondante saliva di un color rosso sanguigno che tinge le labbra e le gengive, annerisce i denti ed ha un sapore aromatico niente affatto disaggradevole.

Tutti i popoli malesiaci hanno una tale passione pel siri che anche quando vanno a passeggio si conducono con loro un servo, specialmente i ricchi, incaricato di portare un canestrino od una ricchissima scatola ripiena di quella composizione.

Se si fa visita a qualcuno, non è il caffè, nè i liquori che vengono offerti dal padrone di casa, ma sempre il siri e nessuno può rifiutarlo.

Il capo dayako, dopo averlo offerto ad Amely, ne diede all’olandese, al marinaio, a Dik, poi se ne mise in bocca un pezzo, dicendo:

– Gli uomini d’oltremare mi seguano nella mia kotta: riceveranno franca ospitalità ed in compenso renderanno produttiva la seminagione del nostro riso.

– Una parola prima, orang-kaja – disse Held.

– Parla: tu sei mio amico e mio ospite.

– L’hai preso l’uomo bianco che ha ucciso uno dei tuoi guerrieri?

– No: è fuggito nei boschi e noi non abbiamo osato inseguirlo per tema della sua canna che manda fumo e fiamme. Era tuo fratello?...

– No, un mio nemico.

– E non l’hai decapitato? – chiese ingenuamente Sulinari.

– È fuggito prima che potessi punirlo.

– Mi hanno detto che il tuo compagno gli ha fatto fuoco addosso.

– È vero.

– Quell’uomo deve essere un cattivo, poichè in caso diverso non avrebbe ucciso uno dei miei sudditi.

– Avrei dato molto per poterlo avere nelle mie mani.

– Oramai sarà lontano, ma abbiamo preso un uomo di colore, che era pure armato della canna che manda fumo e fiamme.

– Un malese?...

– Sì, un uomo di quella razza esecrata.

– Ed è in tua mano?... – chiese Held, con stupore.

– Sì, e domani lo uccideremo.

– Me lo farai vedere?

– Sì, se lo vuoi.

– È un mio nemico.

– Allora sono doppiamente contento di averlo fatto prigioniero. Ti regalerò la sua testa.

– Grazie, te la lascio.

Sulinari lo guardò con stupore. Quell’arrabbiato collezionista di teste umane non riusciva a comprendere come l’uomo bianco non gradisse quel regalo.

– Non abbiamo l’uso di serbare le teste dei nemici – disse Held, che lo aveva compreso.

– Allora non odiate abbastanza i vostri nemici – disse il capo. – Non importa: la terrò io e sarò orgoglioso di possedere una testa di più.

– Te la cedo volentieri.

– Seguitemi al kampong, che è una vera kotta (fortezza).

– È lontano?...

– Al di là della foresta, sulle sponde di una palude.

– Non potrà entrarvi il mio nemico?...

Un sorriso sfiorò le labbra del dayako.

– Nessuno può entrare nei nostri villaggi – disse poi. – Sono muniti di recinti solidi e spinosi e poi i miei guerrieri veglieranno su te e sui tuoi compagni e non lasceranno avvicinare alcuno. Affrettiamoci: domani semineremo il riso e voi lo renderete fecondo.

– Noi!...

– Gli uomini d’oltremare sono protetti dai buoni geni e tutto possono.

– Ma cosa dovremo fare per rendere feconde le tue risaie?...

– Basterà che sputiate entro un vaso pieno di riso1 e le piante di quei semi cresceranno rigogliose.

– Sei certo?

– Tre anni or sono un altro uomo d’oltremare fece ciò che chiedo a te e la raccolta fu abbondante.

– Ed io farò altrettanto.

– Andiamo: mettetevi fra i miei guerrieri che vi proteggeranno dal vostro nemico.

S’alzarono, uscirono dalla macchia e giunsero là ove aspettavano i Dayachi. Questi, ad un comando del capo, li circondarono impugnando i loro parangs-ilang, le loro mazze e le loro cerbottane, pronti a difenderli contro qualunque sorpresa.

I due musicisti si misero a picchiare furiosamente i gongs, facendo un baccano assordante e la truppa si mise in marcia attraverso alla foresta.

Mezz’ora dopo giungeva dinanzi al kampong.


  1. Storico.

Note

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