< I naufragatori dell'Oregon
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7. L'agonia dell'Oregon
6. Sul rottame 8. Il naufragio

CAPITOLO VII.

L’agonia dell’“Oregon„


L’alba era appena sorta che era già scomparsa, soffocata dalle masse enormi di vapori che s’alzavano vorticosamente dall’oriente, correndo sbrigliatamente pel cielo.

Una semi-oscurità, che ora si rischiarava qualche po’ ed ora diventava più cupa, copriva il mare delle Celebes.

Sordi tuoni percorrevano la volta celeste da un orizzonte all’altro, mescendosi ai muggiti sempre più formidabili delle onde ed ai sibili del vento.

Era un vero uragano, quello che s’alzava, forse uno di quei tremendi tifoni così tristamente celebri nei mari della China e delle Filippine.

La zattera, trascinata da quelle montagne d’acqua che la assalivano da tutte le parti con furore senza pari, era scomparsa sul fosco orizzonte, in direzione del sud. Per alcuni minuti si erano udite le grida di spavento dei passeggieri, poi la voce possente della tempesta le aveva soffocate e più non erano giunte agli orecchi dei naufraghi rimasti a bordo.

L’Oregon, sollevato dai marosi, trabalzava disordinatamente come una palla elastica. Si raddrizzava a prua con mille scricchiolìi, s’inabissava a poppa facendo balzare l’acqua fino sul coronamento, si rovesciava spaventosamente sul fianco ferito or mostrando ed or tuffando l’immenso squarcio e imbarcando nuove onde, che poi tornavano ad uscire con sordi boati.

Cupi fragori salivano dalla camera delle macchine, entro la quale si cozzavano rumorosamente i pezzi fracassati delle caldaie e gli attrezzi usciti dai depositi e rotolavano gli ammassi di carbone.

Però quel vascello resisteva sempre. Si avrebbe detto che non voleva lasciarsi inghiottire da quel mare irato e che voleva finire i suoi giorni su di una spiaggia, anzichè in fondo agli umidi baratri.

Le onde ed il vento già lo spingevano verso l’ovest, in direzione della costa del Borneo. Doveva essere ben lontana quella terra, ma se quella spinta continua non veniva meno, doveva presto o tardi incontrarla sulla sua rotta.

O’Paddy, l’audace marinaio che non si spaventava nè degli uomini, nè dei furori della sconvolta natura, aveva afferrata la ruota del timone e cercava di mantenere l’Oregon sulla buona via e di presentare alle onde la solida poppa.

Guardava con occhio tranquillo, quasi sorridente, quel mare minaccioso e pareva che lo sfidasse. Aier-Raja, al suo fianco, masticava beatamente un pezzo di sigaro di Manilla.

Non era meno tranquillo del padrone e pareva che non si preoccupasse affatto della bufera e della cattiva, anzi quasi disperata situazione della nave.

Il signor Held, Amely e Dik, seduti ai piedi del cassero, guardavano ansiosamente le onde che montavano a bordo, frangendosi sulle cime delle murature semi-sventrate dai marinai imbarcatisi sulla zattera, ma si rassicuravano vedendo la tranquillità di O’Paddy.

Il soldato delle truppe coloniali, che non aveva voluto abbandonare la nave, si era invece inerpicato sulla caminiera della macchina e di là spingeva i suoi sguardi verso l’ovest, come se cercasse di scoprire la costa del Borneo.

Egli era un bel pezzo di giovanotto di venticinque o ventisei anni, alto, muscoloso, con petto ampio, spalle larghe, la muscolatura potente. Aveva i capelli neri, gli occhi grandi, arditi, scintillanti, la pelle bruna e piccoli baffi pure neri.

Ritto su di un ventilatore della camera delle macchine, colle robuste braccia appoggiate all’orlo del camino, non oscillava sotto i violenti trabalzi dello steamer e si manteneva lassù meglio di un marinaio.

Stava colà da un quarto d’ora, quando si lasciò cadere sul ponte, gridando:

– Terra all’ovest!...

Il signor Held si era alzato di colpo, muovendogli incontro.

– Avete scorto terra?... – chiese con visibile emozione.

– Sì, signore – rispose il soldato.

– Lontana?...

– Ho scorto una vetta alta assai, apparire fra uno squarcio delle nubi.

– Una montagna del Borneo, forse.

– Senza dubbio – disse O’Paddy, che li aveva raggiunti. – All’ovest abbiamo la costa del Borneo.

– Credete che il vascello resisterà fino all’approdo?

– Lo spero, signor Held. L’Oregon è pieno di acqua, ma gli scompartimenti stagni resistono sempre.

– Quante ore ci vorranno per toccare quella terra?

– Forse ventiquattro e forse quarantotto ore; ma cosa importa, se il vascello non affonda?...

– Io temo per quei fanciulli, signor Paddy.

– Non abbiate timore; vi dico che sbarcheremo. Ritorno al timone.

– Avete fiducia in quell’uomo? – chiese Held, volgendosi verso il soldato.

– Sì, signore – rispose questi. – Mi ha l’aria di un lupo di mare che sa il conto suo.

– Credete anche voi che possiamo toccare terra?...

– Lo spero, signore, e sono ben contento di essere rimasto a bordo ed in vostra compagnia.

– Non avevate fiducia nella zattera?

– Nessuna: quei galleggianti non sono navigabili quando il mare è grosso. E poi, ho sempre avuto per principio di non abbandonare mai le navi prima di vederle sott’acqua e non ho mai avuto da pentirmene. È già la seconda volta che in tal modo salvo la mia pelle.

– Siete uno spagnuolo delle Filippine?

– No, signore, sono un siciliano, un antico pescatore di coralli, sbalzato qui da mille vicende per diventare poi un soldato delle truppe coloniali spagnole.

– Un italiano adunque!... Bravi uomini i vostri compatrioti e dovunque ricercati.

– È vero, signore – disse il siciliano, sorridendo. – Buoni soldati e valenti marinai.

– Ditemi, conoscete questo capitano O’Paddy?

– Non l’ho mai veduto.

– Ed il suo malese?

– Nemmeno.

– Vi sembrano uomini da potersi fidare?

– Li credo buoni marinai, quantunque i malesi siano persone sospette, in generale.

– Perchè?...

– Si dedicano alla pirateria. Lo so, essendo stato in parecchie isole della Sonda.

– È vero, ma... vi chiamate?

– Guglielmo Lando, signore.

– Credete voi, che dovete aver pratica di cose marinaresche, che quel colpo di sperone fosse accidentale?

– Ecco quello che ignoro e che forse ignoreremo per sempre. Però...

– Continuate – disse il signor Held, vedendo che il soldato esitava.

– Avrei voluto vedere l’equipaggio di quell’O’Paddy. Il mare di Sulù, come pure questo, non gode buona fama, ed a Manilla ho udito raccontare che delle speronate ne hanno date altre i legni corsari, per fare dei grossi bottini. Non intendo con ciò far cadere dei sospetti su quel signore.

– Grazie, amico. Speriamo che tutto finisca bene.

L’olandese ritornò presso i suoi protetti, mentre il soldato si arrampicava nuovamente sul suo osservatorio.

– Ebbene, signor Held? – chiese Amely con apprensione.

– Andiamo verso il Borneo, mia cara.

– Resisterà la nave?

– Tutti lo sperano. Hai paura?

– Accanto a voi, no, signor Held.

– E tu, Dik?

– No – rispose il giovanetto con voce decisa. – Queste onde mi piacciono.

– Bravi, fanciulli miei! Siete coraggiosi come vostro padre, degni figli del più valoroso capitano delle truppe coloniali. Se fosse vivo, sarebbe orgoglioso di voi.

– Povero padre! – disse Amely con un sospiro. – Come sarebbe felice con tanta ricchezza!...

– Signor Held – disse Dik. – È un’isola questo Borneo?

– Sì, ma così immensa che ci vogliono parecchi mesi per attraversarla.

– Troveremo dei compatriotti?...

– Sì, ma chissà dove. Probabilmente sbarcheremo su di una costa selvaggia.

– Dove ci saranno degli animali.

– E dei più feroci: delle tigri, dei serpenti, delle scimmie più grandi di me.

– Ho il mio fucile nella cabina, signor Held, e quando sono armato non ho paura. Sono già un uomo, io!...

– Ehi!... terra!... – gridò in quell’istante il siciliano.

– Ancora!... – chiese O’Paddy. – Dove?...

– Sempre dinanzi a noi.

– Mille lampi! Se il vento dura, toccheremo, un po’ ruvidamente, ma non monta. Quale disgrazia non possedere una vela e...

Un cupo muggito che si ripercosse nell’interno della nave, gli troncò la parola.

– Fulmini!... – tuonò, mentre impallidiva. – Cosa succede?

L’Oregon in quell’istante si piegò sul fianco squarciato e lo si vide inabissarsi lentamente.

Held, Amely e Dik erano balzati in piedi, mentre il soldato si precipitava sulla tolda.

I ruggiti continuavano sotto coperta, come se una massa irrompesse nel ventre del vascello.

– Fulmini!... – ripetè O’Paddy, lanciandosi verso il boccaporto della sala della macchina. – Che gli scompartimenti stagni abbiano ceduto?

Senza badare al pericolo che correva, si precipitò giù dalla scala, seguìto dal soldato. Giunti in fondo, s’accorsero che l’acqua aveva già coperti due gradini, ma pareva ora si fosse arrestata.

– Ha ceduto uno scompartimento, ne sono certo – disse il siciliano. – Non odo più l’acqua irrompere attraverso lo squarcio.

– Lo credete? – chiese O’Paddy.

– Sono sicuro di non ingannarmi.

– Resisteranno gli altri?

– Mi hanno detto a Manilla che la nave era quasi nuova, capitano.

– Non vorrei che questa nuova massa d’acqua spostasse il vascello. È meglio prevedere che lasciarsi sorprendere.

– Cosa volete dire? Sono stato marinaio anch’io un tempo.

– Voglio dire che cercheremo di radunare dei rottami per poter formare una zattera.

– Ma l’opera morta è stata distrutta, capitano.

– È vero, ma rimane il tetto delle cucine e per noi può bastare.

– Infatti siamo solamente in sei.

– Risaliamo.

Si issarono sulla scala e tornarono in coperta. Il signor Held, Amely e Dik li attendevano in preda alla più viva ansietà.

– Affondiamo? – chiese l’olandese.

– No – rispose O’Paddy. – Ha ceduto uno scompartimento, ma l’Oregon resiste ancora.

– Le onde non ne sfonderanno un altro?

– Forse, ma allora ci troveremo presso terra. Guardate: ecco laggiù le coste del Borneo.

Infatti, verso occidente, fra uno squarcio di vapori, si scorgeva confusamente una sponda sormontata da alte catene di monti. Era ancora lontana, ma il mare ed il vento spingevano l'Oregon verso quella direzione.

– Siamo salvi!... – esclamò Amely.

– Non ancora, signorina – disse O’Paddy. – Abbiamo quaranta miglia da percorrere, però credo che l’Oregon resisterà.

– Ma non possiamo tentare alcuna manovra? – chiese Held.

– Nessuna, poichè non abbiamo nemmeno una vela.

– Un’idea, signore.

– Parlate.

– Non possiamo utilizzare i tappeti del quadro di poppa, le coperte delle cabine, le lenzuola...

– Fulmini!... E quest’idea non m’era ancora venuta! Aier-Raja, a me!... Grazie, signore!...

O’Paddy, il malese ed il siciliano scesero a precipizio nel quadro di poppa e poco dopo ritornarono carichi di coperte di lana, di tappeti e di lenzuola.

Si misero al lavoro senza perdere tempo, aiutati da Amely e dal signor Held.

Mancavano gli alberi, essendo stati abbattuti dall’equipaggio per costruire la zattera, ma vi erano ancora alcuni pennoni, un picco ed una boma della randa e funi in grande quantità.

In pochi minuti rizzarono tre alberetti, vi attaccarono i pennoni e tesero meglio che potevano le coperte più resistenti onde tenessero testa alle furiose raffiche.

Quando tutto fu pronto, O’Paddy salì sul cassero, afferrò la ruota del timone e vi diede mezzo giro, gridando:

– La prua all’ovest!... Attenti alla manovra!...

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