< I naufragatori dell'Oregon
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7. L'agonia dell'Oregon 9. I pirati


CAPITOLO VIII.

Il naufragio.


L’Oregon sotto la spinta delle raffiche che urtavano con violenza contro quelle diverse vele, parve che si rialzasse e che si raddrizzasse. Rimase qualche minuto fermo, lasciandosi dondolare dai marosi, poi balzò sui flutti e si mise a veleggiare verso quella costa, che appariva sulla fosca linea dell’orizzonte.

Non rollava più disordinatamente come prima affondando pesantemente negli abissi mobili come un corpo morto, ed imprimendo all’acqua racchiusa nella camera delle macchine quegli urti violenti che minacciavano di sfondare le ultime paratie stagne. Quelle vele, quantunque poche, relativamente alla sua massa, davano alla nave una certa stabilità.

O’Paddy, ritto dietro la ruota del timone, la dirigeva con mano sicura, cercando di farle evitare le ondate più grosse, che potevano inclinarla sul fianco squarciato.

Quell’uomo, quantunque fosse un birbante della peggiore specie, doveva essere un lupo di mare dei più valenti e dei più intrepidi, un marinaio nel più ampio senso della parola, deciso a tutto e pronto a tutto.

Il malese non si staccava dal suo fianco, pronto a surrogarlo o ad aiutarlo. Quell’individuo dalla pelle olivastra non pareva però gran che soddisfatto di quella manovra che doveva salvarli tutti poichè i suoi occhi neri, che avevano dei riflessi strani, quasi giallastri, tradivano una viva inquietudine.

– Padrone – disse ad un tratto. – Ma volete proprio condurre l’Oregon alla costa?

– Sì, malese mio.

– Non vi comprendo più.

– E perchè, furfante?...

– Non sarebbe stato meglio che costoro si fossero tutti annegati?...

– E come?...

– Lasciandoli imbarcare sulla zattera.

– Sei certo tu che la zattera sia andata a picco?

– Con quel mare!...

– Possono aver incontrata una nave, possono essere stati spinti verso Tawi-Tawi ed allora?... Se io li avessi lasciati imbarcare, chi mi avrebbe poi assicurato che si sarebbero annegati e che il mare avrebbe inghiottito i documenti?... No, malese mio, ho preferito tenerli presso di me, per privarli più tardi di quelle famose carte. Credi tu che quel dannato olandese m’avrebbe consegnate le rimanenti 900.000 lire, senza prima essere sicuro del fatto suo?...

– È vero, padrone.

– Bell’affare se un bel giorno avessi veduto comparire quell’Held ed i suoi protetti sani e salvi!...

– Ma cosa avete intenzione di fare?

Un sorriso sinistro sfiorò le labbra dell’irlandese.

– Il Borneo è una terra selvaggia – diss’egli – e laggiù abbiamo delle conoscenze, è vero, Aier-Raja?

– Sì, dei bravi pirati...

– Della costa orientale, è vero?... Il tempo farà tutto ed i documenti cadranno fra le mie ugne, malese mio. Ah!... se sapessi in qual punto della costa approderemo!... Ma spero che il Tanandurian o il Siga non siano lontani.

– E nemmeno la baia di Kurian...

– O di Papan-Durian. Eh!... marinaio!... Bada alla vela di trinchetto!...

Il vento, che cresceva di violenza, minacciava di abbattere non solo la vela di trinchetto, ma anche le altre, le quali già cominciavano a lacerarsi.

Il siciliano, Held, Amely e perfino il giovane Dik si affacendavano attorno agli alberelli rinforzandoli con nuove funi, ma le onde che irrompevano sempre in coperta, correndo da prua a poppa, rendevano non solo malagevoli, ma anche pericolosi quei lavori. Già Dik per poco non era stato portato fuori dal bordo, da una montagna d’acqua che si era sfasciata sul castello di prua.

Fortunatamente la costa diventava di minuto in minuto più distinta e quella lotta contro gli scatenati elementi doveva durare poco, forse qualche ora.

Delle macchie oscure apparivano su quella linea cupa, irregolare, che si estendeva dal nord al sud ed il marinaio, che aveva la vista lunga, assicurava che erano foreste.

Quale punto della costa bornese era quello?... Ospitale o selvaggio o abitato da quei formidabili pirati che si sono acquistati una così tremenda celebrità, in gran parte della Malesia e soprattutto sul mare di Celebes?... Held, che aveva già visitate parecchie regioni di quella vasta isola, aguzzava gli sguardi e si chiedeva, con ansietà, dove sarebbero andati a naufragare.

Verso mezzodì, l'Oregon, che continuava a veleggiare, spinto anche dalle onde che venivano dall’est, era lontano dalla spiaggia un solo miglio.

Held, il marinaio, Amely e Dik si erano precipitati verso prua per meglio vederla.

Era una costa alta, coperta da grandi alberi che la burrasca torceva furiosamente, difesa da una lunga linea di scogliere, le cui punte

nerastre sorgevano fra la spuma. Le onde si sfasciavano con impeto irresistibile su quegli ostacoli, producendo delle contro-ondate spaventose.

– Andremo a urtare, signor Held? – chiese Amely con voce tremula.

– Sì, fanciulla mia, e temo che l’urto sia tremendo – rispose l’olandese.

– Resisterà, l’Oregon?

– Chi può dirlo?... Fortunatamente la spiaggia sarà vicina.

– Vedo che l’acqua è assai torbida laggiù – disse il soldato.

– Volete dire che vi sono dei bassifondi.

– Sì, signore.

– E che la nave s’incaglierà?...

– E senza sfracellarsi, almeno pel momento.

– Noi dunque potremo attendere che l’uragano cessi, prima d’intraprendere lo sbarco.

– Così spero.

– Ma dopo, dove andremo? – chiese Dik.

– Lo si vedrà – rispose Held. – Possibilmente cercheremo di guadagnare gli stabilimenti dei nostri compatriotti.

– Ma temo che siano lontani – disse il soldato – e poi ci lasceranno tranquilli gl’indigeni? Temo, signore, che ci attendano delle brutte avventure su quella terra.

– Sono cattivi i costieri del Borneo? – chiese Amely.

– Chi più o meno palesemente, esercitano tutti la pirateria – rispose Held. – Molte sono state le navi depredate da quei corsari e molti gli equipaggi massacrati. Cominciarono nel 1700 a dare addosso alle navi europee, uccidendo pel primo il capitano Padler; poi trucidarono l’equipaggio d’una nave inglese nella baia di Varauni; nel 1800 assalirono e sterminarono i marinai del capitano Panin; nel 1803 macellarono, per la seconda volta, i coloni inglesi di Balembangan, poi continuarono ad assalire vascelli nel 1806, nel 1810 e nel 1811 e ancora oggi, di quando in quando, quegli arditi schiumatori del mare lasciano i loro porti per assalire i navigli, non ostante la sorveglianza attiva degli incrociatori olandesi e inglesi.

– Corriamo adunque il pericolo di venire anche noi assaliti – disse Amely, rabbrividendo.

– Ci difenderemo, ragazza mia.

– V’è un cannone a bordo – disse il soldato. – Se sarà necessario, lo faremo tuonare contro quei pirati, signorina. Io so manovrarlo e... Oh!... Un urto?... Mi pare che l’Oregon abbia toccato!

Infatti lo steamer aveva provata una scossa, come se colla chiglia avesse toccato un ostacolo. Nella stiva si era udito un sordo rombo.

– Ehi!... Soldato! – urlò O’Paddy, che non aveva lasciato il timone. – Siamo già sugli scogli?...

Il siciliano si curvò sulla murata di prua e guardò le acque con profonda attenzione.

– Le onde sono azzurre – disse poi. – Se vi fosse un bassofondo sarebbero giallastre.

– Che abbiamo toccato l’estremità d’un’alta rupe subacquea?...

– Non scorgo nulla, capitano.

– Fulmini di Giove!... Mi rincrescerebbe che l’Oregon si spaccasse qui!... Apri gli occhi, marinaio, e segnalami le scogliere.

Lo steamer, spinto dalle onde, s’avanzava sempre verso la costa o per meglio dire contro quella lunga fila di rocce che appariva a fior d’acqua. Si rialzava pesantemente sotto i colpi di mare, ricadeva come corpo morto e tendeva a virare sul tribordo, malgrado gli sforzi di O’Paddy, il quale teneva sempre la ruota del timone.

Il mare muggiva rabbiosamente contro quegli ostacoli che si opponevano alla sua corsa disordinata. I marosi balzavano innanzi con impeto irresistibile, accavallandosi gli uni sugli altri, si frangevano con mille scroscii, con detonazioni paragonabili allo scoppio di vari pezzi d’artiglieria, rimbalzavano lanciando in aria immensi sprazzi di spuma e ritornavano all’assalto con maggior lena.

Held, Amely ed il piccolo Dik contemplavano con ansietà quelle onde ed attendevano, trepidanti, l’ultimo urto della nave. Per precauzione si erano passati attorno al corpo il salva-gente che il soldato aveva dato a loro, per poter rimanere a galla nel caso, molto probabile, che l’Oregon si sfasciasse e colasse a picco ai piedi delle scogliere.

– Tenetevi presso di me – disse l’olandese ad Amely ed a Dik.

– Lasciate a me la cura di salvare la signorina – disse il siciliano. – Nuoto come un pesce e le onde non mi fanno paura. Voi incaricatevi del ragazzo, che è più leggero.

– Grazie, bravo giovanotto.

– Vi raccomando di non lasciare la nave che all’ultimo momento. Se si fracassa, troveremo dei rottami ai quali potremo aggrapparci.

Un secondo urto, più violento del primo, fece tremare il vascello da prua a poppa.

Le scogliere non distavano che cento passi e pareva che le loro punte s’allungassero verso la nave, come se fossero ansiose di sventrarla.

– Vi è un passaggio attraverso alla scogliera? – chiese O’Paddy, con voce tuonante.

– No – rispose il soldato.

– Allora, attenti all’urto!...

– Siamo preparati.

– Saldi in gambe!...

Un terzo urto avvenne. L’Oregon aveva toccato un fondo che non si poteva scorgere e che si estendeva dinanzi alle scogliere, ma le onde lo avevano ancora sollevato, spingendolo più innanzi.

– Signor Held! – esclamò Amely, impallidendo.

– Non temere – rispose l’olandese.

– Sono presso di voi – disse il soldato, lanciandosi verso la giovinetta. – Aggrappatevi alla murata e non abbandonatela.

– Dik!... – gridò l’olandese.

– Non ho paura – riprese il ragazzo, con voce risoluta.

– Saldi in gambe!... – urlò O’Paddy. – Tuoni!...

L’Oregon veniva spinto contro gli scogli. Le onde balzavano a bordo con rabbia estrema, correndo da poppa a prua ed irrompevano con cupi muggiti attraverso alla squarciatura, urtando impetuosamente contro i già malfermi scompartimenti stagni.

Il fracasso che produceva la risacca era tale, che non si potevano più udire i comandi di O’Paddy. Erano detonazioni, erano boati, sibili, urla, crepitìi, fragori impossibili a descriversi.

La nave, semi-rovesciata sul fianco ferito, pareva che da un istante all’altro dovesse scomparire fra quei flutti irati e celarsi sotto quell’immenso lenzuolo di spuma.

Ad un tratto un’onda, una vera montagna di acqua, la sollevò. Si mantenne alcuni istanti in equilibrio sulla cima di quel gigantesco cavallone, poi ricadde violentemente fra le scogliere.

Si udì un formidabile scroscio che si ripercosse, come lo scoppio di cento granate, nelle tenebrose cavità dell’immensa stiva. Il vascello scricchiolò da prua a poppa, si risollevò un’ultima volta sotto l’assalto d’una seconda montagna di acqua, poi ricadde con tale impeto, da atterrare violentemente tutte le persone che lo montavano.

Gli alberetti, dopo una brusca oscillazione innanzi ed indietro, precipitarono sul ponte con grande fracasso, trascinando con loro i pennoni e le vele.

Successe un istante di calma e di silenzio; perfino le onde, come se fossero soddisfatte della loro vittoria, tacquero. Poi ricominciarono i muggiti, gli scrosci ed i boati, e la nave, rotolata attraverso alle scogliere, si rovesciò impetuosamente sul fianco squarciato, sfondandosi per un lungo tratto ed addossandosi ad un’alta rupe che usciva dalle acque.

Quasi subito si udì O’Paddy, che diceva con voce beffarda:

– L’Oregon è liquidato!... Possiamo recitargli il De profundis!

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