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CAPITOLO IX.
I Pirati.
L’Oregon era proprio liquidato, come aveva detto l’irlandese. Già semi-sventrato dalla tremenda speronata del Wangenep, ed ora sdruscito, fracassato dalle acute punte delle scogliere, non era più in grado di riprendere il mare non solo, ma nemmeno di subire delle riparazioni in un cantiere.
Era un rottame destinato a terminare i suoi giorni su quei bassifondi ed a venire demolito, brano a brano, dalle onde tempestose. O’Paddy poteva ben essere soddisfatto della sua triste opera.
Risollevatisi dopo quel fiero urto, il soldato, Held ed i due giovani ereditieri si erano lanciati verso la murata di tribordo per rendersi conto della situazione, mentre O’Paddy ed il malese cercavano d’arrampicarsi sulla grande rupe, per meglio scorgere la costa.
Bastò un solo sguardo per convincere i naufraghi che l’Oregon, almeno pel momento, non correva pericolo alcuno. Incassato fra le scogliere, solidamente trattenuto dalle punte rocciose che gli erano entrate nella carena, non subiva più alcuna scossa, nè dalle onde poteva venire levato di là.
Essendo però assai inclinato sul babordo, i marosi salivano facilmente sul ponte, e taluni lo attraversavano con grande violenza, minacciando di spazzar via i naufraghi.
– Rifugiamoci sul cassero – disse il siciliano. – Se rimaniamo qui, qualcuno può venire trascinato fuori dal bordo.
Prese in braccio il giovane Dik, quantunque questi protestasse assicurando di non temere i colpi di mare ed approfittando del momento in cui le onde si rompevano contro gli scogli, attraversò la tolda e salì sul cassero che è situato a poppa. Held ed Amely, tenendosi per mano per non venire sorpresi da quei furiosi torrenti d’acqua, lo seguirono correndo.
Intanto O’Paddy ed il malese, aiutandosi l’un l’altro, erano riusciti a raggiungere la cima della grande rupe, la quale ergevasi per oltre quaranta metri. I loro sguardi si fissarono sulla costa che era lontana appena un mezzo chilometro.
Erano naufragati dinanzi ad una profonda insenatura, ad una specie di baia, ma che poteva anche essere la foce di qualche fiume. Grandi alberi, dei mangli, dei durion e delle arenghe saccarifere, si estendevano sulle alte sponde della baia, ma così uniti gli uni agli altri, da impedire di spingere gli sguardi entro terra.
– Conosci questa spiaggia? – chiese O’Paddy al malese.
– Interrogo la mia memoria, padrone. Si direbbe che questa baia l’ho visitata altre volte.
– Quando?
– Quando corseggiavo il mare. Che sia quella del rajah di Tongarran o... quella del... rajah di Semmeridan?...
– L’uno vale l’altro?...
– Se il bornese è ladrone, il bughiso non lo è meno.
– Pirati entrambi, adunque?
– E dei più formidabili.
– Possono servire ai miei progetti.
– A quali?
– A suo tempo lo saprai. Chi è il bughiso?
– Il rajah di Semmeridam.
– Lo preferisco al bornese: deve essere più avido.
– Ed è anche più potente e poi ho molte conoscenze e dei parenti laggiù.
– Scendiamo.
– Un momento, padrone: io ho veduto ancora quell’isola che sorge laggiù.
– Che sia quella di Maratua?
– No, padrone, quella è ben più grande... sì..., padrone... io conosco questa baia!... Guardate: non scorgete, lontano assai, quei monti che sono appena visibili?
– Sì, scorgo come una nebbia grigio-scura verso l’ovest.
– Sono i monti Kani-Ungang e questa baia è quella di Papan-Durian.
– Nella quale sbocca il Tanandurian?
– Sì, padrone.
– Allora non dobbiamo essere lontani da Lanton.
– Quel villaggio deve essere laggiù, verso il sud.
– Non bisogna che i nostri compagni lo sappiano o guasterebbero i miei piani.
Lasciarono la rupe, e calatisi sul ponte della nave, raggiunsero i compagni, i quali li attendevano fra vive ansie.
– Avete scorto nulla, signore? – chiese Held a O’Paddy.
– So dove siamo naufragati – rispose questi.
– Su una costa selvaggia?
– E delle più pericolose, signore.
– Da chi è abitata?
– Dai pirati della sultanìa di Semmeridan.
Il signor Held impallidì, gettando uno sguardo d’angoscia su Amely e su Dik.
– Credete che non vi sia alcun mezzo per raggiungere i possedimenti olandesi?
– Sono lontani, signore, e nè io, nè voi saremo capaci di attraversare questa immensa isola; però...
– Continuate, vi prego.
– Si potrebbe tentare di guadagnare Semmeridan.
– Cos’è questo Semmeridan?
– È la capitale del rajah di Koti.
– Ma m’avete detto che gli abitanti di Koti sono pirati?
– È vero, signor Held, ma se il rajah permette ai suoi sudditi di pirateggiare, quando a loro si presenta l’occasione, non molesta gli stranieri che giungono nella sua capitale. Con qualche regalo
potremo ottenere da lui un piccolo veliero e raggiungere i possedimenti dei vostri compatrioti e fors’anche Timor.
– E non possiamo noi costruire una scialuppa coi rottami dell'Oregon, e tentare, costeggiando, di giungere ai possedimenti olandesi? – chiese il marinaio.
– Perderemo un tempo lunghissimo e poi ci lascierà tranquilli il mare? – disse O’Paddy. – Senza contare poi che i pirati potrebbero darci addosso e farci prigionieri o massacrarci.
– È lontana questa Semmeridam? – chiese Amely.
– Duecento miglia, signorina.
– Una marcia lunghissima.
– Ma che, sorella mia, una passeggiata! – disse Dik.
– Ha fegato il piccino! – mormorò O’Paddy, aggrottando la fronte.
– Ed è lontana dal mare? – chiese Held.
– Venti leghe dalla foce del Koti – rispose l’irlandese.
– Ma come sbarcheremo?
– Costruiremo una zattera, o cercheremo di accomodare la grande scialuppa. Aier-Raja è un abile carpentiere.
– Attenderemo che il mare si tranquillizzi?
– Sì, signor Held. Con queste onde, uno sbarco sarebbe pericoloso. Il vento mi pare che si calmi e domani spero che anche la risacca sarà meno forte. Se credete, andremo a cercare qualche cosa da porre sotto i denti: sono ventiquattro ore che non rosico un biscotto.
– Troveremo ancora delle provviste nel quadro di poppa – disse il soldato. –Vieni, malese: conosco la nave.
Il siciliano ed Aier-Raja si diressero verso poppa e scesero nel quadro rovistando le cabine degli ufficiali. Poco dopo ritornarono recando dei biscotti, delle scatole di conserve alimentari ed alcune bottiglie di vecchio vino di Spagna che avevano trovate nella cabina del capitano.
Tutti fecero onore al pasto, malgrado le onde assalissero sempre il vascello, riversandosi in coperta. O’Paddy specialmente, che pareva di molto buon umore, divorò come un vero marinaio e bevette per quattro.
Verso il tramonto il vento, che già da qualche ora non soffiava che ad intervalli, scemò del tutto e anche le onde cominciarono ad abbassarsi sensibilmente.
Nessuno però osò ripararsi nelle cabine per riposare. Si accomodarono alla meglio sul ponte, su dei materassi che avevano presi dai lettucci del quadro, sotto la guardia del malese prima e del siciliano poi.
Quantunque il vascello si fosse solidamente arenato ed appoggiato alla grande rupe, poteva spaccarsi sotto i violenti ed incessanti assalti della risacca.
All’alba uno splendido sole s’alzava sull’orizzonte, facendo scintillare il mare come fosse cosparso di pagliuzze d’oro. Le onde si erano spianate ed il vento furioso dell’est si era tramutato in una fresca brezza che soffiava dall’ovest, carica dei profumi delle grandi foreste del Borneo.
– In piedi!... – tuonò O’Paddy, che aveva fatto l’ultimo quarto di guardia. – Ecco una giornata propizia per approdare!
– C’imbarchiamo? – chiese Held.
– Sì, signore.
– Su di una zattera?
– Sul gran canotto.
– È stato accomodato?
– Aier-Raja non ha perduto il suo tempo durante il quarto di guardia, ed ha rimessa la tavola che mancava.
– Non cederà? La risacca è ancora un po’ forte.
– Il mio malese è un abile carpentiere, ve lo dissi già.
– Vado a cercare delle armi e delle munizioni – disse il marinaio. – So dove trovarle.
– E dei viveri, se ne restano ancora – disse O’Paddy.
Il siciliano discese nel quadro e poco dopo ritornava accompagnato dal malese. Recavano cinque carabine, alcune asce e provviste di polvere e di palle, nonchè parecchie scatole di conserve alimentari, del cioccolatto e dieci o dodici chilogrammi di biscotti.
– Avremo da vivere una settimana – disse il soldato. – Poi penserà la foresta a provvederci.
– Al gran canotto!... – gridò O’Paddy.
Stavano per recarsi a poppa onde calare l’imbarcazione che era sospesa alle grue, quando l’irlandese s’arrestò bruscamente, emettendo una sorda esclamazione.
– Fulmini di Giove!... – mormorò. – Cosa vogliono quei curiosi?... Verranno a guastare ora le uova del mio paniere?... Decisamente sono nato sotto una cattiva stella!...
– Un veliero!... – gridò in quell’istante il soldato.
– Sì, ma che starebbe meglio sott’acqua che fuori – disse O’Paddy, aggrottando la fronte.
– Dov’è?... – chiesero Held, Amely e Dik.
– Eccolo laggiù che esce da quella baia – rispose l’irlandese, con sorda rabbia. – Che il mare inghiotta quell’avvoltoio!... Vieni, malese: voglio osservarlo meglio.
Si slanciò giù dal cassero e s’arrampicò sulla grande rupe, dalla cui cima poteva dominare tutta la baia e fissò i suoi sguardi su quel veliero, il quale s’avvicinava lentamente, con diffidenza. Quel legno era un praho della portata di cinquanta o sessanta tonnellate, completamente attrezzato ed anche armato. Questi velieri, adoperati dai malesi e da tutti i naviganti del vasto arcipelago della Sonda e sopratutto dai pirati, sono lunghi, stretti, colla carena slanciata, collo scafo basso e colla prora meno elevata che la poppa.
Portano delle vele immense, lunghe perfino quaranta metri, di forma oblunga, formate di sottili bambù intrecciati con fibre di rotang oppure di cotone cucito a strisce bianche, ma con dei pezzi dipinti in rosso. La vela maestra è più grande, quella di trinchetto è più piccola e più maneggevole. Talvolta portano anche i flocchi, ma per lo più li usano i giong, che sono prahos più grossi.
Singolari sono gli alberi di questi legni. Sono formati da grossi bambù disposti a triangolo, un lato dei quali viene formato dalla coperta del praho e le loro manovre fisse o correnti sono di fibre di rotang o di gamuti intrecciate, ma così resistenti da sfidare le più solide funi.
Avendo uno sviluppo di vele immenso, per non correre il pericolo che una raffica improvvisa li rovesci, sono muniti, dal lato di sottovento, d’un bilanciere formato da larghe tavole e sopravvento d’un sostegno ove collocano la zavorra per meglio equilibrare il legno. Sono senza dubbio i migliori velieri che si conoscano, poichè con un buon vento possono gareggiare perfino coi battelli a vapore.
Il praho, che usciva dalla baia, non aveva l’apparenza di un pacifico legno mercantile, poichè sebbene avesse il casotto di bambù, l’attap, come viene chiamato dai malesi, destinato a ricoverare le merci, portava due piccoli cannoni che dovevano lanciare palle d’una libbra ed un equipaggio troppo numeroso. Si vedevano sul ponte quindici o venti uomini seminudi, armati di moschettoni e di quelle pesanti sciabole, d’un acciaio finissimo che lascia scorgere le vene del metallo, d’una tempra superiore alle famose lame di Toledo e di Damasco, chiamate parangs.
Erano tutti di statura superiore alla media, di taglia svelta, colla pelle bruna che aveva dei riflessi rossastri con certe sfumature giallastre, il viso ovale, il naso schiacciato e largo, gli occhi leggermente obbliqui, la capigliatura ruvida ed increspata. Manovravano in silenzio e pareva che volessero avvicinarsi al vascello senza farsi scorgere e senza dare l’allarme innanzi tempo.
– Hum! Che odore d’avvoltoio – disse O’Paddy, con voce sorda. – Anche questi dovevano capitarmi fra i piedi! Cosa dici, malese mio?...
– Che abbiamo da fare con un praho di pirati.
– Mi sembrano Bughisi.
– È vero, padrone.
– Che siano quelli di Semmeridan?...
– Lo sospetto, ma potrebbero essere dei pirati del rajah di Tongarran.
– Non sono migliori degli altri. Mi hai detto che hai conoscenze fra quei furfanti?...
– È vero, padrone, ma fra quelli di Semmeridan.
– Si potrebbe intenderci con loro?
– Lo credo, tanto più che non mirano ad impadronirsi di noi, ma del vascello, per poi saccheggiarlo.
– Si potrebbe lasciarlo a loro, ma ad una condizione.
– Quale?...
– Mi hanno detto che il rajah di Semmeridan e quello di Tongarran vanno d’accordo.
– Sono parenti, padrone, avendo il primo sposato la figlia del secondo.
– Che bell’affare da concludere! Se vi riesco, questi carissimi amici non lasceranno più il Borneo e fra me e Wan-Baer potremmo godere in pace la nostra eredità!
– Oh!
– Malese mio, comincio a credere che la mia cattiva stella voglia cambiarsi.
– Padrone!
– Che hai?...
– Ma... è lui, non m’inganno.
– Chi lui?
– Io conosco l’uomo che comanda il praho.
– Chi è?
– È Sunda-Matune.
– Ne so meno di prima.
– Un vecchio pirata di Lanton: abbiamo corseggiato insieme il mare per tre anni.
– Possiamo fidarci di lui?
– Lo spero.
– Non ci farà prigionieri se andiamo a trovarlo?
– Non possiamo riceverlo qui?
– Il signor Held e gli altri devono ignorare ciò che avrò da dire al vecchio pirata.
– Andiamo a trovarlo, padrone.
– Vieni, malese mio: il destino mi doveva finalmente una buona rivincita e dei milioni!