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Cap.I
CAPITOLO I.
Le belve umane.
Un urlo immenso, terribile, che sembra uscito dalle gole di cento fiere in furore, scoppia come un colpo di tuono nelle profondità della stiva, facendo fuggire precipitosamente le sule fuliginose ed i piccoli petrelli che si erano posati sui pennoni della nave.
A quell’urlo che pare annunci lo scatenarsi d’una bufera ben più tremenda di quelle che sconvolgono gli oceani, i marinai sparsi a prora ed a poppa interrompono la loro manovra e si guardano in viso con occhi atterriti.
Anche il capitano che passeggia sulla passerella si arresta bruscamente e un rapido pallore si diffonde sulla sua pelle bruciata dal sole dei tropici.
Un giovane marinaio che si trova sul castello di prora lascia andare la scotta della trinchettina e lancia un rapido sguardo sul mare.
— I pesci-cani sono giunti ancora! — esclama. — Un altro uomo da divorare!
— Ed è il decimo!
— Ehi, bosmano! Puoi far preparare un’altra amaca ed una palla di cannone. —
Un vecchio marinaio dalle spalle un po’ curve, col petto nudo e villoso come quello d’una scimmia ed il volto coperto di pelo fino quasi agli occhi, s’arrampica lestamente sulla murata, aggrappandosi alle sartie.
— Vedi, bosmano? — domanda il giovane marinaio che ha annunciata la presenza delle tigri del mare. — Hanno fiutato un altro morto! —
Tre enormi pesci-cani del genere dei charcharias, lunghi da cinque a sei metri, emergono le loro teste mostruose e mostrano i loro denti triangolari e frastagliati che guerniscono le loro immense bocche semi-circolari.
I loro occhi piccoli, quasi rotondi, coll’iride verde oscura e la pupilla azzurrognola, si fissano, con ardente bramosìa, sulla murata di babordo come se di là dovesse piombare fra le loro mascelle la preda lungamente agognata.
— Canaglie! — esclamò il vecchio minacciandoli col pugno. — Ne avete già inghiottiti dieci!
— E chissà quanti andranno a finire nel ventre di quei maledetti charcharias — disse il giovane marinaio che lo aveva raggiunto.
— Sì, se qualche cosa di peggio non ci finirà prima — brontolò il vecchio, coi denti stretti.
— Cosa vuoi dire, bosmano?
— Che la peste che serpeggia a bordo può diventare meno pericolosa della peste gialla che sta nel frapponte — rispose il vecchio. — Odi come urlano? Possono diventare peggiori delle belve feroci.
M’intendi, Frasquito?
— Tu credi? — chiese il giovane impallidendo.
— Che noi la finiremo male e che non sarà la peste che ci manderà a riposare nelle viscere di quei charcharias.
— Verremo presi fra due fuochi?
— Sì, fra la peste che uccide e quella gialla che ci farà in pezzi.
Un nuovo scoppio di urla più formidabili, più selvagge, più paurose, rimbombò nel ventre del vascello, facendo tremare perfino le tavole della tolda.
— Aria!... Aria!... — ruggivano tutte quelle voci, con accento ripiene di minaccia. — Si muore! —
Il capitano era disceso frettolosamente dal ponte di comando coi lineamenti contratti e la destra posata convulsivamente sul calcio della pistola che teneva nella cintura.
Il capitano Carvadho, comandante e proprietario della nave, era un vero gigante che sapeva, con un solo sguardo, far tremare l’intero equipaggio.
Era un vero orco di mare, ruvido, brutale, incapace di farsi amare, ma invece molto temere.
Aveva cinquant’anni, eppure quanta forza esisteva ancora in quel torso da ippopotamo, male squadrato e robusto come quello d’un gorilla!
Era uno di quegli uomini che si vantano di ammazzare un bove con un pugno e di atterrare, senza fatica, un toro.
Misurava quasi sei piedi. Aveva spalle da ercole, braccia che parevano tronchi d’albero, una testa massiccia, irta di capelli ancora neri, con una fronte bassa e rugosa, e due occhi che mandavano lampi da far paura.
Udendo quei clamori che crescevano rapidamente d’intensità, un’ondata di sangue gli era affluita al capo dando alla sua pelle arsa dal sole e dai venti, una tinta bronzea.
— Che cosa vogliono ancora quei cani? — urlò. — Vogliono della mitraglia? A bordo ne abbiamo in abbondanza. —
Il vecchio marinaio s’era fatto innanzi, mentre tutti gli altri si erano prudentemente tirati verso le murate, nulla prevedendo di buono dallo scoppio d’ira del gigante.
— Capitano, — disse il vecchio.
— Cosa vuoi, Ioaquim?
— I pesci-cani sono giunti.
— Che s’affoghino.
— Hanno fiutato un altro morto.
— Che se lo mangino.
— Bisognerà darglielo.
— Va’ a prendertelo.
— I chinesi sono furibondi e mi farebbero a pezzi.
— Avresti paura? — chiese il capitano.
Il vecchio marinaio era diventato pallido.
— Signore, — disse con tono fermo. — Sono vent’anni che mi hanno nominato bosmano ed ho fatto venti volte il giro del mondo.
— Per imparare ad aver paura d’un branco di chinesi — disse il capitano con accento beffardo.
— Sono quattrocento, signore.
— Basteranno due scariche di mitraglia per decimarli a dovere, — disse il comandante con un atroce sorriso.
— Se vi si permetterà un simile massacro, — disse una voce dietro di lui. — Pare che abbiate dimenticato che qui vi è un rappresentante del governo peruviano. —
Il gigante si era voltato colla rapidità d’una belva feroce, stringendo il calcio della pistola.
Un uomo che era uscito allora dal quadro di poppa, tenendo per mano un giovanotto di sedici o diciassette anni, si era accostato silenziosamente al capitano, pronunciando quelle parole che dovevano fare l’effetto d’un colpo di frusta sul brutale lupo di mare.
Era un bell’uomo di trent’anni, dall’aspetto distinto, vestito elegantemente di flanella bianca, con in testa uno di quegli ampi cappelli di Panama che anche nell’America centrale non si pagano meno di tre o quattrocento lire.
Era un vero tipo di quella bella razza ispano-americana che si fa ammirare in tutte le città della costa. Statura media, robusta ed insieme agile, occhi nerissimi, vellutati e tagliati a mandorla, capelli ricciuti e pure nerissimi coi riflessi delle ali dei corvi, pelle leggermente abbronzata, mani e piedi piccoli.
Il giovane che lo seguiva gli rassomigliava perfettamente. Era del pari bruno, molto robusto per la sua età, coi capelli lunghi che gli sfuggivano sotto il cappello di paglia arruffandosi sulle spalle, occhi splendidi, labbra un po’ carnose e rosse come ciliegie mature.
Come si disse, il gigante si era voltato coll’impeto d’una fiera che sta per scagliarsi sulla preda.
Vedendosi dinanzi quei due, entrambi calmi, tranquilli, fece una smorfia, poi disse:
— Che cosa volete voi, signor Cyrillo Ferreira? Pare che vi immischiate un po’ troppo nei miei affari.
— Vi diceva che v’è qualcuno che v’impedirà di commettere il massacro, — rispose il più anziano con voce ferma, — e che questo qualcuno è il commissario del governo del Perù.
— È vero, — disse il capitano con ironia. — M’ero dimenticato che il governo m’aveva appiccicato ai fianchi un commissario per sorvegliare il trasporto dei coolies.
Disgraziatamente per voi, il governo si è dimenticato di avvertirvi d’una cosa molto importante.
— E quale? — chiese il commissario diventando pallido.
— Che il suo potere non si estende fino in mezzo all’oceano Pacifico.
— E volete concludere signor Carvadho?
— Che a bordo della mia nave comando io solo, — rispose il gigante, incrociando le braccia con atto di sfida.
Il signor Cyrillo de Ferreira era rimasto muto, come stupito da quelle brutali parole.
— Signore, — disse poi facendosi innanzi. — Io rappresento qui il Perù.
Il capitano si volse verso i marinai i quali assistevano impassibili a quella scena e disse:
— Ammainate la bandiera peruviana e issate quella brasiliana che è la mia. —
Poi guardando fisso il signor de Ferreira, riprese:
— Ed ora signore, voi non siete più sotto la protezione della vostra bandiera e per me non rappresentate che un semplice intruso a bordo del mio Alcione.
Se alla prima terra che incontreremo vorrete sbarcare assieme a vostro fratello, siete padronissimo.
Vi avverto però che alla Nuova Zelanda vi sono dei selvaggi che hanno una vera passione per gli arrosti di carne umana. —
Il signor de Ferreira aveva alzata rapidamente una mano, pronto a schiaffeggiare il gigante, ma questi rapido come il lampo aveva alzata la pistola, dicendo:
— Se fate un passo vi uccido!
— Pirata! — urlò il peruviano.
— La mia pelle è più grossa di quella d’un elefante per sentire le offese, — disse il capitano alzando le spalle.
Il giovanotto in quel frattempo aveva afferrata strettamente la destra del fratello, dicendogli:
— Non esporre la tua vita contro questo negriero. Faremo rapporto al governo.
— Padronissimo di farlo, signor Ioao de Ferreira, — disse il capitano guardando il giovanotto. — Vedremo però se quel rapporto potrà giungere al Perù assieme a voi. —
Volse le spalle ai due fratelli e salì sul ponte di comando, gridando:
— Cannonieri, ai vostri pezzi! Doppia carica di mitraglia nei cannoni.
Orsù, issate il morto e gettatelo ai pesci-cani! —
Quattro marinai, fra i quali un malese, dopo una breve esitazione si erano accostati al boccaporto maestro, mentre un quinto faceva scendere da uno straglio una fune munita d’un solido gancio d’acciaio.
Nel frattempo i due pezzi di cannone situati uno sul cassero e l’altro sul castello di prora, erano stati puntati in modo da incrociare i loro fuochi verso il centro della nave, mentre i marinai si schieravano lungo le murate impugnando scuri, manovelle e ramponi. Il bosmano, il vecchio Francisco, si era accostato al boccaporto, dicendo ai quattro marinai:
— Che nessuno tocchi il morto, se non volete che la peste vi prenda.
— Ci terremo lontani da quella carogna, — disse un marinaio villoso al pari del bosmano. — Che la peste se la tengano i chinesi. —
Ad un cenno del bosmano il boccaporto fu fatto scorrere nelle sue scanalature e sotto apparve una robusta grata di legno, trattenuta da arpioni grossi due dita.
Urla terribili che finirono in un ruggito immenso, assordante, sfuggirono attraverso a quelle aperture, e cinquanta mani s’aggrapparono alle traverse di legno scuotendole furiosamente e cercando, ma invano, di schiantarle.
— Che bufera! — esclamò il bosmano. — Se tutti questi chinesi potessero salire in coperta per cinque minuti, di noi non rimarrebbe un pezzetto di carne grossa come un pacco di tabacco!
Al di sotto di quelle mani si vedevano apparire dei volti giallastri, spaventosamente alterati e si vedevano ondeggiare disordinatamente delle code.
Sguardi pregni d’odio si fissarono sul bosmano, mentre centinaia di voci rauche e stridenti urlavano su tutti i toni:
— Aria!... Aria!...
— Moriamo!
— Morte al pirata!
— Dateci la sua testa!
— Figli del demonio! Aprite o affondiamo la nave!
— Silenzio, pappagalli gialli! — gridò il bosmano.
— A morte! — vociferavano invece quelle centinaia di voci.
E le mani s’aggrappavano con maggior forza alle traverse della grata, scuotendole con crescente furore, mentre gli sguardi s’iniettavano di sangue.
Intorno a quei gruppi di dannati, a prora ed a poppa del frapponte, il baccano invece di scemare aumentava in modo spaventoso.
S’udivano clamori che più nulla avevano d’umano, ruggiti di belve furibonde, catene a sbattacchiare contro le pareti, poi dei colpi sordi come se delle travi percuotessero poderosamente i fianchi della grossa nave.
— Silenzio! — tuonò il bosmano. — Passate il morto o lo lasceremo imputridire fra voi!
Via le mani o ve le faccio tagliare colle scuri. —
Quella minaccia lungi dal calmare i chinesi rinchiusi nel frapponte come belve feroci, parve invece che aumentasse la loro rabbia.
Ad un tratto però una voce squillante come una tromba, s’alzò nel frapponte, dominando tutti quei clamori selvaggi:
— Largo alla morte!... —
Come per incanto le grida cessarono e le mani abbandonarono le traverse della grata.
— Sao-Kin ha parlato, — dissero cinquanta voci.
— Alzate le grate voi, — disse il bosmano.
Un marinaio cacciò il gancio di ferro in una traversa e aprì gli arpioni, mentre gli altri s’aggrappavano alla corda passata in un boscello.
La pesante grata fu issata da un lato ed una seconda corda pure armata d’un gancio, fu calata nel frapponte.
Un uomo apparve portando sulle spalle un corpo umano privo di moto, coi lineamenti contratti, gli occhi orrendamente spalancati e la bocca contorta e lorda d’una schiuma sanguigna.
Il petto nudo era coperto di macchie lucenti, un po’ rigonfie.
— Prendete, — disse l’uomo che lo aveva portato.
— Amico, — disse il bosmano, con un sorriso atroce. — Tu ti sei presa la peste portando questa carogna. Domani verremo a prendere la tua carcassa che i pesci-cani già aspettano.
— Purchè non prenda invece io la tua vecchia pelle — rispose il chinese con voce cupa.
— Ah! Tu sei Sao-Kin, il capo dei coolies! — esclamò il bosmano, mentre un brivido gli correva per le ossa. — Ohe! Issate!
Il gancio era stato passato nella cintura di grossa pelle che stringeva i fianchi del morto e questi era rimasto isolato, dondolando all’estremità della corda.
— Issa dunque! — gridò il bosmano, ritirandosi precipitosamente, per paura che il morto lo toccasse.
— Corpo d’una fregata! — esclamò un marinaio. — Come pesa questo morto! Si direbbe che ha del piombo nel ventre.
— È la paura che indebolisce le tue braccia, mio caro Nobre, — disse il bosmano, afferrando a sua volta la fune per aiutare i compagni.
— Attenti a chiudere la grata appena il morto toccherà il ponte. —
Con poche strappate i cinque marinai issarono il cadavere, quantunque a tutti fosse parso d’un peso straordinario.
— La grata! — gridò il mastro.
Il marinaio che abbiamo udito chiamare Nobre s’era slanciato per staccare il gancio e lasciarla cadere, quando i suoi compagni lo videro indietreggiare mandando un grido di terrore.
Col cadavere era salito anche l’uomo che lo aveva portato, Sao-Kin, il capo dei coolies.
Prima che i marinai stupiti, avessero pensato a ricacciarlo nel frapponte, il chinese aveva abbandonata la cintola del morto e con un rapido volteggio s’era slanciato sulla tolda.
Tutto l’equipaggio invece di gettarsi addosso al celestiale si era precipitosamente allontanato rifugiandosi a prora ed a poppa.
Anche il bosmano ed i suoi compagni erano fuggiti, dopo però d’aver lasciato cadere la grata per impedire ai chinesi rinchiusi nel frapponte di approfittare di quell’inaspettato avvenimento e rovesciarsi in coperta come una legione di demoni.
— Ha portato il morto! — aveva gridato il vecchio Francisco. — È appestato! —
In quel momento il cadavere, abbandonato a se stesso, era precipitato con sordo rumore sulla grata, ripiegato su se stesso.
Sao-King aveva guardato il suo disgraziato compagno con una lunga occhiata di commiserazione, poi approfittando del vuoto che gli si era fatto d’intorno, mosse alcuni passi verso il capitano che lo guardava con estrema ansietà, pallido come un cencio lavato.
— Ho da parlarvi — disse Sao-Kin.
— Non avvicinarti! — urlò il gigante con voce strozzata. — Tu porti la peste!
— Ho da parlarvi — ripetè il chinese con energia.
— Uccidetelo! — gridò il comandante mentre i capelli gli si rizzavano sulla fronte.
E siccome nessuno osava muoversi armò precipitosamente la pistola e la puntò sul chinese che continuava ad avanzarsi con un sorriso sprezzante sulle labbra.