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CAPITOLO XXIX.
I neo-caledoni
Il vento era un po’ diminuito e la pioggia era cessata, però il cielo si manteneva sempre coperto ed il mare ancora agitatissimo, anzi pareva che le onde fossero diventate più impetuose, perchè ora coprivano interamente le rizophore contorcendo furiosamente le cime più elevate dei rami.
Una pallida luce, d’aspetto tetro, cominciava a diffondersi pel cielo, tingendo le acque di riflessi color dell’acciaio brunito e rompendo le tenebre accumulate sotto i boschi.
La costa che Sao-King e Ioao percorrevano, non era più allegra del cielo.
Era una spiaggia sabbiosa, cosparsa di conchiglie e di alghe spinte colà dalle grandi maree e di cespugli intristiti. Ad una certa distanza però si vedevano boschi di niaulis e gruppi di melalenco, piante somiglianti ai nostri ulivi, col tronco contorto e biancastro e che sviluppa un’aria mortifera che riesce fatale alle altre piante perchè muoiono in breve tempo.
Anche dei pini marittimi apparivano più entro terra, ma invece non si vedevano nè i cocchi nè i banani, piante che non mancano nemmeno nella Nuova Caledonia e nelle isole vicine.
Si vedevano invece volteggiare in aria, travolti dal vento, immense bande di notù, specie di piccioni grossi quanto una gallina, colle penne color del bronzo e fuggire attraverso i cespugli bianchi di kagù, volatili grossi quanto un piccolo tacchino, colle zampe lunghissime, armate di robuste unghie e le penne bigie e rosse.
— È impossibile raggiungerli, — disse Sao-King, il quale pensava alla colazione. — Che siamo costretti a digiunare?
— Ci rifaremo a bordo del vascello, — rispose Ioao.
— Può essersi ancorato molto lontano e non so se il mio ventre potrà resistere tanto.
— Rivolgiamoci al mare; troveremo dei molluschi.
— Non fidatevi, signor Ioao. In questa stagione ve ne sono molti di velenosi. Se fossimo dei canaki potremmo accontentarci di alcune pallottole di pagute.
Ne vedo qui un mucchio abbandonato da qualche ragazzo.
Si curvò e raccolse da un paniere sfondato, e rovesciato forse dal vento, alcune pallottoline che parevan composte di creta, e che mostrò al giovane.
— Cosa sono? — chiese questi.
— Pallottole di creta che i canaki mangiano avidamente. Sono dolci, tenere e non hanno nulla di sgradevole.
Qualche ragazzo o qualche pescatore le avrà perdute. —
Sao-King non esagerava. Al pari degli ottomachi del Rio delle Amazzoni, dei giavanesi e d’altri popoli più o meno selvaggi, anche gli abitanti della Nuova Caledonia sono ghiotti di certa specie di creta, formata di un silicato di magnesia verdastra mescolato a micaschiti ed a steaschiti.
— Questa roba si mangia! — esclamò Ioao stupito.
— L’ho assaggiata anch’io e somiglia ad un dolce.
— E nutrisce?
— Hum! Ne dubito, signor Ioao.
— Allora lasciamo queste pallottole ai neo-caledoni e cerchiamo di meglio.
— Ho già trovato quello che fa per noi, — disse Sao-King, dirigendosi sollecitamente verso un gruppo di gigantesche kauris o pini colonnarii appartenenti alla famiglia dei dammaras e che lanciavano le loro cime a quaranta metri d’altezza.
Aveva veduto presso quelle piante certe specie di liane che strisciavano al suolo, aggrovigliandosi le une colle altre.
— Che cosa sono? — chiese Ioao, il quale lo aveva seguìto.
— Delle magnagne, — rispose Sao-King, — buone a mangiarsi.
Prese il coltello e scavò rapidamente la terra mettendo a nudo le radici di quelle piante, grosse come barbabietole.
Ve n’erano sette od otto e tutte molto polpose.
— Accenderemo il fuoco e le cucineremo sotto la cenere, — disse Sao-King. — Già per ora il vascello non lascerà l’ancoraggio. Signor Ioao, avete l’acciarino e l’esca?
— Sì e rinchiusi in una scatola impermeabile.
— Allora faremo una eccellente colazione. Guardate: c’è anche qui un rivoletto d’acqua dolce per dissetarci.
— E anche delle tartarughe! — esclamò Ioao. — Sao-King, tagliamo loro la ritirata prima che tornino al mare. —
Il chinese si era rialzato di colpo.
— Non bisogna lasciarle sfuggire! — gridò.
Una mezza dozzina di grosse testuggini marine, s’incamminava lentamente verso il mare, trascinando penosamente il loro enorme guscio.
Il chinese ed il giovane peruviano che avevano già altre volte gustata la carne veramente eccellente di quei rettili, si slanciarono di comune accordo verso la spiaggia, saltando attraverso le dune di sabbia.
Prima che potessero raggiungerle, otto si erano già lasciate portar via dalle onde, ma le altre quattro non ne avevano avuto il tempo.
Sao-King, servendosi d’un bastone che aveva raccolto presso i kauris, ne rovesciò due, lasciando andare le altre.
— Abbiamo perfino troppa carne, — disse.
Prese la più grossa, pesante una cinquantina di libbre e la portò presso la macchia.
— Cospettaccio! — esclamò. — Carne di tartaruga e magnagne! Una colazione da mandarini! —
Ioao aveva raccolta della legna secca e delle foglie ed era riuscito ad accendere un allegro fuoco, capace d’arrostire un’antilope intera.
— E come faremo a spaccare i gusci di questa testuggine? — chiese. — I nostri coltelli sono insufficienti.
— S’incaricherà il fuoco, — rispose il chinese.
— La cucineremo nel suo guscio?
— Sì, signor Ioao e la carne non perderà nulla della sua squisitezza. —
Quando una parte dei rami furono consumati, mise le radici sotto la cenere, poi preparato uno strato di brace vi mise sopra la povera testuggine, rovesciandola sul dorso.
Pochi minuti dopo il rettile, cucinato vivo entro la sua prigione ossea, aveva cessato d’agitare le sue gambe e per l’aria si espandeva un profumo così squisito da far andare in visibilio il chinese.
Dopo mezz’ora il cuoco improvvisato ritirava l’arrosto e con pochi colpi di coltello spaccava il guscio già in parte carbonizzato, mettendo allo scoperto una polpa tenera che friggeva ancora nel grasso.
Ioao intanto aveva tolte le radici, levando la corteccia che le avvolgeva.
— A tavola, signore, — disse Sao-King, allegramente.
Avevano mangiati pochi bocconi gustando assai quella tenera carne e la polpa dolce e farinosa delle magnagne, quando un oggetto non ben distinto passò fischiando sopra le loro teste piantandosi, con sordo rumore, nel tronco di un kauri.
Sao-King si era alzato col coltello in pugno, guardando verso l’albero.
— Una scure! — esclamò. — I selvaggi! —
Un tomahawak, ossia un’azza da guerra, colla lama di selce, era stato scagliato contro di loro, colpendo invece il tronco del kauri e rimanendovi profondamente infitto.
Quell’arma micidialissima, non poteva già essere caduta dal cielo, così la pensava Sao-King.
— Signor Ioao, — disse. — Raccomandiamoci alle nostre gambe.
— E la nostra colazione? —
Sao-King stava per precipitarsi verso l’arrosto, quando alcuni selvaggi si slanciarono fuori da una macchia di niaulis, urlando a piena gola.
Erano una diecina, tutti di alta statura e di forme erculee, colla pelle nera al pari di quella degli africani, quasi nudi e armati di scuri e di bastoni colla punta formata da lunghe spine di pesce.
— Sono canaki, — disse Sao-King. — Se vi preme la pelle, seguitemi. —
Voler lottare contro quegli uomini dotati d’una robustezza eccezionale e probabilmente valorosi, sarebbe stata una pazzia, non avendo poi armi da fuoco per spaventarli.
Il chinese ed il giovane peruviano si raccomandarono perciò alle loro gambe, slanciandosi verso le dune.
I selvaggi vedendoli fuggire, si erano pure messi a correre, ma giunti presso i kauris non seppero resistere alla tentazione di dare un colpo di dente a quella appetitosa colazione.
Quella sosta, quantunque breve, fu messa a profitto dal chinese e da Ioao. Raddoppiando la corsa, in breve riuscirono a guadagnare tre o quattrocento metri, mettendosi in salvo sull’opposta riva d’un piccolo fiume.
— Nascondiamoci, — disse Ioao, ansante.
— Non vi sono che dei gruppi d’alberi, — rispose Sao-King. — Continuiamo invece la corsa, signor Ioao. Forse il vascello non è lontano. —
I selvaggi, divorata ingordamente la colazione, si erano rimessi in caccia. L’arrosto doveva aver stuzzicato in loro l’appetito e ne desideravano ora un altro di carne bianca o gialla.
Nondimeno non s’affrettavano troppo nell’inseguimento. Certi ormai di prendere presto o tardi i due fuggiaschi, si accontentavano pel momento di non perderli di vista.
Forse non osavano stringerli troppo, temendo di ricevere qualche scarica di fucile, armi che li spaventano assai.
Il chinese e Ioao, non avevano rallentata la loro corsa. La spiaggia era diventata migliore al di là del fiumicello, non essendovi più dune sabbiose, ma solamente ammassi d’alghe e pochi cespugli.
Vedendo a circa un chilometro rizzarsi un cumulo di rocce tagliate a picco sul mare, risolsero di raggiungerle al più presto, certi di poter meglio resistere lassù che su quel lido sabbioso e senza ripari.
Li guidava inoltre verso quel luogo la speranza di poter scoprire, da quell’altura, il vascello.
I selvaggi quasi si fossero accorti dei loro progetti, avevano pure raddoppiata la corsa urlando e minacciando colle loro scuri di pietra e colle loro lance.
Essendo agilissimi quantunque di corporatura tutt’altro che magra, se non guadagnavano terreno nemmeno ne perdevano.
Sao-King vedendo che non si decidevano a lasciarli in pace, incoraggiava incessantemente Ioao.
— Presto, signore, — diceva con voce rantolosa. — Se vi arrestate non sfuggiremo allo spiedo perchè quei selvaggi sono antropofagi.
Il giovane peruviano faceva sforzi sovrumani, ma indebolito dalla traversata della sera e anche molto meno resistente del chinese, si sentiva esausto e non manteneva la distanza che con grande fatica.
— Sao-King, un solo momento di sosta, — disse, quando giunsero alla base di quel gigantesco cumulo di rocce. — Non ne posso più e mi pare che il cuore mi si spezzi.
— È impossibile, i selvaggi cominciano a guadagnare, — rispose il chinese. — Vi riposerete quando saremo giunti sulla cima.
Su, animo! —
Con uno sforzo disperato s’aggrapparono alle rupi e si misero a salire, mentre i canaki, quantunque lontani ancora più di cento metri, si provavano a lanciare le loro scuri di pietra, con esito negativo.
Il chinese aiutava validamente il giovane, anzi si può dire che lo trascinava, afferrandolo ora per un braccio ed ora per l’altro.
Finalmente con un ultimo slancio giunse sulla cima delle rocce.
Un grido gli sfuggì subito dalle labbra.
— Il vascello! —
Dietro a quelle rocce che formavano una specie di promontorio, la costa s’incavava profondamente descrivendo una piccola baia e nel mezzo si era ancorata la grossa nave che avevano incontrata nei paraggi dell’estrema punta della Nuova Caledonia.
Sao-King non si era ingannato. Era un gran vascello da guerra, un treponti, armato di numerosi cannoni, le cui nere gole sporgevano dai babordi.
Un nastro rosso, lunghissimo, sventolava sulla cima dell’albero maestro mentre sul picco della randa si svolgeva una bandiera dai colori olandesi.
— Ohe! Uomini della nave! — urlò Sao-King, con voce tuonante. — Aiuto! I selvaggi! —
Alcuni marinai si trovavano in quel momento aggruppati sul castello di prora, intenti ad imbrogliare i flocchi.
Vedendo quell’uomo agitare pazzamente le braccia e udendolo urlare a piena gola, diedero prontamente l’allarmi facendo accorrere l’ufficiale di quarto e parecchi loro camerati.
— A noi! I canaki! — ripetè Sao-King, in inglese.
Fu compreso? È probabile perchè sulla tolda della nave si videro parecchi uomini precipitarsi verso le grue di cappone dove si trovava una baleniera, mentre altri correvano a poppa dove si vedevano due grossi cannoni da caccia, posti in batteria, colle bocche verso la spiaggia.
L’ufficiale intanto aveva imboccato il portavoce, gridando:
— Chi siete?
— Naufraghi! — rispose Sao-King.
— Pazientate un minuto.
— I canaki ci sono alle spalle!
L’ufficiale fece un gesto agli uomini che si erano piazzati dietro ai cannoni.
In quel momento i selvaggi erano giunti sulla cima. Senza accorgersi della presenza della nave, si erano scagliati addosso ai due disgraziati colle scuri alzate e le lance in resta, pronti a trucidarli.
Un istante ancora e Sao-King ed il valoroso giovane erano perduti.
Ad un tratto due detonazioni assordanti rimbombano a bordo della nave.
I selvaggi udendo quel rombo si arrestano spaventati, poi si precipitano giù dalla rupe urlando come se avessero ricevuta una scarica di mitraglia.
La scialuppa intanto aveva preso il largo e muoveva velocemente verso la spiaggia. Era montata da otto marinai, da dieci fucilieri e da un quartier-mastro.
Vedendo i selvaggi a fuggire, i fucilieri fecero una scarica per levare a loro la voglia di ritentare l’assalto, poi la baleniera con un’ultima spinta si arenò alla base della rupe.
Sao-King aveva preso fra le braccia Ioao impotente ormai a tenersi in piedi e scendeva con precauzione il promontorio.
Il quartier-mastro ed alcuni marinai gli mossero incontro per aiutarlo.
— Signore, — disse il chinese in lingua inglese, — abbiate i ringraziamenti del signor Ioao de Ferreira e anche i miei pel vostro pronto soccorso.
— Chi siete voi e da dove venite? — chiese il quartier-mastro, stupito.
— Lo diremo al vostro comandante a cui dobbiamo fare delle urgenti rivelazioni, — rispose Ioao, il quale ricominciava a riaversi.
— Voi siete un bianco! — esclamò il marinaio.
— Un peruviano, signore.
— Un naufrago?
— Sì, ma volontario, — rispose Ioao, con un sorriso.
— Venite signore; il comandante sarà ben lieto di vedervi e di ricevervi a bordo della Groninga. —