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CAPITOLO VII.
L’avvelenatore.
Quando risalì in coperta, i marinai avevano messa in acqua la scialuppa, il gran canotto e la jola senza far rumore, onde non attirare l’attenzione dei chinesi vigilanti dietro le barricate.
I viveri erano stati già collocati sotto le panche e anche le munizioni erano state calate.
Non rimaneva che imbarcarsi.
Prima di lasciare la nave, il capitano si spinse verso l’orlo del castello per vedere se i chinesi s’avanzavano.
La coperta, fino all’albero maestro, era sgombra. Solamente sulle due barricate si vedevano confusamente alcune ombre a muoversi.
— Buona fortuna a tutti! — mormorò con un sorriso sinistro. — E soprattutto, bevete abbondantemente il mio aguardiente.
Tornò verso i suoi uomini e diede loro il comando di scendere alle scialuppe, dandone pel primo l’esempio.
Mentre i marinai vi prendevano posto, l’ufficiale aveva rimosse le casse per aiutare il commissario il quale si era assopito a fianco del suo giovane fratello.
— Signor Ioao, — disse, scuotendolo.
Il quel momento s’udì il capitano a chiamare ripetutamente:
— Signor Vargas! Signor Vargas!... —
L’ufficiale si era curvato sulla murata, mentre Ioao aiutava il ferito ad alzarsi.
— Cosa volete, capitano — chiese.
— Affrettatevi a scendere.
— Devo aiutare il commissario. —
Un riso sinistro gli giunse agli orecchi.
— Che quelle mignatte rimangano a bordo, — disse il capitano. — Ne ho avuto abbastanza di loro.
L’ufficiale aveva fatto un gesto di furore.
— Avete dimenticato che vi sono i chinesi a bordo? — chiese con ira.
— Che se la sbrighino essi coi coolies.
— Signore, voi non commetterete mai una simile infamia!
— Scendete o faccio tagliare le funi.
— Non scenderò che col commissario e con suo fratello.
— Stupido! Che il diavolo vi porti! — gridò il capitano furioso. — Per l’ultima volta scendete.
— No, signore. Io non commetterò mai una simile vigliaccheria.
— Allora buona notte! Tagliate le gomene!
Il signor Vargas aveva mandato un urlo di rabbia e si era slanciato verso un moschetto stato abbandonato sul castello.
— Pirata! — gridò. — Ti uccido! —
Un lampo ruppe le tenebre, seguìto da uno sparo e da un grido di dolore.
— Ti ho colto, avvelenatore! — urlò l’argentino.
Uno scoppio di risa s’alzò fra le tenebre.
— Buona notte, signor Vargas! — gridò una voce ironica.
Era quella del capitano Carvadho.
A quello sparo le sentinelle chinesi che vegliavano sulle barricate, erano balzate in piedi, gridando:
— All’armi! Gli uomini bianchi! —
Il commissario intanto, aiutato da Ioao, era riuscito ad alzarsi e s’era aggrappato alla murata.
— Che cosa succede signor Vargas? – chiese.
— I vili ci hanno abbandonati.
— Chi?... I marinai! – esclamò il signor de Ferreira con doloroso stupore.
— Ed anche il capitano.
— Miserabili!
— E l’ho mancato! L’avessi almeno ucciso!
— Sicchè siamo soli?
— Soli, signore, e contro tutti i chinesi.
— E voi non li avete seguìti?
— Mi sono rifiutato di abbandonarvi, signore. Non ho voluto rendermi complice d’una simile vigliaccheria.
— E non avete pensato che i chinesi vogliono il nostro sangue?
— Forse Sao-King non si prenderà la nostra pelle.
— Almeno la tua — disse Ioao. — Io mi rammento che quando Un turbine d’acqua si rovesciò sulla nava subissandola. (Cap. VIII). quel chinese stava per colpirti, aveva gridato: Non toccate quell’uomo.
— Allora non si prenderà nemmeno la mia — disse l’argentino. — Io solo so guidare la nave e posso essere utile a Sao-King.
Ah! Eccoli che si avanzano! Che si siano accorti della fuga dell’equipaggio?
Signor Ioao, prendete un moschetto anche voi. Ne ho veduto uno appoggiato all’argano.
E voi, signor commissario, non muovetevi finchè non conosceremo le intenzioni di Sao-King.
Alcune ombre strisciavano lungo le murate, cercando di accostarsi al castello.
L’ufficiale ed il giovane Ioao puntarono i fucili, gridando:
— Alto o facciamo fuoco! All’alba ci arrenderemo.
Udendo parlare di resa, i chinesi avevano mandato un immenso urlo di trionfo.
Sao-King, svegliato prontamente, si era fatto innanzi.
— Chi parla? — aveva chiesto. — Il capitano Carvadho?
— No, sono il suo luogotenente — rispose l’argentino.
— Volete arrendervi?
— Sì, abbiamo deciso di capitolare.
— Dov’è il capitano?
— Fuggito.
— Badate che se cercate invece di tenderci un agguato, non risparmieremo nessuno.
— Ti dico che sono fuggiti, Sao-King e che a quest’ora sono anche lontani.
— Siete solo?
— No, — rispose l’ufficiale. — Sono rimasti anche il commissario e suo fratello.
— Non è stato ucciso il signor de Ferreira? — chiese Sao-King.
— È solamente ferito e non gravemente.
— Sono lieto che sia sfuggito alla morte. E quel colpo di fucile cosa significa?
— Ho sparato sul capitano.
— Voi! — esclamò il chinese con stupore.
— Volevo punirlo di averci abbandonati.
— Non avete nulla da temere da parte nostra, — disse Sao-King. — Io non dimentico coloro che ci hanno difesi contro la brutalità del capitano. Deponete le armi e veniteci incontro.
Quindi alzando la voce gridò ai suoi compatrioti:
— Che nessuno tocchi questi uomini bianchi che sono miei amici.
Portate dei lumi e festeggiate la conquista della nostra libertà e della nave. —
Un grido assordante accolse quelle parole:
— Viva Sao-King! Viva il nostro capitano. —
Un momento dopo quindici o venti uomini uscivano dal quadro portando delle torce accese, seguìti da tutta la turba ancora armata di scuri, di ramponi, di coltelli e di manovelle.
L’ufficiale argentino vedendoli avanzarsi come una banda di diavoli scatenati, ebbe un dubbio.
— Che Sao-King ci abbia promessa la vita per coglierci inermi? — pensò. — Ah! Vivaddio, non ci lasceremo scannare come montoni e se dobbiamo morire, salteremo tutti insieme. —
Sul castello vi erano ancora due barili della capacità di quaranta libbre ciascuno, ripieni di polvere e che i marinai non avevano potuto imbarcare.
Afferrare una scure e sfondarli fu l’affare d’un istante.
— Cosa fate, signor Vargas? — chiese il commissario.
— Prendo le mie precauzioni, signor de Ferreira — rispose l’argentino.
Ciò detto staccò uno dei due fanali regolamentari e l’accese, tenendolo aperto.
I chinesi erano allora giunti sotto il castello e si preparavano a scalarlo.
— Fermatevi! — gridò l’ufficiale con voce tuonante. — Se fate un passo ancora, faccio saltare la nave.
Sao-King si era fatto innanzi.
— Che cosa significa questa minaccia? — chiese, con stupore.
— Vedo che i tuoi uomini sono ancora armati, — disse l’argentino. — Noi non dobbiamo quindi credere ciecamente alle tue promesse.
— Avete torto, — rispose il chinese. — Io giuro solennemente di mantenere ciò che ho detto: voi non avrete nulla da temere da parte nostra. —
Quindi volgendosi verso la turba, disse con voce che non ammetteva replica:
— Gettate le armi: la nave ormai è nostra e la battaglia è finita.
Mentre i chinesi obbedivano senza fare alcuna osservazione, s’arrampicò sul castello, strinse la mano all’ufficiale ed a Ioao, poi si accostò al commissario che si era seduto su un mucchio di cordami.
— Signore, — disse con una certa nobiltà, — mi rincresce che uno dei miei uomini vi abbia ferito, ma noi tutti avremo cura di voi e facciamo voti per la vostra guarigione.
— Grazie Sao-King, — rispose il signor de Ferreira. — Ci eravamo ingannati dubitando della tua riconoscenza.
— Non ho dimenticato il giorno in cui voi e vostro fratello affrontaste il capitano per difendermi.
Lasciate che i miei uomini vi portino nella vostra cabina.
— Lo condurremo noi, Sao-King – disse l’ufficiale. — Aiutatemi, signor Ioao. —
Presero sotto le braccia il ferito e essendo stata rialzata una delle scale, attraversarono la coperta per condurlo nel quadro.
I chinesi aprirono rispettosamente le loro file dinanzi a loro. Appena però li videro scomparire nel quadro, tutti quegli uomini si dispersero per la nave vociferando.
Sembravano collegiali in vacanza. Si cacciavano dappertutto, salivano sulle griselle spingendosi fino alle crocette e sui pennoni, poi ridiscendevano per frugare nelle cabine e nella camera comune.
Ad un tratto un grido echeggiò:
— Alla dispensa! Facciamo orgia! —
Una valanga d’uomini si rovescia verso prora, sfonda la murata e si precipita nella dispensa.
Un urlo di trionfo annuncia agli uomini rimasti in coperta che i viveri sono stati trovati.
Casse e barili vengono portati fuori e aperti a colpi di scure, mentre quattro chinesi collocano i due recipienti colmi d’aguardiente su due casse rovesciate.
— Compagni! — grida una voce. — Beviamo il tafià del comandante. —
Del tafià! Quale festa per quei disgraziati che dal loro imbarco non avevano mai più ingollata una goccia di liquore!
Tutti si gettano verso i due barili, allungando le mani, mentre altri rovesciano in coperta le casse di biscotto, di farina, i barili ripieni di porco salato e di prosciutti, di frutta secche e schiacciano e contorcono le scatole contenenti le conserve alimentari.
I due barili vengono traforati con un punteruolo e due zampilli color dell’ambra sprizzano cadendo, con un rumore che allieta tutti quegli orecchi, nelle tazze, nelle scodelle, nei tondi, perfino nei recipienti che prima avevano contenuto l’olio nelle scatole appena vuotate.
È un’orgia, è un delirio! Solo Sao-King, ritto sul castello di prora, rimane impassibile e non prende parte alla festa.
L’improvvisato capitano veglia alla sicurezza comune. Teme un ritorno offensivo delle scialuppe e guarda ansiosamente il mare che brontola cupamente, distendendo le sue larghe ondate color della pece.
I suoi compatrioti non si sono nemmeno accorti della sua assenza.
I disgraziati ingollano il veleno a fiotti e saccheggiano con avidità bestiale le provvigioni. Merluzzo secco, porco salato, conserve, presciutti, frutta secche, spariscono sotto quelle migliaia di denti formidabili.
Finalmente, dopo tanti giorni di fame, possono saziarsi e bere quel delizioso tafià che rode la gola e incendia le viscere.
Ad un tratto un grido di disperazione echeggia verso il quadro:
— Disgraziati! Che cosa avete fatto? —
Quel grido è sfuggito dalle labbra dell’ufficiale argentino, comparso in quel momento in coperta, dopo d’aver medicata la ferita del signor de Ferreira.
Vedendo i chinesi vuotare i barili d’aguardiente si era rammentato che i viveri ed i liquori erano stati avvelenati dal vendicativo capitano.
Si slanciò come un pazzo in mezzo a quei miseri già quasi ebbri, gridando:
— Fermatevi! Bevete la morte! —
Nessuno aveva compreso il vero significato di quelle terribili parole, avendo più o meno i cervelli annebbiati dal liquore fatale.
Anzi alcuni, vedendolo accorrere, avevano levati i coltelli, credendo che volesse opporsi all’orgia.
Sao-King però aveva compreso vagamente che un grave pericolo minacciava i suoi compatrioti.
Con un salto s’era slanciato giù dal castello, muovendo rapidamente verso l’ufficiale.
— Signore! — esclamò, vedendolo pallido e col viso sconvolto. — Che cosa avete?
— Sao-King! Il veleno... il veleno!... — gridò l’argentino, con voce strozzata.
— Ah! Disgraziati!
— Quale veleno? — gridò il chinese che aveva paura d’indovinare.
— Fa’ gettar via i barili d’aguardiente. —
Il chinese aveva finito per comprendere.
Rovesciando con impeto irresistibile i bevitori, afferrò i due barili, ma tosto li lasciò ricadere mandando un urlo di disperazione.
Erano ormai quasi interamente vuoti!
— Maledizione! — gridò. — Capitano Carvadho, ti strapperò il cuore! —
Poi si slanciò verso l’argentino che pareva inebetito.
— No! Non è possibile! — esclamò. — Non posso credere a tanta infamia!
— I tuoi uomini sono perduti — singhiozzò l’ufficiale.
— Non vi è alcun mezzo per salvarli?
— Hanno inghiottito l’arsenico.
— Chi l’aveva messo nei barili?
— L’infame Carvadho.
— Ne siete certo?
— Guarda! Ecco i tuoi compagni che cominciano a contorcersi sotto le prime strette del terribile veleno. —
Sao-King s’era voltato col viso alterato da un dolore intenso.
Alcuni uomini che avevano bevuto forse più degli altri o che erano più deboli, erano caduti attorno ai barili contorcendosi e dibattendosi disperatamente.
Dei rauchi gemiti sfuggivano dalle loro labbra, ma i loro compagni parevano non essersi accorti di nulla.
Stavano vuotando le ultime gocce del fatale liquore, sordi alle intimazioni di Sao-King e divorando ingordamente le provviste sparse per la coperta.
— Salvateli! Cercate di fare qualche cosa per loro! — esclamò il capo dei coolies.
— Non vi è nulla da fare nè da tentare — rispose con voce disperata l’ufficiale argentino. — Sono tutti condannati!
— Andiamo dal commissario. Forse può strapparli alla morte!
— Non potrà far nulla, Sao-King. Nessuno può guarire chi ha bevuto il veleno.
— Venite! Vi prego! —
L’ufficiale, anche per sottrarsi alla vista di quell’ecatombe, lo seguì nel quadro.
Il signor de Ferreira, avendo udito il grido disperato dell’ufficiale, stava alzandosi aiutato da Ioao.
Quando vide il chinese ed il suo compagno comparire coi volti sconvolti e gli occhi strambuzzati, capì che qualche grave avvenimento era accaduto a bordo della nave.
— Salvateli, signore! — gridò Sao-King, precipitandoglisi incontro.
— Chi? — domandò il signor de Ferreira, stupito ed inquieto.
— I miei compatrioti muoiono!
— Chi li uccide? — gridò il commissario allungando la destra verso una pistola che stava sul canterano. — Il capitano?
— Il veleno, signore! — esclamò l’ufficiale. — Essi hanno bevuto l’aguardiente in cui l’infame Carvadho aveva mescolato l’arsenico.
— Gran Dio! — gridarono Ioao e suo fratello.
— Non lasciateli morire, signore! — gridò Sao-King.
— Hanno bevuto l’aguardiente — balbettò il signor de Ferreira. — I disgraziati sono perduti!
— Si può tentare nulla? — chiese l’argentino.
— Nulla, — rispose il commissario, — l’arsenico non perdona.
Poi appoggiando una mano sulla testa del chinese, singhiozzante, aggiunse:
— Noi li vendicheremo, Sao-King. È tutto quello che possiamo fare.
Aiutato da Ioao attraversò la cabina e si arrestò sulla scala del quadro.
La coperta della nave, illuminata dalle venti torce legate alle murate, presentava in quel momento uno spettacolo atroce.
Più di trecentocinquanta corpi umani, si rotolavano e si contorcevano, aggrovigliandosi come serpi.
Urla strozzate, sorde imprecazioni, gemiti strazianti sfuggivano dalle labbra di quei disgraziati.
Di quando in quando qualcuno, dopo sforzi reiterati, s’alzava in piedi, rimaneva un momento in equilibrio battendo le braccia nel vuoto, poi piombava sul tavolato con sordo rumore, come fulminato.
— È orribile! È orribile! — balbettò il signor de Ferreira con voce rotta.
— Dio! Che massacro!
— Fratello, fuggiamo! — esclamò Ioao. — Questa è la nave dei morti!
In quell’istante un vivido lampo balenò fra le nerissime nubi che si erano levate poco prima che il sole tramontasse, seguìto da un lontano brontolìo.
L’ufficiale aveva alzati gli sguardi verso il cielo.
Più nessun astro brillava.
— La tempesta! — disse, con un brivido.
— Triste notte, — mormorò il signor de Ferreira, lasciandosi cadere su un mucchio di cordami.
Sao-King che fino allora era rimasto muto, guardando con spavento i suoi infelici compatrioti che si dibattevano fra le strette dell’agonia, tese la destra verso le nubi tempestose, dicendo:
— Che la nave dei morti s’inabissi e noi insieme! —