Questo testo è completo. |
◄ | 8. La nave dei morti | 10. Un fuoco misterioso | ► |
CAPITOLO IX.
I selvaggi.
L’Alcione, al pari dell’uccello di cui portava il nome, continuava la sua pazza corsa, fuggendo dinanzi all’uragano.
Sottrattosi miracolosamente alle spire del ciclone, nel momento in cui stava per venire assorbito dalla terribile tromba marina e quindi travolta dai marosi turbinanti, aveva ripresa coraggiosamente la lotta.
L’albero maestro, liberato dei paterazzi dalla scure di Sao-King, era stato spazzato via dalle onde, permettendo così alla nave di riprendere il primiero equilibrio.
Il pericolo non era cessato, tutt’altro, poichè l’uragano imperversava ancora con furia tremenda, però vi erano ora maggiori probabilità di uscire incolumi da quella tremenda battaglia contro gli scatenati elementi.
Sao-King e Ioao, riacquistato il coraggio, dopo lunghi sforzi erano riusciti a spiegare un flocco sul bompresso, onde dare alla nave una maggior stabilità e anche maggior direzione.
Avevano pure tentato di spiegare la vela di trinchetto, poi avevano dovuto rinunciarvi non avendo forza sufficiente per resistere alle raffiche.
Le braccia erano troppo scarse per compiere una simile manovra.
L’ufficiale intanto si sforzava di mantenere la nave lontana dalle isole di Tonga, che da un momento all’altro potevano comparire all’orizzonte, colle loro pericolose scogliere corallifere.
— Speriamo — aveva detto al signor de Ferreira che lo interrogava.
Se non andiamo a cozzare contro qualche isola, tutto andrà bene, quantunque la nostra nave sia gravemente danneggiata nell’alberatura.
Lo scafo è solido e resisterà agl’assalti delle onde.
— Saremo però costretti ad approdare in qualche luogo.
— Pur troppo, signor Cyrillo.
— Perchè avete detta pur troppo, con aria desolata?
— Le Tonga-Tabù non godono buona fama e dovremo cercare rifugio in una delle loro baie, — rispose l’argentino.
— Abbiano ancora i cannoncini e le munizioni sono abbondanti.
— Che cosa potrebbero fare le nostre artiglierie contro centinaia e centinaia di selvaggi risoluti? Forse che non si sono impadroniti di parecchie navi montate da equipaggi numerosi?
— Allora cerchiamo un’altra terra, — disse il peruviano.
— Bisognerebbe andare molto più lontani e l’Alcione è troppo gravemente ammalato per prolungare la corsa. E poi, che cosa si guadagnerebbe? Anche spingendoci fino alle isole Figi, non eviteremmo il pericolo di venire assaliti e messi allo spiedo.
— Brutta condizione, signor Vargas.
— Pessima, signor de Ferreira.
— Orsù non scoraggiamoci. Il capitano ed i suoi banditi non si troveranno in migliori condizioni di noi.
— Che gli squali divorino quei miserabili! — esclamò l’argentino con accento d’odio. — La morte sarà una punizione troppo dolce per loro.
— Credo che a quest’ora non saranno più vivi. L’uragano non li avrà risparmiati.
— Lo spero anch’io.
— Dove andiamo, signor Vargas?
— Sempre al nord-est.
— Manterrete la rotta?
— Lo spero.
— Con così poca velatura?
— Il vento ci spingerà egualmente.
— Resisterà il trinchetto?
— Per ora sì, tuttavia dovremo accontentarci di un solo parrocchetto, — rispose l’argentino. — Dite a Sao-King ed a vostro fratello di non spiegare altra tela.
Ne abbiamo abbastanza. —
L’Alcione intanto continuava la sua disordinata corsa verso il nord-est salendo e discendendo le onde.
Fuori dall’orbita del ciclone, l’oceano era meno tormentoso, tuttavia le onde si mantenevano sempre altissime, mettendo a dura prova le costole della povera nave.
Di quando in quando un cavallone gigantesco si rovesciava sopra la poppa sgangherando la murata e minacciando di travolgere l’argentino e spazzava la coperta fino a prora, sfuggendo poi impetuosamente attraverso le mille fessure o rimbalzando sopra le impagliettature.
Sao-King, Ioao e Cyrillo avevano molto da fare per non venire sospinti sopra i bordi e gettati in mare.
Talvolta la nave si sbandava bruscamente come se dovesse ingavonarsi e non rialzarsi più, ma un colpo di barra dato molto opportunamente dall’argentino, la rialzava tosto e le faceva riprendere la sua corsa indiavolata.
La violenza dell’uragano però continuava a scemare. Le raffiche a poco a poco s’indebolivano e le nubi si rompevano qua e là lasciando filtrare un po’ di luce lunare.
Nondimeno tutta la notte l’Alcione corse grave pericolo di venire travolto dalle onde, le quali non accennavano ancora a scemare di violenza.
Quando il sole sorse, una calma relativa regnava negli alti strati dell’aria.
Se gli uragani dell’Oceano Pacifico sono tremendi, ordinariamente non hanno lunga durata, almeno nelle regioni intertropicali. Si formano con rapidità incredibile, scoppiano con una violenza inaudita, poi con altrettanta rapidità si dissolvono o si allontanano per portare altrove le loro devastazioni.
— Il pericolo è cessato, — disse l’argentino al signor de Ferreira, dopo d’aver ceduta la barra al cinese. — Prima che le tenebre tornino a calare, anche le onde si saranno, se non spianate, per lo meno calmate.
— Distiamo ancora molto dalle Tonga?
— È impossibile saperlo per ora, disteremo qualche centinaio e mezzo di miglia e questa distanza mi preoccupa.
— E perchè, signor Vargas?
— Dobbiamo avere ben pochi viveri a bordo, ora che il capitano ha avvelenati quelli della dispensa.
— Ne troveremo a poppa. Il miserabile aveva una provvista particolare.
— Poca cosa, signor Cyrillo.
— Centocinquanta miglia non saranno un gran che. In un paio di giorni giungeremo alle isole.
— Con una nave così ammalata?
— La medicheremo come meglio potremo. I pennoni e le vele di ricambio non devono mancare qui.
— Sono le braccia che ci difettano, signor de Ferreira. Non ne abbiamo abbastanza per occuparci della manovra e per intraprendere dei lavori di riparazione.
Quando avremo trovata una baia ben riparata dalle onde e sicura contro i venti, allora sarà altra cosa.
Tutto quello che potremo fare per ora, sarà di rinforzare il trinchetto con delle sartie e dei paterazzi, onde non ci cada sulla testa. ....teneva in mano un ampio cappello.... (Cap. XIV).
— Disponete anche di me, signor Vargas. Le mie braccia non sono ferite.
— Dovete essere ancora debole.
— Bah! Se la testa è rotta, i muscoli sono ancora solidi.
— Ne approfitterò, signor de Ferreira, — rispose l’argentino, sorridendo.
La violenza delle onde non scemò che verso sera, accordando un po’ di riposo ai naviganti che da quaranta ore lottavano penosamente per salvare la nave e anche le loro vite.
Non volendo però lasciare l’Alcione in balia di se stesso, si scambiarono di due in due ore. Prima Sao-King e Ioao, non sapendo questi manovrare il timone; poi l’argentino e Cyrillo.
L’indomani essendosi l’oceano completamente calmato, innanzi a tutto gettarono tutti i viveri della dispensa onde non correre il pericolo di fare la fine dei disgraziati coolies, poi assicurarono il trinchetto già assai compromesso dalla caduta dell’albero maestro, tendendo nuovi paterazzi e nuove sartie e spiegando una vela sul trevo inferiore, per approfittare della brezza che spirava fortunatamente dal sud-sud-ovest e che doveva spingerli verso le isole degli Amici o di Tonga-Tabù, come si vogliono chiamare.
Rialzate e rinforzate quindi alla meglio le murate, abbattute e sfondate dall’impeto delle onde, fecero l’inventario dei pochi viveri trovati nel quadro di poppa.
Erano ben poca cosa: due casse di biscotti, delle scatole di conserva, del caffè, dello zucchero e dei liquori.
— Non c’è molto da stare allegri, — disse l’ufficiale argentino. — Tuttavia queste provviste spero che ci basteranno per raggiungere l’arcipelago. E poi sarà meglio approdare a quelle spiagge più magri che grassi.
— Per non destare gli appetiti abbominevoli di quegli isolani, è vero signor Vargas? — chiese Ioao.
— Ci tengono alla carne umana, ve lo assicuro. Si dice anzi che diano la preferenza a quella bianca, quantunque in generale gli antropofaghi affermino che sia troppo amara.
— Come! — esclamò stupito e un po’ mortificato il giovane peruviano. — La nostra carne è meno pregiata di quella dei negri, dei mongoli e dei malesi?
— Tale è l’opinione degli antropofaghi, condivisa da altri formidabili divoratori di carne umana.
— Da quali?
— Dai pesci-cani.
— Anche quei feroci squali sdegnano la nostra carne d’uomini bianchi?
— Adagio, signor Ioao, non la disprezzano affatto, anzi tutt’altro. Provate a gettarvi in acqua quando qualche charcharias nuota intorno all’Alcione e vi persuaderete che non vi lascerebbe in pace.
Nondimeno è stato provato che preferiscono i negri prima, i malesi poi, quindi i chinesi e sapete il perchè?
— No, signor Vargas; non lo immagino nemmeno.
— Perchè la nostra carne è troppo salata mentre, come sapete, i negri fanno un consumo molto limitato di sodio, anzi quelli del centro non ne usano affatto.
— Ah! I ghiottoni!
— Che volete? Sono buongustai.
— Al diavolo i pesci-cani e anche i selvaggi dell’Oceano Pacifico!
— Signor Ioao — disse Sao-King, il quale da qualche istante guardava verso il nord. — Li avete chiamati?
– Chi? — domandò il giovane, con sorpresa.
— I selvaggi.
— Non ti comprendo, Sao-King, — disse l’argentino.
— Se non m’inganno fra poco noi li incontreremo. Vedo un punto nero che si dirige verso di noi e che è sormontato da una macchia giallastra. Deve essere una doppia piroga degli isolani di Tonga.
— Allora siamo vicini a quell’arcipelago — disse Cyrillo.
— E perchè? — domandò l’argentino.
— Se quella è una barca?
— Ignorate dunque che gli isolani della Polinesia, quantunque sprovvisti di bussole, intraprendono dei lunghi viaggi? Non è raro il caso d’incontrarli a tre e anche quattrocento miglia dalle loro terre. Si può dire che sono i più valenti marinai del mondo, superiori anche ai malesi.
— E con delle semplici scialuppe osano allontanarsi tanto dalle loro isole?
— Sì, signor Cyrillo. Sono però barche solide, scavate in tronchi d’albero, accoppiate due a due con bilancieri, per renderle meglio equilibrate e riunite con un ponte. Ora le vedrete.
— Che quei selvaggi ci assalgano? — chiese Ioao.
— Non l’oseranno. Nondimeno caricheremo i nostri pezzi e se vorranno fare i bravi scalderemo i loro dorsi con un po’ di mitraglia, — rispose l’argentino con voce risoluta. — Sao-King, alla santabarbara e non risparmiare i chiodi. Forano meglio delle pallottole!
— Sì, signor Vargas, — rispose il chinese. — Se vorranno venire all’abbordaggio spezzeremo le loro piroghe.
Il punto nero ingrandiva a vista d’occhio anche perchè l’Alcione gli correva incontro, spinto da una fresca brezza che soffiava sempre dal sud-sud-est.
Gli isolani dovevano aver scorta la nave e s’affrettavano a raggiungerla, forse colla speranza che fosse qualche rottame da saccheggiare.
Come Sao-King e l’argentino avevano detto, la loro imbarcazione era costituita da due piroghe lunghe non meno di quindici metri, scavate nel tronco di due colossali alberi, colle punte molto rialzate e collegate da un largo ponte.
Portavano un unico albero, formato da due lunghi bambù rovesciati ad un angolo e sorreggenti una vela triangolare formata di vimini e di foglie intrecciate.
Sul ponte si vedevano dieci o dodici selvaggi, quasi interamente nudi, di statura alta, dai lineamenti regolari e dalla pelle oscura come quella dei malesi, a riflessi rossastri.
Tutti erano tatuati in nero, e nelle capigliature, assai folte ed arricciate, portavano dei lunghi pettini di legno.
Vedendo l’Alcione, avevano impugnate le loro armi consistenti in archi, in mazze enormi e piccole lance dalla punta d’osso.
— Pare che si preparino ad assalirci, — disse Ioao, il quale aveva preso un fucile, mentre Sao-King puntava il pezzo del cassero. — Che osino tanto?
— Ora lo vedremo, — rispose l’argentino, con voce tranquilla. — Non saranno certamente loro che avranno la pretesa di salire sulla nostra nave e di metterci allo spiedo. Abbiamo polvere e palle per tutti.
I selvaggi giungevano con furia, agitando le loro armi e mandando grida assordanti.
Giunti presso l’Alcione, virarono di bordo e si misero a seguirlo, reclamando, con gesti imperiosi, di abbassare la scala.
— Vogliono salire, — disse Sao-King, il quale si era curvato sulla murata.
— Li comprendi tu? — chiese l’argentino.
— Sì, conoscendo io molti dialetti degli isolani dell’Oceano Pacifico.
— Che cosa vogliono adunque?
— Ve lo dissi già; salire a bordo.
— Prova a parlamentare e persuaderli a lasciarci proseguire per la nostra via, se non vogliono fare conoscenza coi nostri cannoncini.
I selvaggi cominciavano ad impazientirsi. Colle loro mazze percuotevano poderosamente i fianchi della nave e qualche freccia si era piantata nella vela di trinchetto.
Sao-King s’armò prudentemente d’un moschetto e dopo d’aver reclamato un po’ di silenzio, chiese:
— Che cosa volete dagli uomini bianchi?
— Salire! — urlarono tutti.
— Non possiamo fermarci.
— Lancia una fune e noi vi raggiungeremo, — disse il comandante della piroga, un bel vecchio che portava fra i capelli una penna rossa.
— E quando sarete saliti che cosa farete?
— Vi mangeremo, — rispose arditamente l’isolano.
— Allora ascolta prima la voce delle nostri armi.
Si volse verso Ioao il quale stava presso il cannoncino del cassero, soffiando sulla miccia.
— Signore, — gli disse, — fate fuoco.
Il giovane sparò. Udendo il rimbombo e vedendo l’acqua a spruzzare, gl’isolani s’erano lasciati cadere sul ponte della loro piroga, urlando come se avessero ricevuto in pieno corpo la mitraglia del pezzo.
— Ed ora prendete questo! — gridò il chinese. — Badate alle vostre teste!
Sollevò una cassa ripiena di gomene che si trovava presso la murata e la lasciò cadere sulla piroga schiantando l’albero e la vela e storpiando tre o quattro selvaggi.
— Per questa volta non assaggerete nè la carne bianca nè la gialla, — gridò. — Dateci la caccia se l’osate!
L’Alcione, spinto dalla brezza era già passato, mentre la piroga, abbandonata a se stessa, rimaneva indietro lasciandosi portare dalle onde.