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Traduzione dal greco di Ettore Romagnoli (1929)
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Esce dal tempio Ifigenia.
ifigenia
Pèlope il tantalíde, a Pisa giunto
con veloci cavalle, ebbe consorte
la figlia d’Enomào, Nacque da Pèlope
Atrèo: furon d’Atrèo figli Agamènnone
e Menelao. Del primo e della figlia
di Tíndaro io son figlia, Ifigenía,
che presso ai gorghi cui mulina l’Èuripo,
e insiem con le frequenti aure sconvolge
il cerulëo mar, sacrificata
fui da mio padre — ei sel credé — per Elena,
nelle famose alpestri gole d’Àulide,
d’Artèmide su l’ara. Ivi Agamènnone
l’elleno stuol di mille e mille navi
raccolto avea, per guadagnar contro Ilio
di vittoria agli Achei ghirlanda bella,
e, compiacendo Menelao, vendetta
trar dalle nozze ingiuriose d’Elena.
Or, poi che vento non soffiava, e al lido
costretta era la flotta, ardere vittime
fece. E Calcante disse: «O tu, che a questa
gesta d’Ellèni sei guida, Agamènnone,
nave non salperà da questo lido,
se la tua figlia Ifigenía non cade
ad Artèmide pria vittima. Tu
voto facesti un dí1, che quanto l’anno
producesse di piú bello, alla Dea
portatrice di luce offerto avresti.
E Clitemnestra nella casa a te
una fanciulla partoría, che tu
devi immolar». La palma di bellezza
ei cosí m’assegnò. L’arti d’Ulisse
m’astrinsero a venir: pretesto furono
le nozze con Achille. E, giunta in Àulide,
misera me, ghermita, sollevata
sopra l’altar, già mi feria la spada,
quando agli Achivi mi sottrasse Artèmide,
una cerva lasciando in vece mia;
e per il luminoso ètere in questa
terra di Tauri mi condusse, ch’io
vi dimorassi. E il barbaro Toante
fra barbari qui regna: al pari d’ali
è veloce il suo piede; e il nome ei n’ebbe2.
E in questo tempio una sacerdotessa
stabilí, dove, come vuol d’Artèmide
il rito (è bello il nome sol: del resto
taccio, ché la Dea temo) immolo — ch’è
della città costume avito — quanti
giungono Ellèni a questa terra: il rito
inizio: ad altri il sacrificio spetta
del santuario nei recessi arcani.
Gli strani sogni questa notte apparsimi
or vo’ narrare all’ètere, se mai
n’abbia sollievo. Mi parea nel sonno
d’esser lontan da questa terra, in Argo,
e che dormivo nella stanza mia,
di giovinetta, e che un tremuoto il dorso
della terra scoteva, ed io fuggivo,
e, stando fuori, giú crollar vedevo
della casa i fastigi, e il tetto intero
precipitare dai pilastri eccelsi,
giacere al suolo. Una colonna sola
rimase in piedi, a quanto mi sembrò,
della casa paterna, e bionde chiome
fluiron giú dal capitello, e voce
assunse d’uomo. Ed io, quest’arte mia
pei foresti fatale, esercitando,
come alla morte fosse presso, d’acqua
la cospargevo, e lagrimavo. È tale
il sogno: ed io lo interpreto cosí.
È morto Oreste; il rito sopra lui
compiei: ché son colonna della casa
i figli maschi; e quelli su cui cadono
l’acque dei riti miei, son sacri a morte.
Né ad amici esser può che il sogno alluda:
ché figli Strofio3 non aveva, quando
a morte io venni. Or dunque, al fratel mio
libagïoni io voglio offrir — presente
a lui lontano: offrire altro non posso
con le fantesche mie, le donne ellène
che il signore mi die’. Per che cagione
non sono qui? Nel tempio entro frattanto
alla Dea sacro, ov’è la mia dimora.
Entra nel tempio.
Avanzano Oreste e Pilade, cauti e guardinghi.
oreste
Guarda: nessuno è su le nostre peste?
pilade
Guardo: con l’occhio tutto attorno spio.
oreste
Pilade, il tempio della Dea ti sembra
questo, per cui venimmo dall’Argolide?
pilade
Certo: e sembrare anche a te deve, Oreste.
oreste
L’ara ove stilla sangue elleno, è questa?
pilade
Certo: di sangue il suo fastigio è fulvo.
oreste
Ve’ sotto il fregio umani resti appesi.
pilade
Sono trofei di stranieri uccisi.
oreste
L’occhio attorno girar convien, guardarsi. —
A quale insidia m’hai di nuovo tratto
coi tuoi responsi, o Febo, allor che uccisa
mia madre, a vendicar mio padre, erravo
esule dalla patria, e dall’Erinni,
a vicenda incalzanti, ero sospinto
fuggiasco, e stanco delle corse lunghe!
A te venuto, il termine ti chiesi
come potrei della follia trovare
che mi spingeva a fuga, e delle pene,
onde afflitto io movea per tutta l’Ellade.
Tu mi dicesti di venire a questa
terra dei Tauri, ov’ha gli altari Artèmide,
la tua sorella, e di rapir la statua
della Dea, che, caduta è, come narrano,
dal firmamento in questo tempio. E avutala,
per opera del caso, o per astuzia,
e affrontato il periglio, in dono offrirla
alla gente d’Atene. Ed oltre piú
non men dicesti. E che, ciò fatto, tregua
trovata avrei dei miei travagli. Or giungo
per seguire i tuoi detti, a questa terra
ignota, inospitale. — Ora a te chiedo,
Pilade, a te che meco sei partecipe
di quest’impresa, che faremo? Eccelso,
vedi, è il recinto delle mura. Forse
della casa tentar dobbiam gli accessi?
Come quello saper che non sappiamo
potremo mai, se i chiavistelli bronzei
non romperemo con le leve? Ma
se mentre noi forziam la porta, e l’adito
cerchiam, siamo sorpresi, a morte andremo.
E prima di morir, meglio è fuggire
alla nave su cui qui navigammo.
pilade
Non si deve fuggir, nostro costume
questo non è, né biasimar l’oracolo
d’Apollo. Ora dal tempio allontaniamoci,
ed un antro cerchiamo ove nasconderci,
flagellato dal negro umor del ponto,
dalla nave lontan, sí che, se pure
vegga taluno il legno, e al re lo dica,
non ci prendano a forza. E quando l’occhio
poi sopraggiunga della tetra notte,
ardir bisogna, e togliere dal tempio,
ogni tranello usando, il simulacro
di sculto legno. Ora tu vedi se
fra triglifo e triglifo un varco s’apra,
d’onde calar si possa il corpo. I prodi
i cimenti affrontare osano: i vili
nulla, quale che sia l’evento, valgono.
oreste
Sí lunga via coi remi non facemmo
per poi tornare appena giunti al termine.
Tu parli bene, e il tuo consiglio io seguo.
Andar bisogna ove possiam nasconderci
e star sicuri. Causa non sarò
che imperfetto per me resti l’oracolo.
Ardir bisogna. Ostacolo non c’è
che servir possa di pretesto a un giovine.
Escono.
- ↑ [p. 321 modifica]Voto facesti un dí, per calmare lo sdegno di Artemide, che aveva offesa.
- ↑ [p. 321 modifica]Il nome ei n’ebbe: Toante da θοός, veloce.
- ↑ [p. 321 modifica]Strofio marito di Anassibia, sorella di Agamennone, fu poi padre di Pilade.