< Il Bardo della Selva Nera
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Canto V


IL BARDO


DELLA SELVA NERA.




CANTO SESTO.




IL 19 BRUMAIRE.




Amor di patria, amor di gloria un fiero
     Fan certame nel Duce; e d’armi instrutto
     Prepotenti è ciascun. Vince il primiero.
     In magnanimo cor la patria è tutto.
     5Sol di questa il dolor gli empie il pensiero:
     Arde già di partir, già sopra il flutto
     Vola il suo spirto, già le rive afferra,
     Già vendica l’onor della sua terra.

D’Acri gli allóri su l’infranto muro
     10Gli mostrava la Gloria, e gli dicea:
     Vieni, prendi, son tuoi, monta securo:
     Ed ei voltate già le spalle avea.
     Un lauro più d’assai bello e più puro
     Di qua dal mare il suo pensier vedea;
     15Di questo solo ei vuol la fronte adorna.
     Francia, t’allegra; Italia, sorgi: Ei torna.
Ma senza memoranda alta vendetta
     Non fia no dell’Invitto il dipartire.
     Intégra e degna dell’Eroe l’aspetta
     20De’ forti il sangue estinti in Abukire;
     E tal l’ebbe. Su l’onda maladetta
     Le Gallich’ombre si placáro e l’ire.
     Di Turca strage il mar crebbe, e l’ondosa
     Faccia sparì da tanti corpi ascosa.
25Spente le forze de’ nemici, e ogn’uopo
     Dell’armata provvisto, al lido aduna
     I suoi più fidi il Duce, e dal Canopo
     Salpa; e nocchiera in poppa ha la Fortuna.
     Nè fragil prora vi fu pria, nè dopo
     30Mai l’onde ne vedranno altra veruna
     Di tanto carco. Il cor, cui poco è il Mondo,
     Quel cor si cela in quell’angusto fondo.

Contra le vele del fatal naviglio,
     Conscj forse del Dio ch’ei porta in grembo,
     35Non osano di far lite e scompiglio
     I venti: dorme la procella e il nembo.
     Solo increspa con placido bisbiglio
     Dolce un Levante alla marina il lembo:
     E l’onda intanto, Chi è Costui, dir pare,
     40A cui l’aria obbedisce, e serve il mare?
E certo il mar sentìa che su quel legno
     Navigava il valor che al fier Britanno
     Farà caro costar dell’onde il regno,
     Finchè ne spezzi lo scettro tiranno.
     45Quindi parve d’uman senso dar segno
     Il tremendo elemento, e un bello inganno
     Fatto all’inglese insecutor schernito,
     Pose il vindice suo salvo sul lito.
Come giunto s’udì l’alto Guerriero,
     50Di giubilo delire a lui davante
     Si versar le città lungo il sentiero:
     Mise a tutti il piacer l’ali alle piante.
     Ognun s’affretta e incalza, ognun primiero
     Esser vuole a gioir del suo sembiante.
     55BONAPARTE gridare i vecchi padri,
     Iterar BONAPARTE odi le madri,

BONAPARTE i fanciulli, BONAPARTE
     Rispondono le valli; e nell’ebbrezza
     Di tanto nome, al vento inani e sparte
     60Van le memorie d’ogni ria tristezza.
     Nel tripudio ognun corre ad abbracciarte
     Sia nemico, od amico: l’allegrezza
     Non distingue i sembianti; un caro errore
     Dona gli amplessi, e negli amplessi il core.
65Francia tutta del Magno alla venuta
     Rizzossi; ne tremò l’Alpe, e l’avviso
     Dienne all’itala donna. L’abbattuta
     In mezzo al pianto lampeggiò d’un riso,
     E serenossi. Ma in piè surta e muta
     70Di maraviglia, Europa il guardo fiso
     Su la Senna converse, ove sentía
     Che alfin soluto il suo destino andría.
Qual, pria che fosse il mar, la terra, il cielo,
     Del caos l’orrenda apparve atra mistura,
     75Ove l’umido, il secco, il caldo, il gelo
     Fean pugna, e muta si tacea natura;
     Che tal, rimosso alla menzogna il velo,
     Fusse di Francia il volto ti figura,
     Quando il Magno a camparla dal Ciel fisso,
     80Venne, quale già Dio sovra l’abisso.

E l’abisso in che l’egra era sepolta
     Tutto il vide Egli sì. Vide il Delitto
     Passeggiar venerato, e per istolta
     Potenza fatto probitate e dritto.
     85La Virtù vide di gramaglie avvolta,
     Atterrati gli altari, Iddio proscritto,
     La Giustizia mercato, e disciplina
     Generosa la Frode e la Rapina.
Vide in bisso il codardo, e nudo il petto
     90Del forte, il petto ancor del sangue brutto
     Per la patria versato; e a rio banchetto
     Di sue ferite divorato il frutto;
     E spinte al cenno di vil duce inetto
     Al macello le schiere, e omai già tutto
     95Morto il bellico onor, morta la scuola
     De’ prodi, e viva l’arroganza sola.
Fremè d’orrore e di pietade al diro
     Spettacolo l’Eroe. Tutte discorre
     Fra sè le vie, le guise, onde al martiro
     100Di tanto scempio alfin la patria tòrre.
     Vede, ovunque gli sguardi Ei volga in giro,
     Di colpe orrende intreccio, e che a disciorre
     Cotanto nodo il taglio mestier fea
     Che del re Frigio il groppo un dì sciogliea.

105Dopo molte vegliate in questa cura
     Torbide notti, alfin diè calma al vago
     Pensier quel Dio che queta ogni rancura
     Col ramo che di Lete intinse al lago.
     Ed ecco in sogno manifesta e pura
     110Tornargli innanzi la medesma immago
     Che gli apparve in Sorìa. Mesta del letto
     Su la sponda s’asside, e con affetto
Così prende a parlar: Figlio, il crudele
     Mio stato il miri. A che ti stai? Sol una
     115È la via di salute, ed infedele
     All’alme dubitose è la fortuna.
     In che mar di misfatti abbia le vele
     Spinto il poter de’ molti, e che nessuna
     Esser può libertade ove son tutti
     120Liberi, il vedi: e assai n’ha il fatto istrutti.
Arroge, ch’ella è un’impossibil cosa
     In vasto stato; arroge l’opulenza,
     E lo splendor de’ vizj, e la sdegnosa
     Di tutte leggi popolar licenza.
     125Arroge la ribelle, imperïosa
     Forza dell’uso, cui nè vïolenza
     Non doma, nè lusinga; e in questo suolo
     L’uso comanda il comandar d’un solo.

Sorgi dunque, e novello e più temuto
     130Rïalza e premi il necessario trono.
     Re codardo che fugge, ed ha potuto
     Ne’ perigli lasciarmi in abbandono,
     Re che vita non rischia, e fece acuto
     De’ miei nemici il ferro, al mio perdono
     135Chiuse ogni varco. Re vogl’io chi forte
     Vola al mio scampo, non chi vuol mia morte.
Nell’arduo calle, a cui t’esorto, vedi
     Vedi tu capo di regnar più degno?
     China la fronte, ti ritira, e cedi,
     140Ch’esser qui debbe del migliore il regno.
     Ma se nullo t’è pari, è colpa, il credi,
     Il tuo rifiuto, e d’alto cor non segno.
     Le presenti e le tarde età vedranno
     Questo vile rifiuto: e che diranno?
145Diran: stanca la Gallia d’una stolta
     Libertà che a perir la conducea,
     In mille parti scissa e capovolta
     Un sommo e solo correttor chiedea.
     Ogni brama, ogni speme era raccolta
     150Nel fatal BONAPARTE: Ei la potea
     Far salva Ei solo, e ad un poter funesto
     Lasciolla in preda, e si fe’ reo del resto.

Diranno: I giorni del terror tornaro
     Tinti di sangue; e BONAPARTE il volle.
     155Rifisse la civil furia l’acciaro
     Nel sen fraterno; e BONAPARTE il volle.
     I delitti, atterrato ogni riparo,
     Inondár Francia; e BONAPARTE il volle:
     Ch’egli è un voler la colpa, ove i suoi passi
     160Frenar potendo, imperversar la lassi.
Questa di mali, o Figlio, onda fremente
     Franger non puossi che d’un trono al piede,
     Al voler d’una sola arbitra mente,
     Che all’utile comun ratta procede.
     165Allor forte, allor grande, allor possente
     Mi sarò tra le genti; allor fia sede
     Di virtù vera la tua patria, or rio
     Mar di vizj, ù ’l furor soffia di Dio.
Allor tremanti abbasseran le ciglia
     170I re giurati; e tu sembiante al Sole,
     Che fonte e centro della luce, imbriglia
     De’ minor fuochi il giro e le carole,
     Tu porrai loro il freno; allor la Figlia
     Del tuo valor, che suo drudo non vuole
     175Nè il Tedesco, nè il Geta, Italia bella
     Dirà: di BONAPARTE ecco l’ancella.

E tu d’ancella la farai reina,
     E il serto che portò Carlo, all’incude
     Ritemperato di miglior fucina
     180Locherai su la fronte alla virtude,
     Alla virtù canuta e peregrina
     Di Giovinetto Eroe, che in sen già chiude
     Le tue vive scintille, e fia l’amore
     Dell’Italo che giusto e caldo ha il core.
185Disse e sparve. Apre gli occhi, erge la testa
     Il supremo Guerrier: cerca col guardo
     Il fuggito fantasma, e alla tempesta
     Del cor ben sente che non fu bugiardo.
     Balza in piedi agitato. Era già desta
     190La foriera del dì, già il primo dardo
     Della luce le torri ardue fería,
     E la vita spandea per ogni via.
A mirar l’ascendente astro divino
     Fermossi; e in quella gli si fece appresso
     195Il figlio del suo cor, che mattutino
     Scendea del padre al consueto amplesso.
     Di LUI parlo, ch’or fa lieto il destino
     Dell’Italica Donna, e forte ha messo
     La man pietosa entro sue piaghe, ond’ella
     200A sanità già torna e si rabbella.

Dati e presi gli onesti abbracciamenti,
     In che tace la lingua e parla il petto,
     Contra i puri del Sol raggi sorgenti
     Seder si fece al fianco il giovinetto;
     205E gli uditi nel sonno eccelsi accenti
     Pur volgendo nell’alma: O mio diletto,
     Mira, disse, (e nel dir stendea la mano)
     Come bello è del ciel l’astro sovrano.
Delle stelle monarca egli s’asside
     210Sul trono della luce, e con eterna
     Unica legge il moto e i rai divide
     Ai seguaci pianeti e li governa.
     Per lui natura si feconda e ride,
     Per lui la danza armonica s’alterna
     215Delle stagion, per lui nullo si spía
     Grano di polve che vital non sia.
E cagion sola del mirando effetto
     È la costante, eguale, unica legge,
     Con che il raggiante imperador l’aspetto
     220Delle create cose alto corregge.
     Togli questa unità, togli il perfetto
     Tenor de’ varj moti onde si regge
     L’armonia de’ frenati orbi diversi,
     E tutti li vedrai confusi e spersi;

225E l’un l’altro inghiottire, e furibondo
     Il mar levarsi e divorar la terra,
     E squarciarla i vulcani, e nel secondo
     Caos gittarla gli elementi in guerra.
     Figlio, in questa ruina (e dal profondo
     230Cor sospirò) l’immagine si serra
     Di nostra patria: cade la sua mole,
     Perchè a’ suoi moti non è centro un Sole.
Tacque; e surto del loco ove sedea,
     Gli occhi al suol fitti, e a passo or presto or lento
     235Misurava la stanza; e sculto avea
     Su la fronte l’interno agitamento.
     Tra la primiera genitrice idea
     Di perigliosa impresa, ed il momento
     Dell’eseguire, l’intervallo è tutto
     240Fantasmi; e bolle de’ pensieri il flutto.
Allor fiera consulta in un ristretti
     Fan dell’alma i tiranni; e la raccolta
     Ragion nel mezzo ai ribellati affetti
     Sta, qual re tra feroci arme in rivolta.
     245Ma prestamente, ove la Gloria getti
     Nel mezzo il dado, quella lite è sciolta.
     Tormenta i petti generosi allora
     Il periglio non già, ma la dimora.

Tutto quel dì l’Eroe fu muto, e pronte
     250Tutte sue forze rassegnò. Non tante
     Scoppiar scintille fa il martel di Bronte
     Sovra l’incude di Vulcano, quante
     Scoppian le cure dentro quella fronte
     Alla fronte di Giove simigliante,
     255Quando Pallade ancor non partorita
     Del cerébro immortal chiedea l’uscita.
Scese la notte; e in sogno ecco plorando
     Tornar la stessa visïon, che in atto
     Di sdegnoso dolor gli fea comando
     260Di precider le lunghe al gran riscatto.
     Surse il forte, e la man stesa sul brando,
     O Patria, disse, t’obbedisco. E ratto
     Nel raccolto Senato al nuovo Sole
     Entra, e queste vi tuona alte parole:
265In quale stato vi lasciai, Francesi,
     In qual vi trovo? Vi lasciai la pace,
     Trovo guerra; lasciai conquiste, e scesi
     Veggo dall’Alpi l’Alemanno e il Trace;
     Lasciai lucenti di guerrieri arnesi
     270Gli arsenali, e son vuoti. La vorace
     Rapina ha tutto dissipato, eretta
     In ria scïenza dal poter protetta.

Hanno esausto lo stato; il Nume è spento
     Di Giustizia; nè senno, nè decoro
     275Nel maneggio civil; qual vile armento
     Spinti i soldati al marzïal lavoro.
     Ove sono i miei figli? ove li cento
     Mila fratelli che lasciai d’alloro
     Carchi? che avvenne di cotanti forti?
     280Mi rispondete; che ne fu? Son morti.
Morti, ahi! son della patria i difensori,
     E vivi i tristi che la patria uccidono;
     Vivi non pur, ma eccelsi e reggitori
     Supremi al comun pianto empj sorridono.
     285E delle leggi intanto i creatori
     Senza consiglio, senza cor s’assidono
     In venduto Senato: han sotto il piede
     Spalancato l’abisso, e nullo il vede.
Ma d’infamia coperto e irrevocato
     290Passò, lo giuro, de’ ribaldi il regno,
     E della patria qui sul lacerato
     Corpo il giura de’ prodi il santo sdegno.
     Come vento tra scogli imprigionato
     Fremè il Consesso a quel parlar già pregno
     295Di vicina tempesta; ed una voce,
     Lo Statuto, gridò cupa e feroce.

Lo Statuto? il Magnanimo riprese,
     E l’accento suonò più che mortale.
     Lo Statuto? ed ardisce alma Francese
     300Oggi invocarlo? Lo Statuto? E quale?
     Quello cui tante e tante volte offese
     Delle parti il furor? quello in cui strale
     Non è che fitto non sia stato? Un nome,
     Che in fronte al giusto fa rizzar le chiome,
305Dunque un nome s’oppon, che soli affida
     I traditori? un nome in cui delinque
     Santamente ogn’iniquo, e il parricida
     Poter si sacra tuttavia de’ Cinque?
     E non udite ancor dunque le strida
     310Che le rive lontane e le propinque
     V’invian gridando: A terra, a terra l’empio
     Statuto, o Franchi, e fine al patrio scempio.
Tremár di gioja ai generosi accenti
     I pochi intégri, e di terrore i molti
     315Perversi; e fuggir sotto i vestimenti
     Più man fur viste, e trasmutarsi i volti.
     A camparlo quel dì dai vïolenti
     Ferri di questi o scellerati o stolti,
     Fama è che intorno al perigliante Duce
     320Fiammeggiar fu veduta una gran luce.

L’Angiol fu forse della patria, forse
     Altro messo del ciel, che tolto al mondo
     L’onor non volle de’ mortali, e torse
     Il colpo che mettea Francia nel fondo.
     325Di noi pietoso un Dio certo il soccorse,
     Nè più bello a noi mai, nè più giocondo
     Giorno brillò di questo, in cui la forte
     Mano il fren prese della patria sorte.
Qual robusto di fianchi alto naviglio,
     330Che privo di governo in mar crudele
     Estremo corse d’annegar periglio,
     Frante l’antenne, e lacere le vele;
     Se di miglior piloto arte e consiglio
     Il sottragge all’irata onda infedele,
     335Sue ferite ristaura, e sul mar scuro
     Le tempeste a sfidar torna securo;
Cotal la grande Nazïon rinvenne,
     Chè Grande allor veracemente emerse,
     E sanò le sue piaghe, e di solenne
     340Luce vestita ogni squallor deterse.
     Le virtù fuggitive in bianche penne
     Tornár. Giustizia racconciò le sperse
     Rotte bilance, e dal Furor segnate
     Cancellò le rubriche insanguinate.

345La Concordia rifulse, e di catene
     Indissolute la nemica avvinse,
     Franse gli empj pugnali in su l’arene
     Angle temprati, e l’ire tutte estinse.
     La virtù che di Dio nell’uom mantiene
     350La riverenza, la virtù che strinse
     Col ciel la terra, più graditi e cari
     Bruciò gl’incensi su i risurti altari.
Ebber norma ed impulso e vigoría
     I diversi doveri; e d’un sol fiato
     355Tutti sospinti per diversa via
     Mossersi a gara ad animar lo Stato.
     Così volge sue rote in armonía
     L’ordigno che misura il tempo alato;
     Hanno vario il cammino e vario il volo
     360Tutte; ma il punto che le move è un solo.
E le scïenze intanto e le sorelle
     Arti splendor de’ regni, e formatrici
     D’almi costumi, senza cui nè belle
     Son le città, nè i troni unqua felici,
     365Schiuser liete i lor templi; e di novelle
     Ghirlande ornate, con più fausti auspíci
     Ricominciár lor riti, e ogni villano
     Costume entrato ne cacciár lontano.

Così tutte lasciò Francia le brune
     370Spoglie del lutto, e rivestissi il manto
     Di sua grandezza. Io sol nella comune
     Letizia, ahi lasso! io mi fui solo al pianto.
     Redir d’Egitto, e alle paterne cune
     Volar fu il primo mio desire. Un santo
     375Dover spingea quest’alma intenerita
     Ad abbracciar colei che mi diè vita.
Movo ratto di Frejo, e per la via
     Di lei sola il pensier tutto ripieno,
     Anticipando nel mio cor venìa
     380Il piacer del serrarla a questo seno.
     E una dolcezza dentro mi sentìa
     Da non dirsi, e godea che indegno almeno
     De’ cari amplessi io non facea ritorno,
     Di qualche bella cicatrice adorno.
385In val di Varo, già narrailo, siede
     L’umil terra ove nacqui. Frettoloso
     Ver quella adunque celerando il piede
     Odo annunzio per via fero e doglioso.
     Odo che le vicine erte possiede
     390Il vincitor nemico, odo ch’egli oso
     Fu di calarsi in suol Franco, e col fuoco
     Desolarlo e col ferro in ogni loco.

Di mio villaggio fo dimanda, e tutto
     Da’ barbari l’intendo per feroce
     395Rabbia, correa due giorni, arso e distrutto.
     Mi strinse il gel le vene a quella voce.
     Palpitando proseguo, e già condutto
     Mi son davanti al suol natìo. Veloce
     Raddoppio il passo, e m’apparisce, entrando
     400Spettacolo crudele e miserando.
Avean le fiamme intorno orribilmente
     Divorate le case, e su la scura
     Solitaria ruina alto un tacente
     Orror regnava e il lutto e la paura.
     405Irto i crini, e col cor che il danno sente
     Pria che lo vegga, alle paterne mura
     Tremante, ansante mi sospingo; ed arse
     Tutte le trovo, e al suol crollate e sparse.
Se’ tu fuggita in salvo, o sotto questa
     410Macerie orrenda, o madre mia, sei chiusa?
     Ecco il crudo pensier che alla funesta
     Vista mi corse nell’idea confusa.
     Gridai, gente cercai: tutto era mesta
     Solitudin. Tenea la circonfusa
     415Oste i colli imminenti, e non ardiva
     Uomo appressarsi alla deserta riva.

Nell’orribile dubbio odo un lamento
     D’afflitta belva, un ululato acuto
     Che uscìa di mezzo alle ruine, e il sento
     420In suon che sembra dimandarmi ajuto.
     Salgo, ed ahi! veggo (umano sentimento,
     Vieni e impara pietà), veggo giaciuto
     Là sul rottame il mio Melampo, antico
     De’ nostri lari e sempre fido amico.
425Mi riconobbe ei sì, ma non diè segno
     Dell’usata esultanza il doloroso;
     E d’amor e di fede unico pegno
     Alzò la testa e mi guardò pietoso.
     Poi si diè ratto con umano ingegno
     430A raspar le macerie, e lamentoso
     Ululando e scavando tuttavolta,
     Dir parea: La tua madre è qui sepolta.
E, ohimè! che vero ei disse; ohimè! che quanto
     M’era dolor serbato io non sapea!
     435Misera madre!... E qui ruppe in un pianto,
     Che degli occhi due fonti gli facea.
     Pianse percosso di pietade il santo
     Veglio, pianse Malvina, ed attendea,
     Già disposta a maggior duolo, dal caro
     440Labbro la fine del racconto amaro.


Fine del Canto Sesto.


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