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IL BARDO
DELLA SELVA NERA.
CANTO SESTO.
Amor di patria, amor di gloria un fiero
Fan certame nel Duce; e d’armi instrutto
Prepotenti è ciascun. Vince il primiero.
In magnanimo cor la patria è tutto.
5Sol di questa il dolor gli empie il pensiero:
Arde già di partir, già sopra il flutto
Vola il suo spirto, già le rive afferra,
Già vendica l’onor della sua terra.
D’Acri gli allóri su l’infranto muro
10Gli mostrava la Gloria, e gli dicea:
Vieni, prendi, son tuoi, monta securo:
Ed ei voltate già le spalle avea.
Un lauro più d’assai bello e più puro
Di qua dal mare il suo pensier vedea;
15Di questo solo ei vuol la fronte adorna.
Francia, t’allegra; Italia, sorgi: Ei torna.
Ma senza memoranda alta vendetta
Non fia no dell’Invitto il dipartire.
Intégra e degna dell’Eroe l’aspetta
20De’ forti il sangue estinti in Abukire;
E tal l’ebbe. Su l’onda maladetta
Le Gallich’ombre si placáro e l’ire.
Di Turca strage il mar crebbe, e l’ondosa
Faccia sparì da tanti corpi ascosa.
25Spente le forze de’ nemici, e ogn’uopo
Dell’armata provvisto, al lido aduna
I suoi più fidi il Duce, e dal Canopo
Salpa; e nocchiera in poppa ha la Fortuna.
Nè fragil prora vi fu pria, nè dopo
30Mai l’onde ne vedranno altra veruna
Di tanto carco. Il cor, cui poco è il Mondo,
Quel cor si cela in quell’angusto fondo.
Contra le vele del fatal naviglio,
Conscj forse del Dio ch’ei porta in grembo,
35Non osano di far lite e scompiglio
I venti: dorme la procella e il nembo.
Solo increspa con placido bisbiglio
Dolce un Levante alla marina il lembo:
E l’onda intanto, Chi è Costui, dir pare,
40A cui l’aria obbedisce, e serve il mare?
E certo il mar sentìa che su quel legno
Navigava il valor che al fier Britanno
Farà caro costar dell’onde il regno,
Finchè ne spezzi lo scettro tiranno.
45Quindi parve d’uman senso dar segno
Il tremendo elemento, e un bello inganno
Fatto all’inglese insecutor schernito,
Pose il vindice suo salvo sul lito.
Come giunto s’udì l’alto Guerriero,
50Di giubilo delire a lui davante
Si versar le città lungo il sentiero:
Mise a tutti il piacer l’ali alle piante.
Ognun s’affretta e incalza, ognun primiero
Esser vuole a gioir del suo sembiante.
55BONAPARTE gridare i vecchi padri,
Iterar BONAPARTE odi le madri,
BONAPARTE i fanciulli, BONAPARTE
Rispondono le valli; e nell’ebbrezza
Di tanto nome, al vento inani e sparte
60Van le memorie d’ogni ria tristezza.
Nel tripudio ognun corre ad abbracciarte
Sia nemico, od amico: l’allegrezza
Non distingue i sembianti; un caro errore
Dona gli amplessi, e negli amplessi il core.
65Francia tutta del Magno alla venuta
Rizzossi; ne tremò l’Alpe, e l’avviso
Dienne all’itala donna. L’abbattuta
In mezzo al pianto lampeggiò d’un riso,
E serenossi. Ma in piè surta e muta
70Di maraviglia, Europa il guardo fiso
Su la Senna converse, ove sentía
Che alfin soluto il suo destino andría.
Qual, pria che fosse il mar, la terra, il cielo,
Del caos l’orrenda apparve atra mistura,
75Ove l’umido, il secco, il caldo, il gelo
Fean pugna, e muta si tacea natura;
Che tal, rimosso alla menzogna il velo,
Fusse di Francia il volto ti figura,
Quando il Magno a camparla dal Ciel fisso,
80Venne, quale già Dio sovra l’abisso.
E l’abisso in che l’egra era sepolta
Tutto il vide Egli sì. Vide il Delitto
Passeggiar venerato, e per istolta
Potenza fatto probitate e dritto.
85La Virtù vide di gramaglie avvolta,
Atterrati gli altari, Iddio proscritto,
La Giustizia mercato, e disciplina
Generosa la Frode e la Rapina.
Vide in bisso il codardo, e nudo il petto
90Del forte, il petto ancor del sangue brutto
Per la patria versato; e a rio banchetto
Di sue ferite divorato il frutto;
E spinte al cenno di vil duce inetto
Al macello le schiere, e omai già tutto
95Morto il bellico onor, morta la scuola
De’ prodi, e viva l’arroganza sola.
Fremè d’orrore e di pietade al diro
Spettacolo l’Eroe. Tutte discorre
Fra sè le vie, le guise, onde al martiro
100Di tanto scempio alfin la patria tòrre.
Vede, ovunque gli sguardi Ei volga in giro,
Di colpe orrende intreccio, e che a disciorre
Cotanto nodo il taglio mestier fea
Che del re Frigio il groppo un dì sciogliea.
105Dopo molte vegliate in questa cura
Torbide notti, alfin diè calma al vago
Pensier quel Dio che queta ogni rancura
Col ramo che di Lete intinse al lago.
Ed ecco in sogno manifesta e pura
110Tornargli innanzi la medesma immago
Che gli apparve in Sorìa. Mesta del letto
Su la sponda s’asside, e con affetto
Così prende a parlar: Figlio, il crudele
Mio stato il miri. A che ti stai? Sol una
115È la via di salute, ed infedele
All’alme dubitose è la fortuna.
In che mar di misfatti abbia le vele
Spinto il poter de’ molti, e che nessuna
Esser può libertade ove son tutti
120Liberi, il vedi: e assai n’ha il fatto istrutti.
Arroge, ch’ella è un’impossibil cosa
In vasto stato; arroge l’opulenza,
E lo splendor de’ vizj, e la sdegnosa
Di tutte leggi popolar licenza.
125Arroge la ribelle, imperïosa
Forza dell’uso, cui nè vïolenza
Non doma, nè lusinga; e in questo suolo
L’uso comanda il comandar d’un solo.
Sorgi dunque, e novello e più temuto
130Rïalza e premi il necessario trono.
Re codardo che fugge, ed ha potuto
Ne’ perigli lasciarmi in abbandono,
Re che vita non rischia, e fece acuto
De’ miei nemici il ferro, al mio perdono
135Chiuse ogni varco. Re vogl’io chi forte
Vola al mio scampo, non chi vuol mia morte.
Nell’arduo calle, a cui t’esorto, vedi
Vedi tu capo di regnar più degno?
China la fronte, ti ritira, e cedi,
140Ch’esser qui debbe del migliore il regno.
Ma se nullo t’è pari, è colpa, il credi,
Il tuo rifiuto, e d’alto cor non segno.
Le presenti e le tarde età vedranno
Questo vile rifiuto: e che diranno?
145Diran: stanca la Gallia d’una stolta
Libertà che a perir la conducea,
In mille parti scissa e capovolta
Un sommo e solo correttor chiedea.
Ogni brama, ogni speme era raccolta
150Nel fatal BONAPARTE: Ei la potea
Far salva Ei solo, e ad un poter funesto
Lasciolla in preda, e si fe’ reo del resto.
Diranno: I giorni del terror tornaro
Tinti di sangue; e BONAPARTE il volle.
155Rifisse la civil furia l’acciaro
Nel sen fraterno; e BONAPARTE il volle.
I delitti, atterrato ogni riparo,
Inondár Francia; e BONAPARTE il volle:
Ch’egli è un voler la colpa, ove i suoi passi
160Frenar potendo, imperversar la lassi.
Questa di mali, o Figlio, onda fremente
Franger non puossi che d’un trono al piede,
Al voler d’una sola arbitra mente,
Che all’utile comun ratta procede.
165Allor forte, allor grande, allor possente
Mi sarò tra le genti; allor fia sede
Di virtù vera la tua patria, or rio
Mar di vizj, ù ’l furor soffia di Dio.
Allor tremanti abbasseran le ciglia
170I re giurati; e tu sembiante al Sole,
Che fonte e centro della luce, imbriglia
De’ minor fuochi il giro e le carole,
Tu porrai loro il freno; allor la Figlia
Del tuo valor, che suo drudo non vuole
175Nè il Tedesco, nè il Geta, Italia bella
Dirà: di BONAPARTE ecco l’ancella.
E tu d’ancella la farai reina,
E il serto che portò Carlo, all’incude
Ritemperato di miglior fucina
180Locherai su la fronte alla virtude,
Alla virtù canuta e peregrina
Di Giovinetto Eroe, che in sen già chiude
Le tue vive scintille, e fia l’amore
Dell’Italo che giusto e caldo ha il core.
185Disse e sparve. Apre gli occhi, erge la testa
Il supremo Guerrier: cerca col guardo
Il fuggito fantasma, e alla tempesta
Del cor ben sente che non fu bugiardo.
Balza in piedi agitato. Era già desta
190La foriera del dì, già il primo dardo
Della luce le torri ardue fería,
E la vita spandea per ogni via.
A mirar l’ascendente astro divino
Fermossi; e in quella gli si fece appresso
195Il figlio del suo cor, che mattutino
Scendea del padre al consueto amplesso.
Di LUI parlo, ch’or fa lieto il destino
Dell’Italica Donna, e forte ha messo
La man pietosa entro sue piaghe, ond’ella
200A sanità già torna e si rabbella.
Dati e presi gli onesti abbracciamenti,
In che tace la lingua e parla il petto,
Contra i puri del Sol raggi sorgenti
Seder si fece al fianco il giovinetto;
205E gli uditi nel sonno eccelsi accenti
Pur volgendo nell’alma: O mio diletto,
Mira, disse, (e nel dir stendea la mano)
Come bello è del ciel l’astro sovrano.
Delle stelle monarca egli s’asside
210Sul trono della luce, e con eterna
Unica legge il moto e i rai divide
Ai seguaci pianeti e li governa.
Per lui natura si feconda e ride,
Per lui la danza armonica s’alterna
215Delle stagion, per lui nullo si spía
Grano di polve che vital non sia.
E cagion sola del mirando effetto
È la costante, eguale, unica legge,
Con che il raggiante imperador l’aspetto
220Delle create cose alto corregge.
Togli questa unità, togli il perfetto
Tenor de’ varj moti onde si regge
L’armonia de’ frenati orbi diversi,
E tutti li vedrai confusi e spersi;
225E l’un l’altro inghiottire, e furibondo
Il mar levarsi e divorar la terra,
E squarciarla i vulcani, e nel secondo
Caos gittarla gli elementi in guerra.
Figlio, in questa ruina (e dal profondo
230Cor sospirò) l’immagine si serra
Di nostra patria: cade la sua mole,
Perchè a’ suoi moti non è centro un Sole.
Tacque; e surto del loco ove sedea,
Gli occhi al suol fitti, e a passo or presto or lento
235Misurava la stanza; e sculto avea
Su la fronte l’interno agitamento.
Tra la primiera genitrice idea
Di perigliosa impresa, ed il momento
Dell’eseguire, l’intervallo è tutto
240Fantasmi; e bolle de’ pensieri il flutto.
Allor fiera consulta in un ristretti
Fan dell’alma i tiranni; e la raccolta
Ragion nel mezzo ai ribellati affetti
Sta, qual re tra feroci arme in rivolta.
245Ma prestamente, ove la Gloria getti
Nel mezzo il dado, quella lite è sciolta.
Tormenta i petti generosi allora
Il periglio non già, ma la dimora.
Tutto quel dì l’Eroe fu muto, e pronte
250Tutte sue forze rassegnò. Non tante
Scoppiar scintille fa il martel di Bronte
Sovra l’incude di Vulcano, quante
Scoppian le cure dentro quella fronte
Alla fronte di Giove simigliante,
255Quando Pallade ancor non partorita
Del cerébro immortal chiedea l’uscita.
Scese la notte; e in sogno ecco plorando
Tornar la stessa visïon, che in atto
Di sdegnoso dolor gli fea comando
260Di precider le lunghe al gran riscatto.
Surse il forte, e la man stesa sul brando,
O Patria, disse, t’obbedisco. E ratto
Nel raccolto Senato al nuovo Sole
Entra, e queste vi tuona alte parole:
265In quale stato vi lasciai, Francesi,
In qual vi trovo? Vi lasciai la pace,
Trovo guerra; lasciai conquiste, e scesi
Veggo dall’Alpi l’Alemanno e il Trace;
Lasciai lucenti di guerrieri arnesi
270Gli arsenali, e son vuoti. La vorace
Rapina ha tutto dissipato, eretta
In ria scïenza dal poter protetta.
Hanno esausto lo stato; il Nume è spento
Di Giustizia; nè senno, nè decoro
275Nel maneggio civil; qual vile armento
Spinti i soldati al marzïal lavoro.
Ove sono i miei figli? ove li cento
Mila fratelli che lasciai d’alloro
Carchi? che avvenne di cotanti forti?
280Mi rispondete; che ne fu? Son morti.
Morti, ahi! son della patria i difensori,
E vivi i tristi che la patria uccidono;
Vivi non pur, ma eccelsi e reggitori
Supremi al comun pianto empj sorridono.
285E delle leggi intanto i creatori
Senza consiglio, senza cor s’assidono
In venduto Senato: han sotto il piede
Spalancato l’abisso, e nullo il vede.
Ma d’infamia coperto e irrevocato
290Passò, lo giuro, de’ ribaldi il regno,
E della patria qui sul lacerato
Corpo il giura de’ prodi il santo sdegno.
Come vento tra scogli imprigionato
Fremè il Consesso a quel parlar già pregno
295Di vicina tempesta; ed una voce,
Lo Statuto, gridò cupa e feroce.
Lo Statuto? il Magnanimo riprese,
E l’accento suonò più che mortale.
Lo Statuto? ed ardisce alma Francese
300Oggi invocarlo? Lo Statuto? E quale?
Quello cui tante e tante volte offese
Delle parti il furor? quello in cui strale
Non è che fitto non sia stato? Un nome,
Che in fronte al giusto fa rizzar le chiome,
305Dunque un nome s’oppon, che soli affida
I traditori? un nome in cui delinque
Santamente ogn’iniquo, e il parricida
Poter si sacra tuttavia de’ Cinque?
E non udite ancor dunque le strida
310Che le rive lontane e le propinque
V’invian gridando: A terra, a terra l’empio
Statuto, o Franchi, e fine al patrio scempio.
Tremár di gioja ai generosi accenti
I pochi intégri, e di terrore i molti
315Perversi; e fuggir sotto i vestimenti
Più man fur viste, e trasmutarsi i volti.
A camparlo quel dì dai vïolenti
Ferri di questi o scellerati o stolti,
Fama è che intorno al perigliante Duce
320Fiammeggiar fu veduta una gran luce.
L’Angiol fu forse della patria, forse
Altro messo del ciel, che tolto al mondo
L’onor non volle de’ mortali, e torse
Il colpo che mettea Francia nel fondo.
325Di noi pietoso un Dio certo il soccorse,
Nè più bello a noi mai, nè più giocondo
Giorno brillò di questo, in cui la forte
Mano il fren prese della patria sorte.
Qual robusto di fianchi alto naviglio,
330Che privo di governo in mar crudele
Estremo corse d’annegar periglio,
Frante l’antenne, e lacere le vele;
Se di miglior piloto arte e consiglio
Il sottragge all’irata onda infedele,
335Sue ferite ristaura, e sul mar scuro
Le tempeste a sfidar torna securo;
Cotal la grande Nazïon rinvenne,
Chè Grande allor veracemente emerse,
E sanò le sue piaghe, e di solenne
340Luce vestita ogni squallor deterse.
Le virtù fuggitive in bianche penne
Tornár. Giustizia racconciò le sperse
Rotte bilance, e dal Furor segnate
Cancellò le rubriche insanguinate.
345La Concordia rifulse, e di catene
Indissolute la nemica avvinse,
Franse gli empj pugnali in su l’arene
Angle temprati, e l’ire tutte estinse.
La virtù che di Dio nell’uom mantiene
350La riverenza, la virtù che strinse
Col ciel la terra, più graditi e cari
Bruciò gl’incensi su i risurti altari.
Ebber norma ed impulso e vigoría
I diversi doveri; e d’un sol fiato
355Tutti sospinti per diversa via
Mossersi a gara ad animar lo Stato.
Così volge sue rote in armonía
L’ordigno che misura il tempo alato;
Hanno vario il cammino e vario il volo
360Tutte; ma il punto che le move è un solo.
E le scïenze intanto e le sorelle
Arti splendor de’ regni, e formatrici
D’almi costumi, senza cui nè belle
Son le città, nè i troni unqua felici,
365Schiuser liete i lor templi; e di novelle
Ghirlande ornate, con più fausti auspíci
Ricominciár lor riti, e ogni villano
Costume entrato ne cacciár lontano.
Così tutte lasciò Francia le brune
370Spoglie del lutto, e rivestissi il manto
Di sua grandezza. Io sol nella comune
Letizia, ahi lasso! io mi fui solo al pianto.
Redir d’Egitto, e alle paterne cune
Volar fu il primo mio desire. Un santo
375Dover spingea quest’alma intenerita
Ad abbracciar colei che mi diè vita.
Movo ratto di Frejo, e per la via
Di lei sola il pensier tutto ripieno,
Anticipando nel mio cor venìa
380Il piacer del serrarla a questo seno.
E una dolcezza dentro mi sentìa
Da non dirsi, e godea che indegno almeno
De’ cari amplessi io non facea ritorno,
Di qualche bella cicatrice adorno.
385In val di Varo, già narrailo, siede
L’umil terra ove nacqui. Frettoloso
Ver quella adunque celerando il piede
Odo annunzio per via fero e doglioso.
Odo che le vicine erte possiede
390Il vincitor nemico, odo ch’egli oso
Fu di calarsi in suol Franco, e col fuoco
Desolarlo e col ferro in ogni loco.
Di mio villaggio fo dimanda, e tutto
Da’ barbari l’intendo per feroce
395Rabbia, correa due giorni, arso e distrutto.
Mi strinse il gel le vene a quella voce.
Palpitando proseguo, e già condutto
Mi son davanti al suol natìo. Veloce
Raddoppio il passo, e m’apparisce, entrando
400Spettacolo crudele e miserando.
Avean le fiamme intorno orribilmente
Divorate le case, e su la scura
Solitaria ruina alto un tacente
Orror regnava e il lutto e la paura.
405Irto i crini, e col cor che il danno sente
Pria che lo vegga, alle paterne mura
Tremante, ansante mi sospingo; ed arse
Tutte le trovo, e al suol crollate e sparse.
Se’ tu fuggita in salvo, o sotto questa
410Macerie orrenda, o madre mia, sei chiusa?
Ecco il crudo pensier che alla funesta
Vista mi corse nell’idea confusa.
Gridai, gente cercai: tutto era mesta
Solitudin. Tenea la circonfusa
415Oste i colli imminenti, e non ardiva
Uomo appressarsi alla deserta riva.
Nell’orribile dubbio odo un lamento
D’afflitta belva, un ululato acuto
Che uscìa di mezzo alle ruine, e il sento
420In suon che sembra dimandarmi ajuto.
Salgo, ed ahi! veggo (umano sentimento,
Vieni e impara pietà), veggo giaciuto
Là sul rottame il mio Melampo, antico
De’ nostri lari e sempre fido amico.
425Mi riconobbe ei sì, ma non diè segno
Dell’usata esultanza il doloroso;
E d’amor e di fede unico pegno
Alzò la testa e mi guardò pietoso.
Poi si diè ratto con umano ingegno
430A raspar le macerie, e lamentoso
Ululando e scavando tuttavolta,
Dir parea: La tua madre è qui sepolta.
E, ohimè! che vero ei disse; ohimè! che quanto
M’era dolor serbato io non sapea!
435Misera madre!... E qui ruppe in un pianto,
Che degli occhi due fonti gli facea.
Pianse percosso di pietade il santo
Veglio, pianse Malvina, ed attendea,
Già disposta a maggior duolo, dal caro
440Labbro la fine del racconto amaro.
Fine del Canto Sesto.