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In un gran camerone, malamente rischiarato e peggio ventilato, posto in Portugalstreet, Lincoln’s Inn fields, sedevano quasi tutto l’anno uno, due, tre o quattro barbassori in parrucca, — secondo i casi, — davanti a certe piccole scrivanie tirate a pulitura tutt’altro che pulita: un banco per gli avvocati a destra; a sinistra un cancello di debitori insolvibili; e dirimpetto un piano inclinato di facce singolarmente sudicie. Sono questi barbassori i Commissari della Corte per gli Insolvibili, e il luogo stesso delle sedute loro è la Corte in questione.
È da notare che il destino di questa Corte è stato sempre da tempo immemorabile ed è tuttavia di esser ritenuta, per un verso o per un altro, da tutta la classe della gente scaduta come una comune risorsa ed un luogo di quotidiano rifugio. La si trova piena sempre. I vapori della birra e dei liquori si levano di continuo al soffitto, e condensati dal calore, scorrono come pioggia giù per le pareti: vi sono più abiti vecchi in una volta sola che non se n’offrano in vendita in tutto il quartiere di Houndsditch in dodici mesi di fila; e più faccie sudicie e barbe grigie che tutte le pompe e i barbieri tra Tyburn e Witechapel non potrebbero render decenti in ventiquattr’ore di assiduo lavoro.
Non bisogna supporre che vi siano di quelli fra questa gente, i quali abbiano il menomo affare o la più lontana relazione col luogo così assiduamente frequentato. Se così fosse, la cosa sarebbe naturalissima. Alcuni se la dormono per la maggior parte della seduta; altri si portano il loro pranzetto avvolto nel fazzoletto o ficcato nelle tasche consunte, e con egual voluttà ascoltano e vanno sbocconcellando; ma di nessuno di loro si seppe mai che avesse il menomo interesse personale nel caso venuto in discussione. Checchè facciano, certo è che di là non si muovono dal primo all’ultimo momento. Quando il tempo è piovoso, entrano tutti fradici, e in questi casi i vapori della Corte sono simili a quelli di un pantano.
Chi per avventura si trovasse a visitare quel luogo, lo scambierebbe facilmente con un tempio consacrato al Genio della Sciattaggine. Non c’è un fattorino o un usciere che indossi un abito fatto per lui; non un solo uomo di aspetto sano o giovane, meno un piccolo usciere dai capelli bianchi e dal viso di pesca, ed anch’egli, come una cattiva ciliegia posta nello spirito, sembra essere stato artificialmente seccato in uno stato di conservazione, del quale non può vantare alcun merito. Perfino le parrucche dei magistrati sono male incipriate e peggio arricciate.
Ma gli avvocati, i quali siedono dietro un tavolone sotto ai Commissari, sono insomma le più spiccate curiosità. La suppellettile professionale del più opulento fra questi signori consiste in una sacca turchina e un ragazzo, per lo più ebreo. Non hanno studio stabile, e sbrigano le loro faccende legali nelle osterie o nei cortili delle prigioni, dove convengono a stormo e si bisticciano e si dànno attorno pei clienti, allo stesso modo dei conduttori di omnibus. L’untume e il colorito li caratterizzano; e se di qualche vizio possono esser tacciati, forse si potrebbe dire con un certo fondamento ch’essi sono specialmente beoni e imbroglioni. Dimorano generalmente nel circuito d’un miglio dall’obelisco di san Giorgio. Non hanno una grande impotenza di aspetto e i modi loro sono speciali.
Il signor Salomone Pell, membro di questa dotta corporazione, era un uomo grasso, floscio e pallido, con un soprabito che un po’ pareva verde e un po’ grigio, ornato di un bavero di velluto dalle tinte non meno camaleontiche. Aveva la fronte bassa, la faccia larga, il capo grosso, e il naso tutto da una parte, come se la Natura, sdegnata delle male tendenze manifestatesi in lui fin dalla culla, avesse appioppato a quella escrescenza una botta stizzosa dalla quale ei non s’era poi più rimesso. Essendo però asmatico e di collo corto, ei respirava specialmente per via di quell’organo; sicchè il difetto di venustà era forse compensato dall’utilità.
— Son sicuro di cavarnelo, — disse il signor Pell.
— Davvero? — domandò la persona cui le parole erano dirette.
— Davverissimo. Ma se si fosse indirizzato ad uno di cotesti guastamestieri, badate veh! non avrei mica risposto delle conseguenze.
— Ah! — fece l’altro con la bocca aperta.
— No, non avrei risposto, — ripetette il signor Pell, sporgendo il labbro, corrugando la fronte e crollando misteriosamente il capo.
Ora il luogo dove questo discorso tenevasi era l’osteria di faccia alla Corte degli Insolvibili; e la persona cui l’avvocato dirigevasi era nè più nè meno che il signor Weller seniore, venuto lì per confortare un suo amico, la cui istanza per esser rilasciato libero doveva essere udita quel giorno stesso.
— E dov’è Giorgio? — domandò il vecchio.
Il signor Pell accennò col capo verso una camera in fondo, dove il signor Weller subito si diresse. Fu accolto con le più calde ed affettuose dimostrazioni da una mezza dozzina di colleghi. L’amico insolvibile, che avea contratto una passione, speculativa sì ma imprudente, per le poste di cavalli, passione che lo avea tratto negli impicci presenti, stava benone di aspetto e andava temperando l’eccitazione dei suoi sentimenti con un piatto di gamberi e una bottiglia di vino.
Il saluto tra il signor Weller e i suoi amici si limitò strettamente alla francomassoneria del mestiere; cioè ad un movimento del mignolo destro con la palma rivolta in su. Abbiamo conosciuto una volta due famosi vetturini — morti oggi, poveri diavoli — i quali erano gemelli e si volevano un gran bene. S’incontravano tutti i giorni sulla strada di Dover per ventiquattro anni di fila, non salutandosi mai altrimenti che a quel modo; eppure, quand’uno morì, l’altro cadde in malinconia e lo seguì di lì a poco!
— Ebbene Giorgio, — disse il signor Weller seniore, togliendosi il pastrano e mettendosi a sedere con la solita sua gravità. — Come si va? Tutto all’ordine sull’imperiale e pieno di dentro?
— Tutto d’incanto, camerata, — rispose l’amico in imbarazzo.
— È al sicuro la giumenta grigia? — domandò con ansietà il signor Weller.
Giorgio accennò di sì col capo.
— Bravo così. Anche alla carrozza s’è pensato?
— Consegnata e messa in salvo, — rispose Giorgio, tirando il capo a una mezza dozzina di gamberi e ingoiandoli senz’altri complimenti.
— Benissimo, benissimo. Occhio alla martinicca quando si va giù per la discesa. È in regola il foglio di via?
— I conti, signore, — disse Pell, indovinando il pensiero del signor Weller, — sono i più chiari e soddisfacenti che penna ed inchiostro abbiano mai fatti.
Il signor Weller con una crollatina del capo diè a conoscere la sua intima soddisfazione, e poi voltosi al signor Pell disse, indicando l’amico Giorgio:
— Quando è che gli togliete la coperta?
— Si trova iscritto il terzo nella lista, e credo che verrà la sua volta da qui a mezz’ora. Ho detto al mio giovane che ci venisse ad avvertire subito che ci fosse una probabilità.
Il signor Weller squadrò l’avvocato da capo a piedi con grande ammirazione e gli domandò con enfasi:
— E che prendereste, signore?
— Ma, davvero, — rispose il signor Pell, — siete troppo... Parola d’onore, io non ho l’abitudine di... Così di buon’ora, capite, io sono quasi... In tutti i modi, portatemi per tre pence di rum, carina.
La ragazza dell’osteria che avea prevenuto l’ordine, posò il bicchiere di liquore davanti a Pell e si ritirò.
— Signori, — disse il signor Pell guardando intorno alla brigata, — al buon successo del vostro amico. A me non piace vantarmi; non è la mia abitudine; ma non posso tacere che se il vostro amico non avesse avuto la fortuna di capitare in mano di uno che... ma no, non voglio dire più oltre. Signori, alla vostra salute!
E vuotato in un batter d’occhio il bicchiere, il signor Pell si passò la lingua sulle labbra e volse uno sguardo di compiacenza sui cocchieri che gli stavano intorno e che evidentemente lo riguardavano come una specie di divinità.
— Vediamo un po’, — disse l’autorità legale, — che cosa dicevo dunque?
— Dicevate, credo, che non avreste trovato difficoltà a farvene venire un secondo, — suggerì con faceta gravità il signor Weller.
— Ah, ah! — disse ridendo il signor Pell, — non c’è male, non c’è male davvero. Di mattina però... e a quest’ora... sarebbe proprio un... Via, tant’è che... Portatene un altro, vediamo. Hem!
Quest’ultimo suono fu un colpo di tosse solenne e dignitoso, che al signor Pell parve indispensabile, accorgendosi di una indecente propensione all’allegria che s’andava manifestando fra’ suoi uditori.
— Il defunto Lord Cancelliere, o signori, mi voleva un gran bene, — disse il signor Pell.
— Ecco una cosa che gli faceva molto onore, — interruppe il signor Weller.
— Udite, udite! — esclamò il cliente del signor Pell. — E perchè non gliene dovea volere?
— Ah sicuro, perchè? — ripetette un uomo tutto rosso in viso, che non ancora aveva aperto bocca e che non pareva dovesse aprirla altrimenti. — Perchè non gliene dovea volere?
Un mormorio di approvazione corse per la brigata.
— Mi ricordo, o signori, — riprese il signor Pell, — di una certa occasione in cui ero a pranzo con lui: io e lui a quattr’occhi, ma ogni cosa con una sontuosità e una ricchezza come per venti persone che dovessero arrivare. Il gran sigillo sopra una mensoletta a destra, ed un uomo in gran parrucca e grande uniforme a guardia del bastone, con la spada sguainata e le calze di seta. E questo, signori miei, è sempre, tutti i giorni allo stesso modo. Quando a un tratto mi dice: "Pell, da parte ogni falsa modestia. Voi, Pell, siete un uomo di genio; voi potete distrigare chi più vi piaccia dalla Corte degli Insolvibili; e il paese, Pell, dovrebbe essere superbo di voi."Queste furono le sue precise parole. "Voi mi adulate, Eccellenza"diss’io. "Pell"rispose lui! "se vi adulo, voglio essere dannato!"
— Disse proprio così? — domandò il signor Weller.
— Proprio.
— Ebbene, io per me dico che il Parlamento gli avrebbe dovuto pigliar tanto di multa; e se fosse stato un pover’uomo, scommetto che gliel’avrebbero pigliata.
— Ma, mio caro amico, — fece osservare il signor Pell, — si era in confidenza, capite.
— In che?
— In confidenza.
— Ah, va benissimo! — rispose dopo un po’ di riflessione il signor Weller. — Se si dannò in confidenza, naturalmente gli è un altro par di maniche.
— Naturalmente. La distinzione è ovvia, come vedete.
— Altera il caso da cima a fondo, — disse il signor Weller. — Andiamo avanti, signore.
— No, non andrò avanti, signore, — rispose Pell in tono cupo e serio. — Voi mi avete ricordato che quel colloquio era privato — privato e confidenziale, o signori. Io sono un uomo pubblico, signori. Può essere che di me, nella mia professione, si faccia una grande stima — può essere che no. Il pubblico lo sa. Io non dico nulla. Sono già state fatte qui, in questa camera, delle osservazioni oltraggiose alla riputazione del mio nobile amico. Scusatemi, o signori. Sono stato imprudente. Io sento di non aver alcun diritto di accennare a questo argomento senza il suo concorso. Grazie, signore, grazie di avermelo rammentato.
E così favellando, il signor Pell si cacciò le mani in tasca, e volgendosi intorno con un fiero cipiglio, fece suonare due pence e mezzo con terribile determinazione.
Fatta appena e dichiarata questa virtuosa risoluzione, il ragazzo e la sacca turchina, compagni inseparabili, entrarono di furia e dissero (cioè il ragazzo disse, perchè la sacca turchina non aprì bocca), che la causa stava per esser chiamata. A questo tutta la brigata si precipitò subito fuori e si diè a combattere per penetrare nella Corte, — cerimonia preparatoria che, secondo si è calcolato, suol pigliare nei casi ordinari dai venticinque ai trenta minuti.
Il signor Weller, robusto com’era, si cacciò in mezzo alla folla con la disperata speranza di capitare alla fine in un posto che gli convenisse. Il successo non corrispose però alle sue aspettazioni, perchè non avendo preso la precauzione di togliersi il cappello, se lo sentì calcato sugli occhi da una persona invisibile, sui piedi della quale egli avea pestato con una certa forza. Ma questo signore si dovette subito pentire della sua impetuosità, perchè borbottando una distinta esclamazione di sorpresa, tirò il vecchio da parte nel cortile, e dopo molti sforzi riuscì a liberargli il capo e la faccia.
— Samuele! — esclamò il signor Weller, quando potette scorgere e riconoscere il suo liberatore.
Sam fece di sì col capo.
— Evviva sempre il rispetto figliale, eh? — fece il signor Weller. — Bravo, bambino! dare una latta al vostro sìgnor padre nella sua vecchiezza!
— Come potevo sapere ch’eravate voi? — rispose il figlio. — Vi figurate forse che avrei dovuto indovinare dal peso?
— Cotesto è vero, Sam, — rispose il signor Weller ammansito. — Ma che fate voi qui? Il vostro padrone non ci può guadagnar nulla qui. Quel verdetto non glielo passano, no, Sam, che non glielo passano!
E il signor Weller crollò il capo con solennità forense.
— Vedi un po’ che testone d’un vecchio!— esclamò Sam; — sempre coi suoi verdetti e cogli alibì che il diavolo se li porti. O chi ha parlato di verdetto?
Il signor Weller non rispose, ma tornò più profondamente a crollare il capo.
— Smettiamola con cotesto scampanare, se non volete che vi caschi il battaglio, — disse Sam con impazienza. — Ragioniamo un po’, perbacco! Iersera son venuto a posta a cercar di voi al Marchese di Granby.
— E avete visto la signora marchesa, Sam? — domandò sospirando il signor Weller.
— L’ho vista.
— Come stava quella cara creatura?
— Curiosa di molto. Credo che si vada rovinando giorno per giorno con quel suo rum e con altre medicine dello stesso genere.
— Davvero, davvero, Sam?
— Parola d’onore.
Il signor Weller afferrò la mano del figlio, la strinse e la lasciò ricadere; e in quest’atto mostrava in viso una espressione, non già di timore o di dispiacenza, ma che piuttosto portava la dolce impronta della speranza. Un raggio di rassegnazionc e quasi di allegrezza gli rischiarò poi la faccia, mentre lentamente gli diceva:
— Io non son mica certo, Sam, e non ci metterei la mano sul fuoco per non avere il dolore di trovarmi bugiardo, ma io ho paura, bambino mio, ho gran paura che il vicepastore abbia pigliato il mal di fegato.
— Ha un brutto viso? — domandò Sam.
— È pallido come un cencio di bucato, all’infuori del naso ch’è più rosso che mai. L’appetito va così così, ma in quanto al bere è una vera spugna.
Qualche pensiero associato al rum dovette assalire in quel punto la mente del signor Weller, perch’ei si fece triste e meditabondo: ma subito si riebbe, come diceva chiaro un completo alfabeto di strizzate d’occhio e di smorfie, alle quali ei soleva abbandonarsi quando si sentiva particolarmente soddisfatto.
— Orsù, — disse Sam, — veniamo a noi. Aprite un po’ coteste orecchiaccie e acqua in bocca se prima non finisco di parlare.
Con questa breve prefazione, Sam riferì succintamente l’ultimo e memorabile colloquio avuto col signor Pickwick.
— E ha da star lì dentro, solo come un cane, povero signore! — esclamò il signor Weller seniore; — senza nessuno che ne pigli le parti! No, Sam, questo non può essere; non può essere, Sam!
— Naturalmente che non può essere, — confermò Sam; — lo sapevo da me, prima di venir qua.
— Se lo mangeranno vivo, corpo di bacco, se lo mangeranno, Sam!
Sam accennò col capo di essere della stessa opinione.
— Ei c’è entrato un po’ crudo, Sam, — disse metaforicamente il signor Weller, — e ne uscirà così bruciato che i suoi amici più stretti non lo conosceranno. Il piccione arrosto, Sam, non è nulla a confronto.
Sam assentì di nuovo col capo.
— E la cosa, Sam, non può andare a questo modo.
— Non deve andare.
— No di certo.
— Basta mo, avete profetizzato abbastanza, come quel Nixon dalla faccia rossa che i pittori fanno sugli almanacchi.
— Chi era costui, Sam?
— Lasciamo stare chi era e chi non era. Cocchiere non era di certo, e questo vi basti.
— Ho conosciuto un famiglio di questo nome, — disse tutto pensoso il signor Weller.
— Non era lui. Questo qui che dico io era un profeta.
— E che è un profeta? — domandò il signor Weller, fissando severamente il figliuolo.
— Perbacco, un uomo che vi dice quel che deve accadere.
— Avrei proprio voluto conoscerlo, Sam. Forse avrebbe potuto gettare un po’ di luce su quella faccenda del fegato di cui si parlava or ora. Se è morto però, e se non ha lasciato ad alcuno il mestiere, non se ne parli più. Avanti, Sam, — disse il signor Weller con un sospiro.
— Ebbene, — riprese Sam, — voi avete profetizzato su quel che accadrà al padrone se lo si lascia solo. Non trovate un modo qualunque di riparare alla cosa?
— No, Sam, non lo trovo.
— Proprio no?
— Proprio no... a meno che... (e un raggio d’intelligenza gli rischiarò la faccia mentre abbassando la voce egli applicava la bocca all’orecchio del suo rampollo), a meno che non lo si tiri fuori avvoltolato in un materasso o vestito da vecchia con un velo verde per farlo passare sotto il naso dei carcerieri.
Sam Weller ricevette i due suggerimenti con inatteso disprezzo, e pose di nuovo la sua questione.
— No, — rispose il vecchio; — s’ei vuole star solo, non ci vedo nessuna uscita.
— Ebbene, ora vi dirò come la penso io, — disse Sam. — Voi mi farete il piacere di prestarmi venticinque sterline.
— O perchè mo?
— A cotesto non ci pensate. Se me lo domandate cinque minuti dopo, è anche probabile che io tagli netto e vi risponda di non voler pagare. Non vorrete mica fare arrestare il vostro proprio figlio e mandarlo in prigione, vecchiaccio snaturato?
A questa risposta di Sam, padre e figlio si scambiarono un codice completo di cenni e gesti telegrafici, dopo di che il signor Weller seniore si gettò a sedere sopra uno scalin di pietra e tanto rise che divenne paonazzo.
— Bietolone che non siete altro! — esclamò Sam, arrabbiato per questa perdita di tempo. — Che fate costì a sedere, come un mascherone di fontana, mentre c’è tanto da fare? Orsù, dov’è il danaro?
— Nello stivale, Sam, nello stivale, — rispose il signor Weller calmandosi. — Tenetemi un po’ il cappello, così.
E il signor Weller, piegato il corpo da una parte e ficcata la mano diritta in una tasca profonda dei calzoni, riuscì dopo molta fatica ad estrarne un taccuino in ottavo legato da una grossa correggia di cuoio. Ne estrasse anche un paio di mozzoni di frusta, tre o quattro fibbie, un sacchetto campione di avena, e finalmente un rotoletto di biglietti di banca molto sudici, dal quale tolse la somma richiesta e la porse a Sam.
— Ed ora, Sam, — disse poi quando i mozzoni, le fibbie e il campione furono rimessi a posto, e il taccuino depositato di nuovo nel fondo della medesima tasca, — ed ora, Sam, io conosco qui un certo signore che ci sbrigherà il resto dell’affare in quattro e quattr’otto. Un pezzo grosso della legge, Sam, che è tutto cervello da capo a piedi come le rane; un amico del Lord Cancelliere, che gli basta sapere in due parole quel che vi bisogna, per farvi mettere in gattabuia per tutta la vita.
— No, no, lasciamo andare, — disse Sam.
— Che cosa?
— Cotesti mezzi incostituzionali. Il corpus, dopo il moto perpetuo, è la più bella invenzione che si sia mai fatta. Questo l’ho letto nei giornali tante volte.
— Bè, e che s’ha da fare con cotesto corpus?
— S’ha da fare, che mi servirà a mettermi dentro. Lasciamo andare il Cancelliere, che non mi par troppo sicuro per la faccenda dell’uscire.
Cedendo su questo punto al sentimento del figlio, il signor Weller cercò subito dell’erudito Salomone Pell, e lo informò del suo desiderio di far spiccare un atto di arresto per la somma di lire sterline venticinque, aggiuntevi le spese del processo, da eseguire senza dilazione sulla persona del signor Samuele Weller: rimanendo inteso che le spese relative fossero pagate con anticipazione a Salomone Pell.
L’avvocato era di ottimo umore, visto che il suo cliente era stato senza molta fatica rimandato libero. Lodò calorosamente la devozione di Sam verso il padrone; dichiarò che essa gli ricordava i propri sentimenti verso l’amico suo, il Cancelliere, e senz’altro menò il signor Weller seniore al Tempio per prendere il giuramento di debito, che il galoppino, assistito dalla sacca turchina, avea disteso sopra luogo.
In questo mentre Sam, presentato al cocchiere assoluto ed agli amici di lui in qualità di figlio del signor Weller della Belle Sauvage, fu trattato con singolare riguardo e invitato a festeggiare in loro compagnia la lieta occasione, — invito ch’egli accettò senza farselo dir due volte.
L’allegria di questa classe di gentiluomini è generalmente piuttosto seria e tranquilla; ma nel caso attuale, trattandosi di un’insolita festa, tutti quanti dal più al meno allentarono un po’ la briglia. Dopo alcuni brindisi piuttosto tumultuosi in onore del Commissario Capo e del signor Salomone Pell, che aveva in quel giorno spiegato una così trascendente abilità, un signore dal viso tutto forunculi e avvolto in uno scialle turchino propose che qualcuno della brigata cantasse una canzone. La cosa più naturale era che egli stesso, avendone tanta voglia, la cantasse; ma il proponente con molta bruscheria e con aria offesa vi si rifiutò; il che, come suole, diè motivo ad un alterco piuttosto vivace.
— Signori, — disse il cocchiere rimandato libero, — anzi che disturbare l’armonia di questa bella festa, forse il signor Samuele Weller ci farà lui l’onore di contentare la compagnia.
— Davvero, signori miei, — rispose Sam, — io non son troppo abituato a cantare senza lo strumento: ma tutto pel quieto vivere, come disse il marinaio quando fu nominato custode della lanterna del molo.
Con questo preludio, il signor Samuele Weller intonò la selvaggia e bellissima leggenda che noi ci prendiamo la libertà di riferire qui appresso avendo ragione di credere che non sia generalmente conosciuta. Richiamiamo la particolare attenzione del lettore sul monosillabo in fine del secondo e del quarto verso, che mentre da una parte permette al cantore di pigliar fiato in quel punto, giova dall’altra e non poco alla sonorità del metro.
Romanza.
I
Un giorno Turpino, l’allegro brigante,
Cavalca, cavalca la brava giumenta... ah!
Quand’ecco ad un tratto, la tarda e pesante
Carrozza del vescovo venirgli davanti... eh!
Senz’altro Turpino le redini allenta
Disfrena a galoppo la bestia sbuffante
E giunto al buon punto s’affaccia bel bello
Al basso sportello.
E grida il vescovo: Se il pane è pane,
Se il vino è vino,
Questi è quel cane,
Questi è Turpino, questi è Turpino.
CORO.
E grida il vescovo: Se il pane è pane,
Se il vino è vino
Questi è quel cane,
Questi è Turpino, questi è Turpino.
II.
Risponde Turpino: Cacciarti vo’ in gola
Un tocco di palla che vale una mela... ah!
Cacciarti vo’ in gola, salvando la stola,
Quel cane con salsa di buona scagliola... eh!
E mentre spaurito il vescovo bela
In bocca gli spara la brava pistola.
Non piace al cocchiere pistola nè schioppo
E scappa a galoppo.
Turpino appioppagli dietre le spalle,
Quattro e quattr’otto,
Due buone palle,
E fa il cocchiere fermar di botto.
CORO (con tono di sarcasmo).
Turpino appioppagli dietro le spalle,
Quattro e quattr’otto,
Due buone palle,
E fa il cocchiere fermar di botto.
— Io sostengo che cotesta canzone è diretta ad offendere la professione, — disse il signore dai forunculi, interrompendo. — Domando il nome di cotesto cocchiere.
— Nessuno l’ha mai saputo, — rispose Sam. — Non gli fu trovato in tasca il biglietto di visita.
— Io mi oppongo all’introduzione della politica, — riprese l’altro. — Fo osservare che, nella compagnia presente, questa canzone qui è una canzone politica, e che non è vera, il che torna lo stesso. Io dico che cotesto cocchiere non è scappato, ma che morì da bravo, sul posto, come un eroe; e non sopporto niente affatto che si dica il contrario.
Siccome il signore dai forunculi parlava con grande energia e determinazione, e siccome i pareri della brigata parevano divisi sul soggetto, un novello alterco si sarebbe forse acceso, se molto a proposito non fossero arrivati il signor Weller e il signor Pell.
— Tutto va bene, Sam, — disse il signor Weller.
— L’usciere sarà qui alle quattro, — disse il signor Pell. — Spero bene che non ve ne scapperete in questo mentre, eh? Ah! ah!
— Chi sa che intanto quel crudelaccio di mio padre non si ammansisca, — rispose Sam ridendo.
— Per me no, — disse il signor Weller seniore.
— Via mo!
— Nemmeno per tutto l’oro del mondo!
— Vi farò tanti biglietti per scontare il debito a sei pence al mese.
— Non li voglio.
— Ah, ah, ah! bravo, bravo! — esclamò il signor Salomone Pell che distendeva durante questo dialogo il suo conticino delle spese; — graziosissimo incidente! Copiate questo, Beniamino.
E il signor Pell sorrise di nuovo chiamando sull’ammontare della somma l’attenzione del signor Weller.
— Grazie, grazie, — disse poi pigliando dalle mani del signor Weller, che l’aveva estratto dal famoso taccuino, un altro dei biglietti sudici. — Tre sterline e dieci più una e dieci fanno cinque. Obbligatissimo, signor Weller. Vostro figlio è un bravissimo ragazzo. Gran bel tratto per un giovane, gran bel tratto! — aggiunse il signor Pell, sorridendo blandamente intorno nell’abbottonarsi dopo aver intascato la moneta.
— Bella idea, eh! — disse il signor Weller seniore con un orgoglio di compiacenza. — Un vero ragazzo prodigio!
— Prodigo, volete dire, prodigo, — suggerì dolcemente il signor Pell.
— Lasciamo andare, — rispose con gran dignità il signor Weller. — Io so che ora è, signore. Quando non lo saprò, lo domanderò a vossignoria.
Arrivò intanto l’usciere. Sam era già divenuto così popolare che tutti i nuovi amici deliberarono di accompagnarlo in corpo fino alla prigione. Mossero adunque, il debitore e il creditore a braccetto, l’usciere avanti, e otto robusti vetturini facienti da retroguardia. A1 caffè di Sergeant’s Inn tutta la brigata fece alto per ristorarsi; e compiute poi le formalità legali, la processione mosse di nuovo.
Un po’ di confusione nacque in via della Fleet dalla faceta ostinazione degli otto cocchieri di voler marciare per quattro; e fu anche mestieri lasciare indietro il signore dai foruncoli che s’era attaccato ad un bullettinaio, rimanendo intesi che gli amici ripassando di là lo avrebbero richiamato. Quando furono sulla porta della Fleet, la brigata, ad un segnale del creditore, scoppiò in tre bravo fragorosi pel debitore; e dopo una generale stretta di mano, lo lasciarono. Dato in custodia del guardiano, con sommo stupore di Roker ed evidente emozione dello stesso flemmatico Neddy, Sam passò nella prigione, si avviò difilato alla camera del padrone e bussò.
— Avanti, — disse il signor Pickwick.
Sam apparve, si cavò il cappello e sorrise.
— Ah, Sam, mio buon ragazzo, — disse il signor Pickwick, molto compiaciuto di vedere l’umile suo amico. — Io non aveva mica l’intenzione di ferire i vostri sentimenti con quel che vi dissi ieri. Lasciate il cappello, Sam, e statemi a sentire che vi spiegherò più largamente la mia idea.
— Non potremmo rimandar la cosa? — domandò Sam.
— Certamente, Sam. Ma perchè?
— Mi piacerebbe più un’altra volta
— O perchè?
— Per questo, — rispose Sam esitante.
— Per questo che? — domandò il signor Pickwick, impensierito dai modi del suo domestico. — Parlate, Sam.
— Perchè... perchè ho da fare qualche cosa.
— Qualche cosa! e che cosa?
— Niente di particolare, signore.
— Oh, se la è così, — disse il signor Pickwick sorridendo, — potete prima parlare con me.
— Credo che farei meglio a sbrigar quell’altra faccenda.
Il signor Pickwick si mostrò sorpreso, ma non aprì bocca.
— Il fatto è... — incominciò Sam, e si fermò di botto.
— Ebbene? Parlate, Sam.
— Il fatto è, vedete, che... sarà meglio che mi aggiusti il letto prima di pensare ad altro.
— Il letto! — esclamò stupefatto il signor Pickwick.
— Sì, il letto, signore. Io son prigioniero. Sono stato arrestato oggi stesso per debiti.
— Voi arrestato per debiti! — esclamò il signor Pickwick, cadendo sopra una seggiola.
— Sicuro, per debiti; e quei che m’ha messo dentro non mi lascerà andar via fino a che non sarete uscito voi stesso.
— Giusto cielo! Che intendete di dire?
— Proprio quel che dico, signore. Avessero anche a passare quarant’anni, non mi muoverò di qua e ci avrò gusto; e se fosse stato Newgate, sarebbe stato precisamente lo stesso. Ora il fatto è fatto e non c’è più rimedio.
Con queste parole, pronunciate con grande enfasi e violenza, Sam Weller scaraventò a terra il cappello in un insolito stato di eccitamento; e quindi, piegando le braccia, guardò fiso e fermo in faccia al padrone.