< Il Circolo Pickwick
Questo testo è completo.
Charles Dickens - Il circolo Pickwick (1836)
Traduzione dall'inglese di Federigo Verdinois (1904)
Dove si dimostra che il corso del vero amore non rassomiglia punto ad una ferrovia
Capitolo 7 Capitolo 9

La posizione remota di Dingley Dell, la presenza di tante persone del sesso gentile, e la sollecitudine affettuosa dimostrata a suo riguardo, furono tutte favorevoli condizioni a far germogliare e crescere quei delicati sentimenti che la natura aveva profondamente radicati nel seno del signor Tracy Tupman, e che ora parevano destinati ad accentrarsi in un solo oggetto. Le signorine erano certamente graziose, ed aveano modi attraenti ed ottimo carattere; ma nella zia ragazza notavasi una tal quale dignità di portamento, un contegno così riservato, una maestà così imponente nello sguardo, che quelle, per l’età loro, non potevano emulare e che distinguevano lei da ogni altra donna sulla quale si fossero mai riposati gli occhi del signor Tupman. Che fra i loro caratteri ci fosse una certa affinità, e fra le anime loro una segreta attinenza, e nei loro cuori un non so che di misteriosamente simpatico, era evidente. Il nome di lei era stato il primo nome che ricorresse alle labbra del signor Tupman quando giaceva ferito sull’erba, e la risata isterica di lei era stato il primo suono che gli avesse colpito l’orecchio, quando lo riportavano a casa. Ma era ella sorta quell’agitazione da una amabile sensibilità muliebre che si sarebbe del pari manifestata per qualunque altro, o l’aveva invece determinata un più tenero e caldo sentimento che egli solo, fra tutti i mortali, avrebbe destato nel cuore di lei? Tali erano i dubbii che lo travagliavano mentre giaceva lungo disteso sul canapè; tali erano i dubbii ch’egli deliberò dovere una buona volta risolvere e per sempre.

Era la sera. Isabella ed Emilia erano fuori a girandolare col signor Trundle; la vecchia signora sorda s’era addormentata nel suo seggiolone; dalla remota cucina si udiva il russare cupo e monotono del ragazzo grasso; le servette si trattenevano sulla porta a pigliare il fresco e a far le civettuole con certi animali poco delicati addetti alla fattoria; e la nostra coppia interessante se ne stava a sedere nel salottino, dimenticata da tutti, dimentica di tutti, e non di altro sognando che di se stessa: somigliavano un par di guanti piegati l’uno nell’altro e accuratamente stretti insieme.

— Ho dimenticato i miei fiori, — disse la zia ragazza.

— Inaffiateli adesso, — suggerì il signor Tupman, con accento persuasivo.

— Vi potrebbe forse far male l’aria della sera, — notò quella affettuosamente.

— No, no, — disse alzandosi il signor Tupman; — anzi mi farà bene. Lasciate che v’accompagni.

La signora volle prima aggiustare la benda che sosteneva il braccio del ferito, ed appoggiandosi al braccio destro di lui lo menò nel giardino.

In fondo ad un viale sorgeva un padiglione di caprifoglio, gelsomino e altre piante rampicanti, — una di quelle dolci dimore che le brave persone costruiscono per comodità dei ragnateli.

La zia ragazza prese da un angolo un grosso annaffiatoio e stava per uscire di sotto il padiglione, quando il signor Tupman la trattenne e l’attirò presso di sè sopra un sedile.

— Signorina. Wardle! — esclamò sospirando.

La zia ragazza tremò tutta, tanto che i sassolini che per caso s’erano ficcati nell’annaffiatoio produssero un suono come di balocco agitato dalla mano di un ragazzo.

— Signorina Wardle, — disse il signor Tupman, — voi siete un angelo.

— Signor Tupman! — esclamò Rachele, facendosi rossa come l’annaffiatoio.

— Sì, — insistette l’eloquente Pickwickiano, — Sì, pur troppo io lo so.

— Tutte le donne sono angeli, a detta degli uomini, — mormorò quella scherzosamente

— E che siete voi dunque? o a che mai potrò io paragonarvi? Dov’è la donna che vi somigli? dove potrei sperare di imbattermi in un così raro accordo di gentilezza e di beltà? dove potrei cercare di... oh!

Qui il signor Tupman si fermò e strinse la mano che teneva il manico felice dell’annaffiatoio.

— Sono così bugiardi gli uomini! — bisbigliò dolcemente la signora voltandosi in là.

— Tali sono, tali sono, — esclamò il signor Tupman; — ma non tutti gli uomini. Vive un essere almeno che non può mai mutare; un essere che sarebbe lieto di dedicare tutta la sua vita alla vostra felicità; un essere che vive solo negli occhi vostri, che respira solo nei vostri sorrisi, che per voi sola, per voi sola sopporta il grave fardello della vita!

— Se si trovasse un tale uomo... — obbiettò la signora.

— Ma si può trovare, — interruppe il signor Tupman. — Ma è bell’e trovato. Ma è qui, signorina Wardle.

E prima che la signora potesse accorgersi delle sue intenzioni, il signor Tupman le era caduto inginocchiato ai piedi.

— Signor Tupman, alzatevi, ve ne prego! — disse Rachele.

— Giammai! — rispose l’altro risolutamente. — Oh! Rachele.

E afferrò l’abbandonata mano di lei, e l’annaffiatoio ruzzolò per terra mentre egli se la premeva alle labbra.

— Oh, Rachele! ditemi che m’amate.

— Signor Tupman, — disse la zia ragazza sempre col capo voltato in là, — io posso appena parlare; ma... ma.... voi non mi siete del tutto indifferente.

Non sì tosto il signor Tupman ebbe udito queste parole, che subito si diè a fare quello che le sue calde emozioni gli suggerivano, e che, per quanto sappiamo (perchè di queste faccende poco c’intendiamo) si suol fare in simili congiunture. Balzò in piedi, e cingendo col braccio il collo dell’amabile zia, le stampò sulle labbra un gran numero di baci che, dopo una debita mostra di lotta e di resistenza, ella ricevette così passivamente che non si può dire quanti altri ne avrebbe profusi il signor Tupman, se ad un tratto la signora non avesse trasalito e messo uno strido, gridando:

— Signor Tupman, siamo osservati! siamo scoperti!

Il signor Tupman si voltò a guardare, e si vide davanti il ragazzo grasso con gli occhi spalancati, ma senza la menoma espressione sulla faccia che il più esperto fisionomista avesse potuto attribuire allo stupore, alla curiosità, o a qualunque altra delle note passioni che agitano il cuore umano. Il signor Tupman fisò il ragazzo, e il ragazzo grasso lo guardò con gli occhi sbarrati; e più il signor Tupman osservava l’assoluta nullaggine dell’aspetto del ragazzo grasso, più si convinceva che o non aveva visto o non avea capito nulla di quanto era accaduto. Sotto questa impressione, domandò con grande fermezza:

— Che volete qui voi?

— La cena è pronta, signore, — rispose subito il ragazzo.

— Siete venuto proprio adesso qui? — domandò il signor Tupman con una occhiata investigatrice.

— Proprio adesso, — rispose il ragazzo grasso.

Il signor Tupman lo guardò di nuovo con severità; ma quegli non battè palpebra nè un muscolo della sua faccia si mosse.

Il signor Tupman prese il braccio della zia ragazza e si avviò verso casa; il ragazzo grasso tenne loro dietro.

— Non sa nulla di quanto è accaduto, — bisbigliò.

— Nulla, — disse la zia ragazza.

Si udì un rumore alle loro spalle come di una risata soffocata. Il signor Tupman si voltò di botto. No; non poteva essere stato il ragazzo grasso; non c’era un solo raggio di allegria o alcun altro segno che non fosse di nutrizione su quella faccia pasciuta.

— Scommetto che dormiva, — bisbigliò il signor Tupman.

— Non può essere altrimenti, — rispose la zia ragazza.

Ed entrambi risero di tutto cuore.

Il signor Tupman s’ingannava. Il ragazzo grasso, tanto per una volta, non avea dormito. Avea veduto con gli occhi propri del capo — anzi con tanto d’occhi — tutto quello ch’era accaduto.

La cena passò senza che di tentasse d’intavolare una conversazione generale. La vecchia signora era andata a letto; Isabella Wardle si dedicò esclusivamente al signor Trundle; le attenzioni della zia ragazza erano tutte pel signor Tupman; e i pensieri di Emilia parevano tutti concentrati in un oggetto lontano, — il quale avrebbe anche potuto essere l’assente Snodgrass.

Le undici, le dodici, l’una erano battute, e nessuno di fuori era per anco tornato. La costernazione era dipinta sul volta di tutti. Avrebbero forse smarrita la via? Sarebbero stati rubati? Non era a proposito spedire degli uomini con le lanterne in tutte le direzioni che avrebbero potuto prendere per tornare a casa? o invece... Zitto! eccoli. Che cosa avea fatto loro far così tardi? Una voce estranea anche! A chi poteva appartenere? Si precipitarono tutti in cucina dove i colpevoli aveano riparato, ed ebbero alla bella prima più che un barlume dello stato reale delle cose.

Il signor Pickwick, con le mani in saccoccia e il cappello alla sgherra, stava appoggiato ad un tavolone, crollando il capo da una parte all’altra ed eseguendo una serie non interrotta dei più blandi e benevoli sorrisi, senza esservi determinato da alcuna causa apparente o da qualsivoglia pretesto; il vecchio signor Wardle, col viso rosso come un peperone, stringeva la mano di un signore forestiero borbottando proteste di eterna amicizia; il signor Winkle, sostenendosi alla cassa dell’orologio, con voce debole invocava l’ira celeste sul capo di qualunque membro della famiglia osasse suggerire l’opportunità di andare a letto; e il signor Snodgrass s’era sprofondato in una seggiola con una espressione della più acerba e disperata angoscia che mente umana possa immaginare, dipinta in ogni tratto della sua faccia espressiva.

— È accaduta qualche cosa? — domandarono le tre signore.

— Niente accaduto, — rispose il signor Pickwick. — Stiamo... stiamo... egregiamente. Ehi, Wardle, stiamo bene, non vi pare ?

— Lo credo io! — rispose l’allegro signore. — Care mie, vi presento il mio amico signor Jingle, amico del signor Pickwick. Jingle, sicuro, ci fa una visitina anche lui.

— È accaduto nulla al signor Snodgrass? — domandò Emilia al forestiero con grande ansietà.

— Nulla, signora, — rispose il forestiero. — Pranzo ufficiale, — compagnia sceltissima — canzoni stupende — vecchio Porto — chiarello assai buono — eccellente — il vino, signora, il vino.

— Non è stato il vino, no, — borbottò il signor Snodgrass con voce rotta. — È stato il salmone (in un modo o nell’altro, in questi casi, non è mai stato il vino).

— Non sarebbe meglio farli andare a letto? — domandò Emma. — Due dei ragazzi possono menarli su.

— Io non voglio andare a letto! — disse risolutamente il signor Winkle.

— Non c’è ragazzi che tenga, — esclamò il signor Pickwick, — nessuno mi leva di qua! — E si rimise a sorridere come prima.

— Evviva! — gridò debolmente il signor Winkle.

— Evviva! — rispose il signor Pickwick, levandosi il cappello, sbattendolo per terra e scagliando i suoi occhiali nel mezzo della cucina. Dopo di che, rise sgangheratamente.

— Portateci... un’altra... bottiglia! — gridò il signor Winkle, cominciando in una chiave di basso e finendo in un falsetto. La testa gli cadde sul petto; e borbottando sempre della sua irremovibile risoluzione di non andare a letto e di un suo truce rammarico di non averla fatta finita col vecchio Tupman la mattina stessa, si addormentò profondamente; nel quale stato fu trasportato in camera sua da due giovani giganti sotto la personale sorveglianza del ragazzo grasso, alla cui protezione di lì a poco il signor Snodgrass confidò la propria persona. Il signor Pickwick accettò il braccio che il signor Tupman gli offriva e tranquillamente sparì, più che mai sorridendo; e il signor Wardle, dopo aver dato a tutta la famiglia un addio così commovente come se muovesse direttamente pel patibolo, conferì al signor Trundle l’onore di accompagnarlo in camera e si ritirò con un inefficacissimo tentativo di assumere un aspetto dignitoso e solenne.

— Che scena disgustosa! — disse la zia ragazza.

— Oh, disgustosissima! — esclamarono ad una voce le due signorine.

— Orribile, orribile! — disse Jingle, facendo il viso serio. Egli aveva sui suoi compagni il vantaggio approssimativo di una bottiglia e mezza. — Spettacolo ributtante, spaventevole!

— Che persona ammodo! bisbigliò la zia ragazza al signor Tupman.

— Ed anche simpatico! — aggiunse sotto voce Emilia Wardle.

— Oh, senza dubbio! — osservò la zia.

Il signor Tupman corse col pensiero alla vedova di Rochester, e un certo turbamento gli entrò nell’animo. Il nuovo arrivato era molto discorsivo, e il numero dei suoi aneddoti era soltanto sorpassato da quello delle sue galanterie. Il signor Tupman sentiva che coll’estendersi della popolarità di Jingle, egli Tupman era sempre più ricacciato nell’ombra. Il sorriso era forzato, la sua allegria era una simulazione; e quando alla fine egli depose il capo indolenzito fra le lenzuola, pensò con orrido diletto alla soddisfazione che gli avrebbe gonfiato il cuore, se in quel momento avesse avuto il capo di Jingle tra le tavole del letto e il materasso.

L’instancabile forestiero si levò il giorno appresso di buon mattino e, benchè i compagni se ne stessero ancora in letto sopraffatti dall’orgia della sera innanzi, si studiò in tutti i modi di promuovere l’allegria a colazione. Ebbero tanto successo i suoi sforzi, che perfino la vecchia signora sorda volle ad ogni costo che le si ripetessero con l’aiuto del corno acustico uno o due dei suoi più graziosi scherzi; ed arrivò fino ad osservare alla zia ragazza che "gli era un bel tipo di sfacciato" - opinione nella quale tutte le altre signore presenti furono pienamente d’accordo.

Soleva la vecchia signora nelle belle mattine d’estate recarsi al padiglione nel quale il signor Tupman s’era segnalato, compiendo questa sua passeggiata con le seguenti formalità. In primo luogo, il ragazzo grasso spiccava da un piuolo nella camera da letto della vecchia signora un cappello di seta nera, uno scialle di cotone ben caldo ed un grosso bastone con manico corrispondente; e la vecchia signora, dopo aver messo a tutto suo comodo scialle e cappello, si appoggiava con una mano sulla mazza, con l’altra sulla spalla del ragazzo grasso, e si avviava passo passo verso il padiglione, dove il ragazzo la lasciava a godersi il fresco per una mezz’oretta; in capo alla quale tornava a rilevarla e a ricondurla a casa.

La vecchia signora era in tutte le sue cose molto precisa e sistematica; e siccome questa cerimonia era stata osservata per tre stagioni di fila senza la menoma variazione dalla forma stabilita, non ebbe ad esser poco sorpresa quella mattina vedendo il ragazzo grasso che invece di lasciare il padiglione, se ne allontanò di qualche passo, guardò intorno intorno con ogni sorta di precauzione, e tornò verso di lei in punta di piedi e con una cera profondamente misteriosa.

La vecchia signora era timida — come sono molte di queste vecchie signore — e la sua prima impressione fu questa, che il ragazzo volesse farle qualche aggravio con la mira d’impossessarsi di quei pochi spiccioli che ella aveva indosso. Avrebbe chiamato gente, se l’età e gli acciacchi non le avessero tolto da un pezzo la forza di gridare; stette perciò ad osservare i movimenti del ragazzo con un senso di vivissimo terrore, il quale non fu punto diminuito dall’accostarsi ch’egli fece a lei e dal gridarle nell’orecchio con un tono agitato e, a quanto le parve, minaccioso:

— Padrona!

Ora il caso volle che il signor Jingle si trovasse in quel punto a passeggiar nel giardino proprio in vicinanza del padiglione. Anche egli udì quel grido e si fermò per udir di più. Tre buone ragioni lo persuadevano a questo. In primo luogo egli era curioso e non avea da far nulla; in secondo non era scrupoloso niente affatto; in terzo ed ultimo, era nascosto da un intreccio di rami. Sicchè non si mosse e stette in ascolto.

— Padrona! — gridò di nuovo il ragazzo grasso.

— Ebbene, Joe, — disse tremando la vecchia signora. — Io sono sempre stata buona per voi, Joe. Siete sempre stato trattato molto bene. Non vi si è dato mai da far molto e avete sempre avuto da mangiare in abbondanza.

Quest’ultimo ricordo toccava le corde sensibili del ragazzo grasso, il quale si mostrò molto commosso nel rispondere quasi solennemente:

— Questo lo so.

— E allora che cosa mi volete fare adesso? — disse la vecchia signora pigliando coraggio.

— Voglio farvi arricciar le carni, — rispose il ragazzo.

Questo veramente pareva un modo molto sanguinario di mostrare la propria gratitudine; e siccome la vecchia signora non capiva bene il processo pel quale si poteva giungere ad un tale risultamento, tutti i primi terrori la ripresero.

— Che vi credete voi che ho visto proprio in questo padiglione ieri sera? — domandò il ragazzo.

— Per amor di Dio, che cosa? — esclamò la vecchia signora, spaventata più che mai dal tono solenne del suo corpulento interlocutore.

— Quel signore forestiero, quello che ha avuto il braccio ferito, che baciava e brancicava...

— Chi Joe, chi? Nessuna delle serve, spero.

— Peggio ancora, — gridò il ragazzo grasso nell’orecchio della vecchia signora.

— Non una delle mie nipoti, eh?

— Peggio ancora.

— Peggio ancora, Joe? — esclamò la vecchia signora, cui pareva questo il limite estremo dell’umana malvagità. — E chi dunque, Joe? Voglio saperlo subito.

Il ragazzo grasso si guardò cautamente attorno, e, compiuta la sua ispezione, gridò nell’orecchio della vecchia:

— La signorina Rachele.

— Che? — dimandò la vecchia signora in tono acuto. — Più forte, Joe.

— La signorina Rachele, — tuonò il ragazzo grasso.

— Mia figlia!

La serie di cenni che il ragazzo grasso fece col capo in segno di assenso gli comunicò alle guance paffute un tremolio come quello di un biancomangiare.

— Ed ella lo ha sofferto! — esclamò la vecchia signora.

Il ragazzo grasso, facendo una sua smorfia di contentezza, rispose:

— Ho visto lei che poi baciava a lui.

Se il signor Jingle, dal suo nascondiglio, avesse potuto vedere la faccia che fece a questa rivelazione la vecchia signora, è assai probabile che uno scoppio di risa avrebbe tradito la sua presenza. Ascoltò attentamente, e raccolse dei frammenti di frasi iraconde, come: "Senza il mio permesso! — Alla sua età! — Una povera vecchia come me! — Poteva aspettare che fossi morta!" — e simili; e udì poi sull’inghiaiato le pedate del ragazzo grasso che si allontanava lasciando sola la vecchia signora.

Era forse curiosa la coincidenza, ma fatto sta che cinque minuti dopo il suo arrivo la sera innanzi, il signor Jingle aveva dentro di sè deliberato di porre subito l’assedio al cuore della zia ragazza. S’era accorto alla bella prima che i suoi modi disinvolti e quella sua improntitudine non dispiacevano niente affatto al caro oggetto da attaccare; e un fiero sospetto lo facea pensieroso, ch’ella possedesse una certa dote, cioè la più agognabile di tutte le doti. Gli occorse subito alla mente l’assoluta necessità di dar lo sgambetto, in un modo o nell’altro, al suo rivale; sicchè risolvette su due piedi, che senza frapporre altri indugi, avrebbe adottato certe sue misure dirette a questo scopo. Fielding ci dice che l’uomo è fuoco, la donna è stoppa, e che il diavolo li accosta. Sapeva bene il signor Jingle che per le ragazze un po’ mature i giovanotti sono come il gas acceso alla polvere da sparo, e deliberò di tentare issofatto una esplosione.

Pieno di riflessioni su questa decisione importante, ei si tolse dal suo nascondiglio e sempre nascosto dalle frasche, si avviò verso la casa. La fortuna gli sorrideva. Il signor Tupman e gli altri uomini uscivano appunto per la porta laterale del giardino, e le signorine, com’ei già sapeva, erano andate a passeggiar da sole subito dopo colazione. Il campo era libero.

La porta del salottino da pranzo era semiaperta. Egli tossì; ella alzò gli occhi e sorrise. L’esitazione non era punto punto nel carattere del signor Jingle. Egli si pose l’indice sulle labbra in atto misterioso, si avanzò e chiuse la porta.

— Signorina Wardle, — disse poi con affettata sollecitudine, — scusate l’indiscretezza — conoscenza fresca — non c’è tempo da far cerimonie — tutto è scoperto.

— Signore! — esclamò la zia ragazza, sorpresa dall’inattesa apparizione e un po’ dubbiosa della sanità di mente del signor Jingle.

— Sì! — fece questi con un sottovoce da palcoscenico. — Ragazzo grasso — faccia paffuta — occhiacci — canaglia!

E qui scosse il capo con espressione e la zia ragazza tremò a verga a verga.

— Volete alludere a Joe, signore? — domandò la zia, sforzandosi di parer tranquilla.

— Signora sì — maledetto quel Joe! — cane traditore — detto tutto alla vecchia — la vecchia furiosa — selvaggia — esasperata — Padiglione — Tupman che baciava e brancicava — e via discorrendo — eh, signora, eh?

— Signor Jingle, — disse la zia ragazza, — se siete venuto per insultarmi...

— Niente affatto — v’ingannate, — rispose l’imperturbabile Jingle. — Udito il racconto — son venuto ad avvertirvi del pericolo — pronto a servirvi — scandalo pericoloso. — Non monta — lo credete un insulto? — sta bene — vi lascio.

E volse le spalle, come per menare ad effetto la minaccia.

— Che debbo fare? — esclamò la povera Rachele scoppiando in lagrime. — Mio fratello monterà su tutte le furie!

— Naturalmente, — disse il signor Jingle fermandosi; — sarà terribile.

— Oh, signor Jingle, che debbo fare, che debbo dire? — riprese la zia ragazza in un novello impeto di disperazione.

— Dite che ha sognato, — rispose freddamente il signor Jingle.

Un raggio di conforto rischiarò a questa idea l’anima della desolata Rachele. Il signor Jingle se n’accorse e si valse subito del suo vantaggio.

— Via, via! — niente di più facile — scioccheria del ragazzo — bella donna — ragazzo grasso frustato — voi creduta — l’affare bell’e finito — tutto d’incanto.

Sia che la probabilità di sfuggire alle conseguenze della malaugurata scoperta recasse un gran sollievo all’animo della zia zitella, sia che il sentirsi chiamata "bella donna" temperasse l’acerbità del suo dolore, certo è ch’ella arrossì leggermente e volse al signor Jingle un’occhiata piena di gratitudine.

L’insinuante uomo trasse un profondo respiro, fissò gli occhi per un paio di minuti in viso della sua interlocutrice, e poi li ritrasse di botto trasalendo melodrammaticamente.

— Voi mi sembrate infelice, signor Jingle, — disse con voce dolente la signora. — Permettete che ve ne domandi il motivo, se mai potessi anch’io esservi utile e mostrarvi così la mia gratitudine?

— Ah! — esclamò trasalendo per la seconda volta il signor Jingle. — Essermi utile! essere io meno infelice, quando il vostro amore è largito ad un uomo che è insensibile a tanta fortuna — che anche adesso fa i suoi biechi disegni sulle affezioni della nipote della stessa creatura che... Ma no; egli è mio amico; non voglio mettere a nudo i suoi vizi. Signorina Wardle — addio!

Conchiudendo questo discorso, il più filato ch’egli avesse mai fatto, il signor Jingle si portò agli occhi il resto del fazzoletto testè accennato e si volse verso la porta.

— Fermatevi, signor Jingle! — esclamò Rachele. — Voi avete fatto un’allusione al signor Tupman. Spiegatevi.

— Giammai! — rispose Jingle con un gesto da primo attore. — Giammai! — e per dimostrar subito che non avea voglia di essere più oltre interrogato, trasse una seggiola presso a quella della zia ragazza e si pose a sedere.

— Signor Jingle, ve ne prego, ve ne scongiuro, se c’è qualche terribile mistero riguardante il signor Tupman, parlate.

— Posso io vedere — (e il signor Jingle fissò gli occhi in quelli di Rachele) — posso io soffrire un’amabile creatura — trascinata al sacrificio — sordida cupidigia!

Parve che per qualche momento sostenesse una fiera lotta con vari sentimenti, e poi disse con voce bassa e cupa:

— Tupman non ha altra mira che il vostro danaro.

— Sciagurato! — esclamò Rachele con una energica indignazione. (I dubbi del signor Jingle erano risoluti. Ella ne aveva).

— Peggio ancora, — aggiunse Jingle, — egli ne ama un’altra.

— Un’altra! e chi mai?

— La piccina — occhi neri — nipote Emilia.

Vi fu una pausa.

Ora se c’era donna al mondo per la quale la zia nutrisse una gelosia mortale e radicata, l’era appunto quella nipote. Le salì tutto il sangue alla faccia ed al collo. Scosse poi il capo in silenzio con aria d’ineffabile disprezzo. Finalmente, mordendosi le labbra sottili e raddrizzandosi sulla persona:

— Non è possibile, — disse. — Non ci credo.

— Osservateli, — disse Jingle.

— Così farò.

— Osservate le sue occhiate.

— Sicuro.

— Le parole susurrate.

— Sta bene.

— A tavola si metterà a sedere accanto a lei.

— Si accomodi.

— Farà il galante.

— Faccia pure.

— E vi pianterà.

— Piantarmi! — esclamò la zia ragazza. — Lui piantar me, lui! — e tremò tutta dal dispetto e dalla rabbia.

— Sarete convinta? — domandò Jingle.

— Vi mostrerete forte?

— Sì.

— Non lo guarderete più in faccia?

— Mai.

— Sceglierete un altro?

— Sì.

— Ebbene, eccolo.

Il signor Jingle cadde in ginocchio, rimase per cinque minuti in quell’umile posizione, e si levò finalmente amante accettato della zia ragazza, a condizione che lo spergiuro di Tupman fosse chiaro e manifesto.

La prova pesava tutta sulle spalle del signor Alfredo Jingle; e quello stesso giorno a desinare egli la fornì evidentissima. La zia ragazza poteva appena credere agli occhi propri. Il signor Tracy Tupman, seduto accanto ad Emilia, non faceva che occhieggiare, bisbigliare, sorridere, quasi per far dispetto al signor Snodgrass. Non una parola, non un’occhiata alla sua bella della sera innanzi.

— Maledetto ragazzaccio! — diceva da sè a sè il vecchio Wardle, al quale tutta la storia era stata riferita dalla madre. — Maledetto ragazzaccio non c’è caso, deve aver sognato.

— Traditore! — pensava con rabbia la zia ragazza. — Non m’ha ingannata quel caro signor Jingle. Oh, come l’odio quell’infame!

Dalla conversazione che segue potrà capire l’amico lettore il mistero di questo mutamento di condotta da parte del signor Tupman.

La scena era in giardino e di sera. Due ombre passeggiavano in un viale; una piuttosto corta e larga; l’altra alta e sottile. Erano il signor Tupman e il signor Jingle. La prima delle due ombre cominciò il dialogo.

— Vi pare che mi sia ben condotto, eh? — domandò.

— Splendido — magnifico — non avrei fatto di meglio io stesso — domani, da capo — tutte le sere fino a nuov’ordine.

— Anche Rachele lo desidera?

— Naturalmente — non ci trova gusto — necessità virtù — distogliere i sospetti — paura del fratello — dice che non c’è che fare — pochi altri giorni — lucciole per lanterne — vi farà felice.

— Nessuna imbasciata?

— Amore — il più caldo amore — saluti affettuosi — affetto inalterabile. Posso dire qualche cosa da parte vostra?

— Caro amico mio, — rispose il confidente Tupman, stringendo con effusione la mano del suo amico, — ditele quanto io l’amo; ditele quanto mi costa il simulare; ditele ogni cosa cara e gentile: ma aggiungete pure che io mi penetro perfettamente della dura necessità del consiglio datomi da lei per bocca vostra. Ditele che applaudo alla sua prudenza ed ammiro la sua discrezione.

— Non dubitate. C’è altro?

— No, nient’altro; aggiungete solo ch’io anelo con tutto l’ardore dell’anima il tempo in cui potrò chiamarla mia, e in cui ogni dissimulazione sarà divenuta inutile.

— Certo, certo. C’è altro?

— Oh, amico mio! — esclamò il signor Tupman, afferrando di nuovo la mano del suo compagno, abbiatevi la mia più viva gratitudine per la vostra disinteressata affezione; e perdonatemi se vi ho fatto, anche col solo pensiero, l’ingiustizia di sospettarvi capace di attraversarmi la via. Caro amico mio, come potrò mai ricompensarvi?

— Non ne parlate, — rispose il signor Jingle. Poi si arrestò di botto, come risovvenendosi di qualche cosa ed aggiunse: — A proposito, non avreste una diecina di ghinee spicciole, eh? — affare urgente, particolare — ve le rendo fra tre giorni.

— Credo potervi servire, — rispose il signor Tupman nella pienezza del suo cuore. — Avete detto tre giorni?

— Solo tre giorni — tutto aggiustato allora — nessun’altra difficoltà.

Il signor Tupman contò il danaro nella mano del suo compagno, e questi se lo fece cadere pezzo per pezzo in saccoccia, mentre se ne tornavano verso la casa.

— Mi raccomando, — disse il signor Jingle, — nemmeno un’occhiata.

— Nemmeno mezza, — disse il signor Tupman.

— Nemmeno una parola.

— Nemmeno una sillaba.

— Tutte le vostre attenzioni alla nipote — piuttosto scortese che altro con la zia — solo mezzo di darla ad intendere ai vecchi.

— Ci starò attento, — disse il signor Tupman ad alta voce.

— Ed io pure, — disse internamente il signor Jingle.

Ed entrarono in casa.

Quella prima scena fu ripetuta la sera, e così per tre giorni di fila, a desinare ed a cena. Al quarto, il signor Wardle era di ottimo umore perchè sicurissimo che non c’era fondamento di sorta all’accusa contro il signor Tupman. E non meno allegro era il signor Tupman, perchè il signor Jingle gli avea detto che l’affar suo sarebbe subito arrivato ad una crisi. E non meno il signor Pickwick, perchè di rado gli accadeva di essere altrimenti. E molto meno allegro era il signor Snodgrass, perchè lo avea preso una fiera gelosia pel suo amico Tupman. Ed era allegrissima la vecchia signora, perchè guadagnava al whist. Ed allegrissimi erano il signor Jingle e la signorina Wardle per ragioni assai importanti a questa storia avventurosa per essere narrate a parte in un altro capitolo.

Questa voce è stata pubblicata da Wikisource. Il testo è rilasciato in base alla licenza Creative Commons Attribuzione-Condividi allo stesso modo. Potrebbero essere applicate clausole aggiuntive per i file multimediali.