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V.
Mamma Grazia, vedendola ricomparire, nell’anticamera, l’aveva rimproverata.
— Siete contenta? Quasi gli mancassero dispiaceri a quel povero figlio mio!
Ella lo chiamava così da più di quarant’anni. Anzi, ora che la casa era stata vuotata e dai matrimoni e dalle morti, e vi rimanevano soltanto il marchese e lei, il suo sentimento di maternità si era accresciuto fino al punto che in certi momenti le sembrava di non avergli dato il solo latte, ma di averlo partorito con gli stessi dolori con cui aveva messo al mondo la creaturina, frutto di un amore disgraziato, volata in paradiso pochi giorni dopo.
Allora vivevano il marchese padre, e quella santa della marchesa, bella come una madonna, che la paralisi delle gambe inchiodava in fondo a un letto, dopo l’aborto che l’aveva tenuta più mesi tra la vita e la morte!
Ed erano in famiglia il cavaliere e la signorina, zii del marchese, che la chiamavano mamma anche essi quantunque belli e grandi. La signorina, divenuta baronessa, continuava a chiamarla mamma Grazia tuttavia, ed era vecchia come lei.... Il cavaliere, pure! Ma per loro ella non sentiva nessuna tenerezza. Colui pel quale avrebbe preso passione e morte era il marchese nutricato col vivo sangue del suo petto.
Infatti non sapeva darsi pace di vederlo diventato un altro da che avevano ammazzato Rocco Criscione. Si poteva dire che non mangiava e non dormiva più, quasi gli avessero tolto, con lui, metà della sua vita. Certe notti ella lo sentiva andare e venire su e giù per la camera, per le altre stanze. E si levava da letto e accorreva, mezza svestita:
— Ti senti male, figlio mio? Hai bisogno di qualche cosa?
— Niente, mamma Grazia. Dormite tranquilla; niente!
E mamma Grazia si addormentava recitando il rosario; e riprendeva a recitarlo durante la giornata, appena terminato di fare quel po’ di pulizia che le sembrava urgente nella casa.
Don Aquilante non riusciva a capire in che modo il marchese potesse vedersela attorno, tutta scapigliata, con certe vesti addosso che parevano cenci e certe ciabatte che le sfuggivano dai piedi a ogni due passi:
— La pulizia non è davvero il forte di mamma Grazia!
— Povera vecchia — rispondeva il marchese, — fa quel che può.
Poco, quasi niente. Per fortuna egli viveva come un orso. Pagava la mesata di socio al Casino, ma non vi andava mai. Con suo zio il cavaliere non parlava da anni. Dalla zia baronessa si faceva vedere alla sfuggita, soltanto nelle feste di Natale, di Capo d’anno e di Pasqua, o quando la baronessa lo mandava insistentemente a chiamare.
Col cavaliere Pergola, altro parente, l’aveva rotta nel sessanta, perchè, rivoluzionario e ateo, sedotta la figlia dello zio cavaliere, l’aveva sposata solamente al municipio, dopo cinque anni di disonore per la famiglia, con due figli che crescevano come due bestioline e già bestemmiavano peggio del padre.
Unico svago del marchese era la passeggiata, lassù, su la spianata del Castello, tra le rovine dei bastioni e delle torri abbattute dal terremoto del 1693. Ne rimaneva ben poco. Il marchese grande, come chiamavano suo nonno quando viveva, non aveva avuto scrupoli di servirsi delle pietre intagliate di quelle storiche rovine, per rivestirne la facciata della sua casa; e nessuno aveva osato opporsi a quell’atto di vandalismo. Così ora il marchese, passeggiando per la spianata, con le mani dietro la schiena, in pianelle, vestito come si trovava, stimava quasi di essere in casa sua, e teneva udienze seduto su gli scalini di gesso dello zoccolo, sul quale anni addietro i missionarii liguorini avevano piantato una croce di legno che un colpo di levante aveva portato via sfasciandola, e non era stata sostituita.
Verso il tramonto, i contadini del vicinato salivano lassù per osservare come si coricava il tempo e per dare un’occhiata alla campagna; e il marchese si degnava di attaccar discorso con loro; e li interrogava, e dava consigli. E se c’era qualcuno che osava di fargli osservare che si era fatto sempre così, da Adamo in poi e che era meglio continuare a far così, il marchese alzava la voce, lo investiva:
— Per questo siete sempre miserabili! Per questo la terra non frutta più! Avete paura di rompervi le braccia zappando a fondo il terreno? Gli fate un po’ di solletico a fior di pelle, e poi pretendete che i raccolti corrispondano! Eh, sì! Corrispondono al poco lavoro. E sarà ancora peggio!
Sembrava che stesse per azzuffarsi con qualcuno; lo sentivano fin da piè della collina coloro che tornavano dalla campagna e ne riconoscevano la voce: — Il marchese predica! — Ormai sapevano quasi tutti di che si trattava.
Durante l’estate, venivano lassù a prendere una boccata d’aria fresca anche parecchi galantuomini dal Casino, e il canonico Cipolla, dopo l’ufficio del Vespro nella chiesa di Sant’Isidoro. Ma il marchese evitava più che poteva di attaccar discorso con quei signori; non voleva mescolarsi affatto nei loro torbidi intrighi di partiti municipali. Gli bastava pagare le tasse, che erano troppe! Quei signori infatti non sapevano ragionare d’altro che del sindaco che si lasciava menar pel naso dal segretario; dell’assessore per le liti, che rovinava il comune e i debitori di esso per la nota ragione: Fabbriche e liti, padre Priore; dell’assessore per l’annona che chiudeva un occhio e anche tutti e due sul conto dei macellai e dei panettieri... perchè i migliori bocconi dovevano essere per lui!... Sempre le stesse accuse, per tutti, sempre una musica!... — Ah, lei, marchese, potrebbe fare un gran bene al comune!... — Con lei sindaco, le cose andrebbero diversamente! — Ci vogliono persone pari a lei!... — Venivano lassù, come il diavolo, per tentarlo. Ma egli non li lasciava neppur finire:
— E gli affari di casa mia? Ho appena tempo di badare ad essi! Gente sfaccendata ci vuole per servire il comune!... Buona sera, signori!
E scappava, quando non poteva lasciarli a prendere il fresco, e continuava le sue passeggiate in su e in giù, dal bastione agli scalini dello zoccolo, e dagli scalini al bastione, affondando i piedi tra le pianticine di malva che coprivano la spianata.
Neppure col canonico Cipolla aveva molto piacere di discorrere.
Che gli importava a lui, marchese di Roccaverdina, e del papa Pio IX e dei conventi e dei monasteri che il governo voleva abolire?
Il papa era lontano, e a Palermo c’era la Monarchia che funzionava da papa pei siciliani. In quanto ai conventi e ai monasteri, certamente erano una risorsa per certe famiglie... Ma i frati non avevano aiutato i rivoluzionari? Ben fatto, se ora i rivoluzionari li ringraziavano coi calci!... Egli non voleva impicciarsi di politica, nè d’amministrazione comunale, nè del papa, nè dei conventi!
— Bado ai fatti miei, signor canonico! E, vedete, i fatti miei sono laggiù, a Margitello; e lassù, per le colline di Casalicchio; e da questo lato, a Poggiogrande; e da quest’altro, a Mezzaterra, lungo il fiume... E il papa qua sono io, e il padre guardiano pure; stavo per dire: e la madre badessa anche!
Il canonico Cipolla sorrideva, pensando che allora la madre badessa il marchese se la teneva chiusa in casa, e non era un bell’esempio di moralità! Intanto gli rispondeva:
— Dite bene. Si parla per chiacchierare e per nient’altro!
E lo lasciava a misurare col compasso delle gambe la spianata.
In quel tempo, il marchese restava spesso lassù fino a tardi assieme con Rocco o con l’avvocato. L’avvocato gli raccontava le sue frottole spiritiche, seduto di faccia a lui sul bastione che sovrastava alla vallata, ed egli lo canzonava rudemente; non ne aveva ancora paura.
Intanto dietro le colline sorgeva la luna, enorme, rossastra, e montava su pel cielo, quasi arrampicandosi lesta lesta dietro le nuvole, inondando di luce biancastra la immensità della campagna, fino alle montagne lontane che si confondevano col cielo all’orizzonte. E il marchese interrompeva l’avvocato per indicargli:
— Vedete quel lume laggiù? È nella stalla di Margitello; danno la paglia alle mule. Ora Rocco chiude le finestre della casina. Una, due, tre!... Sembra che un lume si accenda e si spenga. Continuate! È Rocco che passa da una stanza all’altra....
Erano più di due mesi che il marchese tralasciava spesso quella passeggiata di cui sembrava non avesse potuto fare a meno. Infatti chi aveva bisogno di parlargli, in quelle ore, si avviava difilato lassù, sicuro di trovarlo a passeggiare o a tenere udienza su gli scalini di gesso dello zoccolo senza croce.
Era andato soltanto quattro o cinque volte in campagna, non a Margitello, ma a Poggiogrande, a Casalicchio. E da due settimane non si muoveva di casa, mettendo mobili e oggetti sossopra, quasi per stancarsi con quel lavoro manuale; ricevendo soltanto l’avvocato che veniva, come le nottole, sempre di sera; o qualcuno dei garzoni di Margitello mandato dal massaio a chiedere ordini, perchè nessuno voleva assumersi la responsabilità d’una risoluzione qualunque.
Il garzone andava via grattandosi il capo. Oggi, un ordine; domani, uno contrario. E se esitava: — Bestia! Avresti dovuto capire! — Ci andava di mezzo lui.
Mamma Grazia lo compativa:
— Se non si fa la causa, questo inferno non finisce!
Ma ora che si trattava di giorni il marchese era di peggior umore del solito e sbraitava con don Aquilante:
— Che istruttoria mi andate contando? Che processo?... Tutto è imbastito male. Le testimonianze? Le prove? Basterà un soffio dell’avvocato della difesa per buttarle giù! Saremo daccapo. Dovrò stare ancora mesi e mesi con l’animo sospeso...
— Perchè? È curiosa questa!
— Perchè se io me ne lavo le mani, diranno: — Al marchese non glien’è importato niente del povero Rocco! Chi muore giace e chi vive si dà pace — E verranno fuori nuovi funghi... Vedrete.
— Perchè? È curiosa questa!
— Vi sembra curiosa, perchè voi non vedete altro che la causa, la bella causa e la bella difesa che farete... E se il giurì manderà assolto Neli Casaccio?... Qualcuno... l’ha ammazzato il povero Rocco, giacchè è morto.... e non si è ammazzato con le proprie mani.... E così daccapo!
— Attendiamo che il giurì abbia giudicato. Ero venuto per sapere l’ora precisa della partenza.
— Quando vorrete. La carrozza è a vostra disposizione. Io non vengo.
— Siete citato anche voi.
— La mia deposizione è scritta nel processo; possono leggerla.
— Ma gioverà anche la vostra presenza. I giurati, lo sapete, giudicano secondo le impressioni del momento, secondo la loro coscienza; non hanno neppur bisogno di fatti precisi...
E don Aquilante aveva dovuto stentare per indurlo ad andare assieme con lui alla Corte d’Assise. Se n’era quasi pentito.
— Badiamo, marchese!... Badiamo! — egli si raccomandava.
Ma il marchese non gli dava retta, e continuava a dar colpi di frusta alle mule, lanciandole in corsa vertiginosa per quelle rampe di stradone che giravano in declivio attorno al monte in cima al quale Ràbbato stava esposto ai quattro venti, che qualche volta sembrava se lo palleggiassero tra loro.
— Badiamo, marchese!
Invano Titta, il cocchiere, seduto in cassetta accanto al marchese, si voltava di tanto in tanto per rassicurarlo.
Don Aquilante ricordava, raccapricciando, che appunto lungo quelle rampe le mule avevano preso, tempo fa, la mano al marchese, e lo avevano trascinato giù per la china, tra sterpi e sassi, come impazzite, fino all’orlo del ciglione a precipizio, dove si erano fermate per miracolo; e pensava che certi miracoli non si ripetono, se si ripetono i guai. Doveva ricordarselo, il marchese!
Invece le mule, spumanti di sudore, perdevano il fiato, smaniando sotto i colpi di frusta che piovevano fitti. Evidentemente il marchese sfogava contro di loro tutto il suo malumore, quasi l’istruttoria ed il processo li avessero fatti quelle povere bestie e potesse essere colpa di esse se Neli Casaccio veniva assolto!
Erano trasvolati, come un lampo, accanto ai carretti coi testimoni, che scendevano senza fretta. Don Aquilante aveva intravisto Rosa Stanga, mastro Vito Noccia, Michele Stizza e non aveva avuto tempo di rispondere al loro saluto. Li invidiava. Stavano scomodi, sì, sui carretti, esposti alla polvere e al sole; ma almeno andavano tranquilli, senza pericolo di rompersi la noce del collo.
— Badiamo, marchese!
E per distrarsi, don Aquilante si sforzava di pensare al marchese grande, di cui si raccontava ancora la storiella dei testimoni.... Quegli era un vero Roccaverdina!... Altri tempi, altri uomini!... Doveva vincere una lite? Occorrevano prove? E scriveva al suo agente, in paese: — Manda sùbito, sùbito, un’altra carrettata di testimoni! — Si compravano a due tarì l’uno!... Falsi, s’intende! Il marchese grande, oh! oh! non guardava tanto pel sottile! La razza, su certi punti, è rimasta la stessa. Quando un Roccaverdina prende un dirizzone, è capace di tutto, nel bene e nel male!... Anche a costo di far scavezzare il collo a chi non c’entra....
— Badiamo, marchese!
Il marchese però scendeva da cassetta appunto quando, raggiunta la pianura, lo stradone filava dritto a perdita d’occhio, tra il frinire delle cicale su per gli ulivi e il zirlare dei grilli tra le stoppie.
— Dicono che avremo la ferrovia fra quattro o cinque anni.
— Anche i treni prendono la mano ai macchinisti negli scontri — rispose il marchese, sorridendo stranamente. — E con le macchine è inutile gridare: Badiamo, marchese!