< Il Marchese di Roccaverdina
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Capitolo XIX Capitolo XXI

XX.


Nelle ore, nei giorni in cui l’affaccendamento per la fabbrica e le cure della campagna non lo assorbivano interamente — era bisognato provvedere alla rinnovazione dell’armento più che decimato dal tifo bovino, al dissodamento dei terreni, ad acquistare il grano della sementa per rifarsi dei danni delle due terribili mal’annate — egli provava la strana sensazione di camminare su un terreno poco solido, che avrebbe potuto da un momento all’altro sprofondarglisi sotto i piedi.

In quelle ore, in quei giorni, ogni sua sicurezza di coscienza svaniva, quasi si fosse potuto trovare daccapo col processo riaperto, con la imminente minaccia che qualche indizio sfuggito alle prime indagini del giudice istruttore dovesse rimetterlo su le peste di lui; quasi le parole rivelatrici, nella confessione, avessero potuto imprimersi con misterioso processo su le pareti imbiancate a calce della cameretta di don Silvio e apparire, tutt’a un tratto, come le bibliche parole di fuoco nel convito di Balthassar, per perderlo irremissibilmente; quasi le magherie di don Aquilante, andate a vuoto l’altra volta, potessero, per ignote condizioni, da un momento all’altro riuscire; quasi tutte le cose apprese nei libri datigli a leggere dal cugino Pergola fossero dottrine inconsistenti, fallaci, ed egli si fosse vanamente rassicurato intorno a questa e all’altra vita!

Una mattina aveva dovuto scendere, con Titta e un falegname, nei mezzanini per vedere se certe vecchie tavole ammonticchiate nella prima stanza fossero ancora adoperabili.

Vi era sceso calmo, senza nessun timore che il ricordo del Crocifisso regalato alla chiesa del convento di Sant’Antonio potesse turbarlo.

Ed era risalito su più sconvolto che se gli fosse accaduto di ritrovare di nuovo al suo posto la sanguinante figura inchiodata su la gran croce nera e avvolta nel lenzuolo sbrandellato.

Su la parete ingiallita dal tempo, lo spazio coperto dalla croce e dal Cristo avvolto nel lenzuolo aveva conservato intatto il colore primitivo, e la impronta dei tre bracci della croce e del corpo del Cristo era rimasta così netta, così precisa, da sembrare segnata a contorni sul giallo della parete da l’abile mano di un pittore che non aveva potuto svilupparla e dipingerla.

Il marchese si era poi dato piena spiegazione del fatto; ma l’impressione improvvisa era stata così forte che egli aveva potuto vincerla a stento durante la giornata.

Un altro giorno, entrato nella cameretta dove si era rinchiuso per tirarsi una revolverata alla tempia, gli era tornata in mente la scena avvenuta là fuori tra lui e la Solmo corsa a cercarlo colà. E gli era parso di rivedersela davanti, con quegli occhi accesi che lo scrutavano, mentr’ella gli diceva: — Non sono più niente per voscenza! Mi scaccia come una cagna arrabbiata. Che ho fatto? Che ho fatto? — Se non che ora gli sembrava di non aver notato allora la terribile espressione di quegli occhi che forse volevano dirgli: — Io so! Ma taccio! E voscenza lascia credere che ho fatto ammazzare io Rocco Criscione?... Io so! Ma taccio! —

Sospetto che non gli era passato mai per la testa. Perchè gli spuntava in mente ora? Le brevi lettere che di tanto in tanto ella gli faceva scrivere quasi per rammentargli che era viva, non significavano forse: — Io so! Ho taciuto finora; ma potrei parlare. Non mi disse, ricorda voscenza? meglio per te e per me se lo avessi fatto ammazzare tu? Che intendeva? — Gli era parso di sentirla parlare così!

Anche quel giorno avea dovuto stentare per vincere l’ossessione dell’orribile sospetto. E per ciò e per altro ancora egli aveva talvolta la turbatrice sensazione di camminare su un terreno poco solido che avrebbe potuto, da un momento all’altro, sprofondarglisi sotto i piedi.

Si aggrappava a tutto per sostenersi; e, appena sentitosi di nuovo rassicurato, sorrideva di quei terrori, se la prendeva coi suoi nervi.

Che il marchese avesse i nervi irritati lo vedevano tutti. Guai a fare una piccola cosa che non gli andasse a verso! Lo sapevano, pur troppo! mamma Grazia, Titta, il massaio e i garzoni, l’ingegnere, i muratori e i falegnami che lavoravano a Margitello, e quei poveri contadini mal pratici nell’adoprare gli aratri di nuovo modello, non ostante le lezioni e i consigli da lui prodigati.

Erano due settimane che egli non tornava a Ràbbato, anche per evitare l’impaccio di una visita alla zia baronessa e di un abboccamento con Zòsima. Non poteva più dirle: — Non piove! — Acqua n’era cascata tanta, per due giorni e due notti di sèguito! E le terre già schiumavano, inverdivano, frettolose di far germogliare i semi delle erbe d’ogni sorta rimasti addormentati e inoperosi tra le zolle indurite.

Ma come pensare al matrimonio con quella fabbrica dello Stabilimento a cui egli doveva badare da mattina a sera, perchè si fosse potuto trovare pronto prima che arrivassero le macchine e i coppi e le botti da collocare a posto?

Come pensare al matrimonio con tante faccende campestri per le quali era costretto a scarrozzarsi da Margitello a Casalicchio, da Casalicchio a Poggiogrande, volendo osservare ogni cosa lui, sorvegliare tutto lui! Poteva fidarsi di quei stupidi contadini che non capivano nulla o fingevano di non capire ed eseguivano gli ordini a rovescio per farlo disperare e sgolare?

Quando però, dopo la colazione con l’ingegnere o con qualcuno dei soci, andato a Margitello a osservare lo stato dei lavori, si affacciava alla finestra e vedeva là, a un centinaio di passi di distanza, le mura già coperte dal tetto, le finestre con le solide inferriate e le imposte, e il via vai dei muratori che lavoravano nell’interno, e udiva il rumore delle seghe, delle pialle, dei martelli dei falegnami che allestivano le porte, egli si sentiva gonfiare il petto di orgogliosa soddisfazione.

— Ve lo sareste immaginato mesi fa?

— Portenti vostri, marchese!

Quei soci erano un po’ imbalorditi pensando anche ai gran quattrini già spesi. Li aveva anticipati il marchese, è vero, ma alla fine essi dovevano venir fuori dalle loro vigne, dai loro oliveti, quantunque a poco a poco; intanto avrebbero assorbito altro che i primi guadagni! E questi erano poi certi, sicuri?

— Ci siamo imbarcati in una grossa impresa!

— Chi non risica non rosica. Ecco come siete!

S’indispettiva di vederli dubitare davanti a quel fabbricato sorto da sottoterra per incanto e che tra non molto, sarebbe avvivato dall’attività delle macchine e colmato, negli spazi ora vuoti, dai coppi e dalle botti contenenti tesori!

E per rincorare gli spericolati, li conduceva là dentro, tra l’ingombro dei materiali, facendoli montare su le impalcature non disfatte, saltare qua e là a traverso sbarre di ferro, legname, arnesi da muratori; fermandoli a ogni quattro passi per ridare spiegazioni cento volte date, per eccitare le loro immaginazioni perchè vedessero le cose come apparivano agli occhi di lui, in pieno assetto, coi torchi sprementi le ulive infrante e colanti olio a rivoli; coi mosti che fermentavano nei tini e davano alla testa. Per poco egli non spillava limpidi vini dalle botti e non glieli porgeva nei bicchieri ad assaggiarli!

— Ma dunque, nepote mio?

Finalmente avea dovuto andare dalla zia, preparato ai rimproveri che ella gli avrebbe fatto.

— Cara zia!... Appena mi sarò sbarazzato di questi impicci. Faremo presto, in poche settimane.

— Tutto alla buona, modestamente, senza lusso, desidera Zòsima.

— Questo non deve dirlo lei. Il marchese di Roccaverdina non può sposare come un galantomuccio qualunque.

— Lo credo anch’io. Ma quella povera figliuola non rinviene ancora dallo stupore di veder avverare il suo sogno. Ha paura di rallegrarsi troppo presto della sua buona sorte. E io debbo trovare ogni volta un nuovo sotterfugio per far accettare a lei e alla sua mamma quel po’ con cui tu ed io vogliamo farle accorgere della loro mutata fortuna. — Abbiamo quel che c’è sufficiente. Ormai, ci siamo abituate!... — Quel suo famoso — Ormai! — Mi fa pena intanto l’altra ragazza. Si farà monaca, dice.

— Ora che stanno per abolire i monasteri?

— Dio non lo permetterà!

— Penseremo anche a lei. Ci penserà Zòsima. La marchesa di Roccaverdina riceverà una dote, e potrà disporre di qualunque somma, a suo piacere.

— La conosci poco. Le parrebbe di abusare del suo stato. Ha tutte le delicatezze quella figliuola. Giorni fa, mi diceva: — Deve trovarsi male con mamma Grazia. È persona fidata, affezionata, proprio una mamma. Una casa come quella però ha bisogno di una donna che sappia....

— Infatti ha ragione. Da qualche tempo in qua, mamma Grazia va giù, va giù; è mezza istupidita. Ma posso mandarla via? Chiuderà gli occhi in casa Roccaverdina, poveretta!

— Mi diceva anche.... Debbo riferirtelo, perchè tu la disinganni; il tuo modo di comportarti non è tale, in verità, da tranquillarla. Mi diceva anche: “Se lo fa unicamente per contentare sua zia (giacchè io so quanto interesse ha preso lei perchè questo matrimonio avvenga), se il suo cuore non sente per me quel che il mio sente per lui„ e le tremava la voce “lasciamo andare! Non vorrei che egli si sacrificasse. Ormai!„ Sempre quell’Ormai! La ho sgridata; ho risposto per te.

— Avete fatto bene, zia.

— Sarebbe assai meglio che cercassi di convincerla altrimenti tu stesso. Non pretendo che, alla tua età, tu ti metta a fare lo spasimante. Ma c’è modo e modo, nepote mio. — È un po’ orso! — le ho detto. Lo addomesticherai tu, lo renderai un altro in poco tempo.

Il marchese non sapeva che rispondere. Sentiva di trovarsi dalla parte del torto. Il suo cuore non era preso, e quando egli pensava a Zòsima gli si agitava poco o niente. Provava un piacevole sentimento, una dolce soddisfazione; non altro. I suoi sensi non vibravano, come gli accadeva se una folata di ricordi, investendolo improvvisamente, gli avvampava il sangue e lo lasciava turbato e sconvolto, con un indefinito senso, che egli non distingueva bene se di rancore o di rimpianto.

Appena la vide entrare però, assieme con la sorella e con la mamma, le andò incontro e le strinse fortemente la mano che ella gli porgeva commossa.

— La campagna dev’essere un paradiso — disse la signora Mugnos.

— Germoglia a vista d’occhio; sembra che scoppi! — rispose il marchese.

— Era tempo! — esclamò la baronessa.

Cristina non diceva niente. Si era seduta vicino ai seggioloni dove i due superstiti canini della baronessa stavano accovacciati coi musi appoggiati sul piano imbottito e con gli occhi socchiusi, e ne accarezzava con una mano le teste che mostravano di gradire assai la carezza, tremando leggermente ed abbassandosi sotto la mano.

Intanto il marchese, tratta un po’ in disparte Zòsima, le diceva quasi sottovoce:

— Voglio giustificarmi.

— Di che cosa?

— Di quel che voi sospettate.

— Non sospetto niente; temo. È naturale.

— Non dovete temere di nulla.

Guardandola e sentendola parlare, egli riconosceva più chiaramente il suo torto; e le parole di una volta: — Questa è la donna che ci vuole per me! — gli ronzavano nel cervello come un rimprovero.

— Un po’ di pazienza — riprese. — Qualche altro mese ancora. Voglio liberarmi dall’ingombro di parecchi affari. In certi giorni, ho una specie di stordimento, tante sono le cose a cui mi tocca di badare. Dovrebbe farvi piacere questa febbre di attività, dopo il mio balordo isolamento.

— Non me ne sono mai lagnata.

— Lo credo; siete immensamente buona. Voglio farvi ridere. Ho pensato di dare il vostro nome alla botte grande dello Stabilimento; porterà fortuna all’impresa.

— Grazie! — disse Zòsima sorridendo.

— È una sciocca idea, forse....

— Niente è sciocco se fatto seriamente.

Lieto della risposta, egli tacque un istante; poi riprese:

— È vero che vostra sorella pensi di farsi monaca?....

— Non lo so; può darsi.

— Dissuadètela.

— Assumerei una grande responsabilità.

— Non vi ho mai palesato una mia idea. Non voglio separarvi dalla mamma e dalla sorella. La mia casa è abbastanza vasta da poter accogliere anche loro.

— Ve ne sono gratissima da parte mia. La mamma però ha una particolar maniera di vedere le cose.

— La sua delicatezza non potrà offendersi dell’invito ad abitare in casa di sua figlia.

— La nostra condizione c’impone molti riguardi di dignità. Quante volte non ho io pensato: — Che diranno di me? — È vero che non bisogna occuparsi della malignità della gente. Basta la propria coscienza.

— Io non mi sono mai occupato dell’opinione degli altri. Non mi chiamo Antonio Schirardi marchese di Roccaverdina per nulla!

— A voi sarà lecito; ma una famiglia come la nostra....

— I Mugnos non sono da meno dei Roccaverdina.

— Erano!

— Il sangue non muta; il nome è qualche cosa.

— C’è un orgoglio che non può essere scompagnato dai mezzi di farlo valere. Io la penso come la mamma. E per ciò ho detto alla baronessa quel che deve avervi riferito, se ho ben compreso il significato delle vostre prime parole. Siate sincero, per vostro bene e mio! Tutto è rimediabile ora.

— Quando il marchese di Roccaverdina ha impegnato la sua parola....

— Potete esservi ingannato. Qui non si tratta della vanità di mantenere o no la propria parola. Io vorrei detto da voi....

Ella parlava con gentile timidità, quantunque non timide fossero le parole. La voce era alquanto affiochita dalla commozione, e anche dalla circostanza di dover ragionare alla presenza della baronessa, della mamma e della sorella.

Il marchese, ammirando l’assennatezza delle parole di Zòsima, cominciava a scoprire che sotto quel contegno nobile e riserbato covava un fuoco intenso, a cui soltanto la fortezza della volontà di lei non permetteva di divampare.

Ebbe uno slancio; e prendendole le mani con rapido gesto, senza ch’ella avesse tempo d’impedire quell’atto, disse:

— Non ho altro da dirvi, Zòsima, che sono dispiacentissimo di avervi dato occasione di dovermi parlare così!

Una leggera pressione delle belle mani di lei fu la risposta.

Zòsima abbassò gli occhi, col volto colorito da una sfumatura di roseo.

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