Questo testo è stato riletto e controllato. |
◄ | Capitolo XXI | Capitolo XXIII | ► |
XXII.
Erano già arrivate le macchine e gli operai che dovevano montarle e metterle a posto. L’atrio di Margitello sembrava di nuovo un arsenale, peggio dell’altra volta, coi bottai che dogavano botti, bottaccini e tini pel mosto; coi carretti che sopravvenivano carichi ciascuno di un coppo da olio, e coi manovali e i contadini che, imbracatili, li portavano nella dispensa già pronta, col suolo di cemento, liscio e un po’ avvallato verso il centro, dove la morta, cioè un coppo sotterrato fino all’orlo, apriva la nera bocca per ricevervi l’olio nel caso che uno dei coppi si fendesse.
E grida, e bestemmie da ogni parte; e su tante diverse voci, stentorea e dominatrice, quella del marchese che dava ordini, rimbrottava, sacrava, e faceva perdere la testa a tutti. Non c’erano voluti meno di otto giorni prima che ogni cosa fosse in assetto. Ma, finalmente, gli strettoi con le grosse viti e le madreviti di acciaio luccicavano, quasi fossero d’argento, di faccia alle màcine piccole e svelte; i coppi protendevano, torno torno, la pancia verniciata; le botti, insediate sui sostegni di pietra intagliata, si allineavano in ordine digradante, dalla botte grande ai bottacci e ai bottaccini con le cannelle e gli zaffi sporgenti.
— La chioccia coi pulcini! — aveva esclamato il massaio, ammirando.
E l’immagine era piaciuta al marchese che l’aveva ripetuto all’ingegnere.
Quando tutto fu in ordine e gli stanzoni sgombrati, spazzati, parevano più larghi, più luminosi, quasi una chiesa da farvi le sacre funzioni, secondo un’altra immagine del massaio (l’altar maggiore era la botte grande ed egli avrebbe voluto celebrarvi la messa cantata allorchè essa sarebbe stata piena del vero sangue di Cristo!); i soci dell’Agricola vennero invitati a un pranzo di inaugurazione dei locali, e alla tavola, rizzata fra gli strettoi e le macine, mancò soltanto il cugino Pergola, a cui gli strapazzi per le elezioni avevano fatto gonfiare le tonsille come spesso gli accadeva.
Giornata di grandissima soddisfazione pel marchese, che in quell’occasione battezzava la botte grande col nome di Zòsima tra i brindisi di augurii e gli applausi dei commensali.
— A questa accanto — disse il notaio Mazza — metteremo nome S. Giurranni che è il patrono del vino, perchè ripeta il miracolo di far rimanere le botti sempre piene, come quella sotto cui lo avevano sepolto i suoi assassini per nascondere il loro delitto. Più ne spillavano da essa e più ne veniva fuori. E di che qualità! Come mai? Un giorno la mamma di S. Giurranni, cerca e guarda, si accorge che un tralcio verde e pampinoso, spuntato dal terreno dietro la botte, era montato su fino al cocchiume e vi si era immerso. Fece scavare là sotto e rinvenne il corpo del figlio ancora intatto.... Ma la botte non diede più vino!... Bisogna ammazzare qualche santo, caro marchese, — concluse il notaio ridendo, — e seppellirlo qui!
Il marchese non rise con gli altri; si fece anzi scuro in viso, quasi il notaio non avesse parlato di S. Giurranni ma di Rocco Criscione. E al ritorno a Ràbbato, passando con la carrozza tra le siepi di fichi d’India dietro cui egli aveva tirato quella notte il colpo fatale, gli parve di vedere steso per terra il cadavere di Rocco con la fronte fracassata dalla palla e il volto insanguinato.
Non lo rivedeva così da un pezzo. Gli era accaduto di passare da quel punto anche senza che un rapido ricordo del fatto gli si destasse nella memoria; quella volta però, non ostante la vista degli alti seminati che ondeggiavano come il mare, e delle prode della carraia tutte in fiore sotto il sole che tramontava maestosamente dorando la campagna attorno, egli ebbe, lungo la strada, sempre davanti agli occhi la visione della cupa notte in cui la gelosia lo aveva spinto ad appostarsi dietro la siepe; e col bagliore della fiammata e con la sensazione del rimbombo del colpo sparato, il grido acuto del colpito che cascava da cavallo e quella dello scàlpito della mula fuggente spaventata.
E intanto, rispondendo al notaio Mazza che gli stava a fianco nella carrozza, parlava a voce alta quasi per stornarlo dal leggergli su la fronte il pensiero che gli sembrava dovesse essere visibile, tanto insistentemente lo tormentava.
Quell’imbecille di notaio gli aveva mutato in veleno tutto il piacere della lieta giornata! E così il marchese era arrivato a casa di gran cattivo umore.
Mamma Grazia gli annunciava dolente:
— Tuo cugino sta male, figlio mio! Ha mandato tre volte da questa mattina, vuole vederti prima di morire
— Prima di morire? — esclamò il marchese stupito.
— Così ha detto la serva. Piangeva. Il Signore lo ha chiamato; si mette in grazia di Dio!
— Sì, va bene — rispose il marchese. — Andrò domattina.
Aveva crollato la testa sorridendo delle ultime parole di mamma Grazia.
Ed ecco don Aquilante, per parlargli delle pratiche di un altro prestito di cui il marchese lo aveva incaricato settimane addietro, di una ventina di mila lire con ipoteca su Casalicchio, giacchè le settanta mila del Banco di Sicilia erano state ingoiate dalla fabbrica di Margitello, dalle macchine, dalle botti e dai coppi.
— Marchese, andiamo adagio! — gli disse don Aquilante. — Non tocca a me darvi consigli. Ma io conosco i miei polli. Facciamo! Facciamo! da noi significa: Fate! Fate!
— C’è un atto di Società, bollato e registrato....
— Lo so.... Alle strette, poi, se doveste mettervi a far liti.... vedreste, marchese, che cosa vi rimarrebbe in mano: un pugno di mosche.
— Lo stabile, le macchine, ogni cosa....
— Che ne farete?
— Ciò che ne faremo ora. Le venti mila lire, dunque?
— Sono pronte, al sette per cento; impossibile per meno. Quel canonico è un gran strozzino, quantunque servo di Dio!
— Allora sarà meglio ricorrere di nuovo al Banco di Sicilia. Pago a rate, in vent’anni.
— Forse.
Don Aquilante si voltò tutt’a un tratto indietro come se qualcuno lo avesse chiamato.
— Che c’è? — domandò il marchese.
— Nulla.... Al solito.... È qui. Da un pezzo mi viene davanti senza che io lo èvochi.
Don Aquilante non aveva più osato di riparlargliene dopo quell’esperimento mal riuscito, nè il marchese gli aveva più domandato, per canzonarlo: — E gli Spiriti? — distratto da tante occupazioni. Ma in quel momento, colto alla sprovvista egli si lasciò sfuggire:
— Lasciatemi in pace!...
Si corresse subito però:
— Ricominciamo la farsa? — disse. — Mandatelo al diavolo, se è vero!... Parliamo di affari.
— È un grande affare anche questo — rispose don Aquilante con gravità. — Se si potesse almeno rivendicare la reputazione del poveretto morto in carcere!...
— Non avete altra gatta da pelare, voi?
E tagliò corto al discorso.
— In quanto al canonico — soggiunse dopo alcuni istanti di silenzio — scrivetegli pure che strozzi un altro.
Mentre mamma Grazia preparava la cena, il marchese, con un lume in mano, andava da una stanza all’altra per distrarsi, osservando l’effetto delle novità operate, fantasticando intorno a quel che ancora mancava nell’ammobiliamento; tentando d’immaginarsi Zòsima da padrona di casa colà dove quell’altra era stata quasi tale dieci anni; riflettendo su l’avvenire che doveva arrecare straordinari mutamenti alla sua vita. Ma quella solitudine, quel silenzio, quelle ombre che si raccoglievano negli angoli per la scarsa luce del lume gli davano una paurosa sensazione che gli faceva girare timidamente gli occhi attorno e della quale si garriva nell’intimo come di fanciullesca viltà.
La paura dell’ignoto! Oh! Lo sapeva benissimo; aveva creato tutte le chimere delle religioni, tutte le leggende del mondo di là; gliel’avevano insegnato i libri prestatigli dal cugino Pergola! Li rileggeva di tanto in tanto, per fortificarsi, quando i suoi convincimenti vacillavano, quando le influenze ataviche rialzavano la testa per ridurlo simile ai selvaggi, agli uomini primitivi che tremavano pei fantasmi creati dalla loro fantasia e poi stimati realtà. Quei libri avevano ragione.
Ciò non ostante, le impressioni della giornata agivano ancora sui suoi nervi. Bisognava rassegnarsi a sopportarle finchè non si fossero affievolite e dileguate, proprio come le allucinazioni prodotte dalla febbre, che svaniscono appena l’accesso diminuisce di grado. Così talvolta, durante il delirio, si capisce di delirare, ma non si subiscono meno le allucinazioni morbose.
Si sentiva in uno di questi momenti. Infatti ragionava, derideva i terrori suscitatigli dalle parole del notaio Mazza, dalle sciocchezze di don Aquilante che pretendeva di vedere gli Spiriti e di parlare con loro; e intanto trasaliva allo scricchiolio di un mobile, guardava sospettosamente verso i punti che rimanevano meno illuminati, quasi nascondessero qualcuno che poteva venirgli innanzi all’improvviso.... A fare che cosa?... Stupidaggini! E intanto si affrettava a tornare nella sala da pranzo, sentendosi venir meno il coraggio di rimanere più a lungo solo solo.
Si era affacciato al balcone. Nel vicolo, neppure un lampione davanti alle porte delle casupole; le vicine recitavano in comune il rosario. La fiammata dei focolari, le misere lucerne dall’interno gettavano rossicce strisce di luce su la via mal selciata, su un gruppo di persone, su quella vecchia accoccolata sul sedile di pietra, con la testa china e le mani in grembo. Ombre passavano e ripassavano di tratto in tratto a traverso le strisce di luce. E le avemmarie si rispondevano da un punto all’altro del breve vicolo, monotonamente, interrotte da una chiamata, dal pianto di un bambino che faceva accorrere la mamma, dall’arrivo di un contadino che scaricava dall’asino due fasci di legna. Poi il rosario riprendeva monotono, un po’ frettoloso; e il marchese pensava che un anno addietro egli non era dissimile da quella povera gente. Essa si figurava che le sue preghiere prendevano la via del cielo, arrivavano fino all’orecchio di Dio e della Madonna per interessarli dei suoi bisogni, delle sue disgrazie, e andava a letto consolata da un luccicore di speranza. La qualcosa poi non impediva che quella gente in certi momenti non agisse, quasi Dio e la Madonna non esistessero punto.
E pensava che il mondo era un inesplicabile enimma. Perchè si nasceva? Perchè si moriva? Perchè tanta smania di affaticarsi, di arricchirsi, di affrettarsi a godere, e di soffrire con l’intento di arrivare un giorno a godere? Qualche istante la vita gli appariva come una folle fantasmagoria. E stupiva di quelle riflessioni così insolite per lui, di quella tristezza che gli pesava su l’anima, di quella sorda agitazione che gli serpeggiava per tutta la persona, presagio di sinistri avvenimenti.
Il rosario era finito; tutte le porte delle casupole si erano chiuse; pel vicolo rimasto buio non passava anima viva.
E sotto il cielo senza luna, chiazzato di nuvole cineree, risuonò improvvisamente la serale imprecazione della zia Mariangela.
— Cento mila diavoli alla casa dei Crisanti! Oh! Oh! — Cento mila diavoli alla casa dei Pignataro! Oh! Oh! — Cento mila diavoli al palazzo dei Roccaverdina! Oh! Oh!
Il marchese si ritrasse dal balcone. Quella volta la voce della povera pazza gli era riuscita insopportabile.
La mattina dopo egli andava dal cugino.
Cecilia, figlia dello zio don Tindaro, gli venne incontro nell’anticamera, tenendo i suoi due bambini per mano.
— Grazie, marchese! — singhiozzava. — Fategli coraggio.
— Ma è dunque vero? Io credevo che si trattasse di un’esagerazione di mamma Grazia.
— Questa volta è grave assai; può rimanere soffocato da un istante all’altro.... Per fortuna il Signore gli ha toccato il cuore.... C’è di là il prevosto Montoro.... Lo ha voluto lui, per confessarsi.
— Per confessarsi? — domandò il marchese, sospettando di aver capito male.
Cecilia non badò a rispondergli vedendo uscire il prevosto dalla camera del malato.
— Vado e torno subito — disse questi, avvicinandosi senza salutare il marchese a cui teneva ancora broncio pel crocifisso regalato alla chiesa di Sant’Antonio. — Precauzione e nient’altro signora. Il cavaliere può essere fuori di pericolo in un baleno; è caso ovvio in questo genere di malattie. Non bisogna disperare.
La signora Pergola si asciugò le lagrime, si ricompose e disse al marchese:
— Venite, venite!
Ma egli si era arrestato su la soglia della camera; non credeva ai suoi occhi.
Sul cassettone, parato con tovaglia da altare, tra candelabri di legno dorato con candele di cera accese a già consumate a metà, aveva sùbito riconosciuto le teche d’argento delle reliquie vedute esposte nella sacrestia di Sant’Isidoro nell’occasione dell’ultima visita diocesana del vescovo. La piccola, con le falangi di un dito di san Biagio, protettore contro il mal di gola; l’altra, con un avambraccio in cera che serviva da astuccio a un osso dell’avambraccio di sant’Anastasia.
Di rimpetto al cassettone, sul tavolino parato egualmente con tovaglia da altare, tra due candelabri con candele accese e sgocciolanti, in un vassoio di cristallo stava il cordone di argento del Cristo alla Colonna, della chiesa di San Paolo, che si concedeva soltanto in casi estremi e a fedeli di riguardo.
Poteva mai aspettarselo? E guardò, sbalordito, il cugino che, con cenni del capo e mugolando stentate e quasi incomprensibili parole, lo invitava ad accostarsi.
Seduto sul letto, appoggiato a un mucchio di guanciali, con in testa un berretto bianco di cotone, a maglia, che gli nascondeva anche le orecchie, coi sacchetti degli empiastri applicati alla gola e tenutivi aderenti da una larga fascia di lana grigia, col viso congestionato, con gli occhi rigonfi, coperto da un mantello di panno verde-bottiglia dai cui lembi uscivano le mani che stringevano un piccolo Cristo di ottone su croce di ebano, il cavalier Pergola, così infagottato, era quasi irriconoscibile. E soltanto la presenza dell’afflitta signora e dei bambini potè trattenere il marchese dal prorompere in una lunga e sonora risata.
La risata però gli fremeva dentro ed era anche qualche cosa di amaro, di profondamente triste, convulsione nervosa e sgomento prodotti dall’immensa delusione che lo inchiodava là, imbalordendolo, su la soglia.
— Ma.... dunque?... Ma.... dunque? — pensava ansiosamente, accostandosi al letto del malato.
— Perdonatemi!... Vi ho.... dato.... scandalo!
— Zitto! Non vi sforzate! — egli lo interruppe.
Quelle parole, che uscivano strascicanti dalla gola quasi senza aiuto della lingua, facevano soffrire anche lui.
— Vi ho dato.... scandalo.... con quei libri...! Bruciateli!
Il marchese si sentiva già preso da vertigini, come su l’orlo di un abisso senza fondo.
— Ma.... dunque?... Ma dunque?
Faccia a faccia con la morte l’ateo, il baldo bestemmiatore, il feroce odiatore d’ogni religione e dei preti, rinnegava tutt’a un tratto i suoi convincimenti, diventava una femminuccia, si circondava di reliquie, chiamava il confessore, voleva benedetto il suo matrimonio! Ed era stato il suo iniziatore, il suo maestro quasi! Oh!... A chi doveva egli credere ormai? All’uomo sano, nel pieno possesso di tutte le sue facoltà intellettuali, o a questo qui, infiacchito dal male, atterrito dalle rinascenti paure del mondo di là, ma che forse intravvedeva con lucido sguardo verità nascoste alle menti troppo annebbiate dai sensi, o sviate dagli interessi e dalle passioni mondane?...
E la risata che tornava a fremergli dentro, amara, profondamente triste e sarcastica, gli dava un’acuta sensazione di dolor fisico all’epigastro, mentre il cavalier Pergola riprendeva a strascicare le parole, stralunando gli occhi nei momenti che fin il respirare gli riusciva difficile.
— Perdonatemi!... Pregate.... che Dio mi conceda.... almeno la salute dell’anima.... se non quella del corpo!
— Eh, via! Non mi sembrate neppur voi! — gli disse il marchese, simulando tranquillità.
E guardava attorno, non riuscendo ancora a convincersi che lo spettacolo che gli stava sotto gli occhi fosse cosa reale. Un senso di smarrimento e di gran vuoto gli faceva correre rapidi brividi di freddo per la schiena, quasi tutto stèsse per crollare e miseramente inabissarsi attorno a lui. E, questa volta, senza nessuna speranza di prossimo aiuto, senza nessuna lusinga di lontana salvezza!
Così egli assistè, da quarto testimone, alla celebrazione del matrimonio religioso, che il prevosto Montoro venne a sbrigare alla lesta, accompagnato da don Giuseppe e da due conoscenti, raccolti per strada, giacchè non era il caso di perdere tempo nella scelta.
Indossate la cotta, la mozzetta e la stola, prima di aprire il rituale che don Giuseppe gli porgeva, il prevosto, cavata dalla tasca della sottana una carta, la presentava, spiegata, al cavaliere.
— È indispensabile!... Anche per mia giustificazione. Bisogna firmarla.
Fu portato il calamaio; e, mentre il malato firmava, il prevosto invitava gli astanti a ringraziare Dio per quella spontanea ritrattazione di tutte le eresie, di tutti gli errori, di tutte le empie dottrine professate con scandalo di tante anime, con corruzione di tanti cuori.
La commovente cerimonia in articulo mortis durava pochi minuti; e il sole, che inondava la camera dalla vetrata del balcone di faccia al letto, la rendeva più triste con la sua luminosa letizia.
Tra i ceri ardenti sui candelabri davanti alle sacre reliquie, nel raccolto silenzio dei pochi astanti inginocchiati attorno alla povera signora che non poteva frenare le lagrime, i due sì parvero singhiozzati, e le due mani stese, una per porgere, l’altra a ricevere in dito l’anello benedetto, furono viste tremare.
— Ego conjungo vos in matrimonio! — pronunciò il prevosto con voce robusta e solenne, benedicendo gli sposi.
Al marchese tornarono in mente in quel punto le parole del cugino, di un anno addietro, quando si lagnava che i parenti di sua moglie fossero indignati contro di lui perchè non aveva voluto farsi buttare addosso da un prete sudicio due goccie di acqua salata! E si levò in piedi, senza avere la forza di dire una sola parola di rallegramento e di augurio, con quella convulsione di riso amaro e sarcastico che la compiuta delusione tornava a fargli fremere internamente.