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Lettera di dedica
Il Moliere L'autore a chi legge

ALL’ILLUSTRISSIMO E SAPIENTISSIMO

SIGNOR MARCHESE

NOBILE PATRIZIO VERONESE1.


Q
UANDO negli studj più ameni trattenevasi per diletto la fecondissima Vostra mente, Illustrissimo Signor Marchese, non isdegnaste rivolgerla anche al Teatro, credendolo oggetto degno dei Vostri pensieri e della Vostra mano. Voi rimarcaste la miserabile decadenza di questo nostro Teatro, e ne promoveste il risorgimento. Le Vostre più serie occupazioni, i gravissimi studj Vostri, coi quali rendeste glorioso Voi, non meno che la Vostra Patria e l’Italia tutta, non vi permisero donare all’altrui piacere que’ dì, quegli anni, che consacraste all’altrui erudizione; ma in brevissimo tempo fatto avete ciò che bastar poteva per animare gl’ingegni degl’Italiani a rendere l’onor primiero alle nostre scene. Voi avete scritto elegantemente, e con verità, e con chiarezza, intorno al Teatro2; avete dell’origine sua con erudizione trattato, e dimostrandolo utile non solamente, ma necessario alle più colte Nazioni, avete ad evidenza altresì dimostrato che le Commedie, principalmente di questo secolo, erano atte piuttosto a corrompere i buoni costumi, anzi che a correggerli e migliorarli. Voi sin d’allora, accordandovi co’ Teologi più discreti, che contro la scostumatezza dei Teatri parlavano, non vi accordaste già con que’ rigidi che avrebbono voluto e che vorrebbono tuttavia i Teatri in cenere, volendo che Teatro e Peccato sieno due sinonimi inseparabili fra di loro. Quella onestà che inculcaste nel vostro Teatro Italiano, quella è necessaria nelle sceniche rappresentazioni: quella si osservi, quella si metta in pratica; si sferzi il vizio e non si solletichi; si pongano i difetti in ridicolo e non offendasi la virtù, e non saravvi allora Moralista zelante, che ecciti li Sovrani a demolire i Teatri, e indegne sostenga essere dei Misteri più sacri quelle persone che li frequentano3.

Ma poco avreste Voi fatto, se di massime e di dottrine soltanto aveste i fogli vergati. Potrebbono con ragione opporre gli zelanti alla verità delle istruzioni vostre la difficoltà dell’esecuzione, e con gravità sosterrebbono: il Teatro correggibile essere una chimera, l’onestà incompatibile colle Scene, lo scandalo certo, ed il pericolo manifesto. Voi avete dati gli esempi della correzione, della onestà, delle buone regole, della gravità del Coturno, dell’amenità del Socco, e contentandovi di dar un modello per ciascheduna sorta di Teatrale Componimento, faceste altrui comprendere che per riformare il Teatro mancavano soltanto gli Autori, che Voi e le Opere vostre imitassero. Ma come, e da chi mai imitar potrebbesi la vostra Merope, la quale lasciandosi indietro tutte le Tragedie antiche, sta qual maestosa Regina, mirandosi a piè del trono tutte quelle dei moderni Italiani?4 Io non intendo recar ingiuria ad alcuno, se la Tragedia vostra sopra le altre ho collocata: in ogni genere di animate e inanimate cose, una dee avere sopra delle altre il primato, e se nell’ordine delle Tragedie5 italiane la Vostra Merope ha il primo luogo, si consolino i tragici più valorosi, essere tant’alto di quella il grado, che posti luminosissimi rimangono per essi ancora. Coloro che contro la disonestà del Teatro non cessano di declamare, se questa perfetta opera vostra avessero prima letta, o tacerebbono certamente, o rivolgerebbono le loro grida contro quelli che non si curano di imitarla. Essi per altro, che credono empio il Teatro senza conoscerlo (siccome noi barbari sogliamo chiamare que’ popoli, de’ quali siamo poco a nulla informati) scagliano il loro zelo contro la disonestà degli Attori, contro il comodo, l’occasione e il pericolo degli spettatori. In quanto ai primi, cent’anni ormai sono, che portato dal genio mio teatrale, conversare ho dovuto con tutti quasi gli Attori nostri dell’uno e dell’altro sesso. Ho ritrovato fra questi delle donne lubriche, degli uomini scostumati, colle passioni istesse, coi medesimi vizj, come in altre brigate, in altri ordini di persone, in tante case, in tanti luoghi più rispettabili ho6 ravvisati. Ma vi ho trovato altresì uomini di tanta onestà, donne di tanta morigeratezza, che vergogna farebbono alle più ritirate. La giustizia ch’io rendo a tali discreti Attori, a tante oneste Attrici, non mi può essere imputata a passione. Informisi chi non lo crede, e troverà certamente che se il Teatro non è una scuola delle più austere virtù, troppo ingiustamente si sfregia col titolo di scandaloso.

Che gli Spettatori trovino ne’ loro palchetti il comodo d’amoreggiare, può anche esser vero, ma cotal comodo non manca loro nelle conversazioni, nelle villeggiature, e pur troppo ne’ luoghi ancora più venerabili e santi; e può anzi credersi, a parer mio, che l’ammirazione dello spettacolo teatrale divida il cuor dell’amante, il quale in altro luogo, senza la distrazione delle scene, tutto al suo Idolo lo consacrerebbe; e se talvolta una moralità d’un Attore, una sentenza, un accidente, un rimprovero tocca al vivo le piaghe di una spettatrice male educata, può avvenir facilmente, che dalle scene riporti quella correzione che la madre avida, o condescendente, non le averà per avventura mai fatto. Ecco il bene della Commedia onesta; Voi anche di questa ne avete dati gli esempj, ed io seguendo, benché da lungi, le tracce Vostre, non già con quella moderazione che Voi, per non abbandonare le serie occupazioni, osservaste, ma giunsi fino sovra i cartoni del Codice e dei Digesti ad abbozzare Commedie. Prendetevi la pena di leggere la prefazione alle mie Commedie7, Illustrissimo Signor Marchese, se voglia aveste d’intendere con quai principj, con quai progressi mi sia avanzato in tal arte. Voi troverete aver io con gualche accortezza nelle prime operato per guadagnarmi il popolo, ed avvedendomi che tutt’a un tratto non si potea cambiar il cervello a tanti uomini prevenuti, m’indussi a lasciar le maschere sul mio Teatro, e a toglier loro soltanto guel più che le rendeva noiose. A poco a poco ho potuto arrischiarmi a levarle da alcuna Commedia del tutto, ed ebbi la consolazione di vedere smascellar dalle risa anche il popolo basso, senza le storpiature, senza gli spropositi dell’Arlecchino. Passai più innanzi, e provar volli se una Commedia in versi potea sperare un egual fortuna. Voi siete uno di quelli che nella pugna dei due partiti protegge guello dei versi, ma versi tali vorreste, che si potesseso recitar senza il suono, versi che sembrassero prosa, versi insomma che somigliassero a guelli del Raguet, delle Cerimonie, due bellissime Commedie vostre.

Io vi confesso essere stato in guesta parte di sentimento contrario; nel mio Teatro Comico ne ho ragionato, e dichiarato per la prosa mi sono8). Ciò non ostante, com’io diceva, una Commedia in versi ho poi voluto comporre; non però con guei versi che pajon prosa, ma con guegli altri che, ad imitazione dei Francesi, Pier Jacopo Martelli ha usato nelle Opere sue, così che d’indi in poi di versi Martelliani portarono il nome. Voi sapete meglio di me non esser eglino che due Settesillabi uniti, de’ guali non si può nascondere il suono, accresciuto guesto ancor più dalla rima, su cui per ordinario si fa terminare il periodo.

Io, per dir vero, non sono mai stato amico di cotai versi, usati pel Teatro dal sopraddetto Martelli, e quanto ho lodato guel valoroso Autore ne’ suoi caratteri e ne’ suoi pensieri, altrettanto in lui mi è dispiaciuto guella maniera di verseggiare, la quale toglie moltissimo alle opere sue di guella maestà, che per entro di esse tratto tratto si scorge. Con una simile prevenzione parrà impossibile ch’io siami da me medesimo indotto a far cosa per cui io sentiva della repugnanza; io sono uno di quei compositori che dicono volentieri la verità: Pietro Cornelio mi piace assaissimo, perchè nelle sue Prefazioni soleva dirla, ed io in questo mi compiaccio assai d’imitarlo. Mi cadde in mente voler di Moliere medesimo, autor celeberrimo di Commedie, formare una Commedia. Lessi la di lui Vita; scelsi ciò che mi parve in quella più comico e più interessante, e diedi mano allo scrivere.

Il primo Atto lo feci in prosa, secondo il mio ordinario costume. Il soggetto però stravagante, i personaggi Francesi che lo componevano, il Protagonista autore, d’uno stile straniero, mi posero in soggezione, e scrissi in una maniera che potea forse riuscire aggradevole ai dotti, ma non avrebbe fatto colpo nell’universale. Lo stile si accostava un poco troppo al francese, i sali riuscivano delicati, il fraseggiare spiritoso e brillante, ma forse soverchiamente studiato, e quantunque potessi compiacermi di quello ch’io aveva scritto, l’esperienza fatta sul Popolo per tre anni, non mi lusingava di un esito fortunato. Allora a’ due partiti rivolsi l’animo, o abbandonare il soggetto, o migliorare lo stile, intendendo io per migliorare lo stile, renderlo grato a tutti, poichè quella io credo ottima cosa, la quale dal pubblico viene applaudita; osservai allora con maggior senso di prima, che tante moderne opere dei Francesi sono, mi sia permesso il dirlo, di scarsissimo intreccio, con un carattere appena, anche leggiermente dipinto9, eppure sono applaudite, unicamente forse perchè sono ben verseggiate. Il verso dunque (dicea fra me stesso) ha il maggior merito sul Teatro Francese, e perchè non potrebbe averlo sull'Italiano? Ma il verso dei Francesi è rimato; proviamo dunque a rimarlo, ed imitiamo il Martelli. Ecco come indotto mi sono a convertire in versi rimati quell’atto di commedia, che in prosa io aveva prima composto; e sembrandomi rimanerne contento, proseguii l’opera sino alla fine. M’ingegnai di coprire più che possibil fosse il difetto di tali versi, rendendoli facili e naturali; m’astenni da quelle trasposizioni, da quelle difficili costruzioni, ligamenti e prolissità di periodi, che l’uditore non meno del recitante affaticano; ma ciò non ostante, dubitai sempre dell’esito, e per quanto gli amici miei, ai quali io la leggeva, mi presagissero buon incontro, non me ne sapea lusingare.

In Turino fu per la prima volta rappresentata, in tempo che io non v’era. Aspettava le nuove, siccome un padre ricco attende dalla partoriente sua sposa la notizia di un primogenito, e fui lieto egualmente, allor che in Genova giunsemi il fortunato avviso di un pienissimo aggradimento. La replicarono i Comici colà più volte; in Venezia non si saziavano di udirla; lo stesso seguì in Bologna e in Milano; ma il compimento poi della gloria ottenuta dal mio Molière, fu allora che Voi, Illustrissimo Signor marchese, veggendola rappresentare l’anno scorso in Venezia, vi degnaste soffrirla tutta, vi compiaceste lodarla, e me medesimo onorar voleste del Vostro benignissimo compatimento. Contento non può bramarsi maggiore uno scolare, oltre quello di sentirsi lodare dal suo Maestro. Voi mi avete empito di consolazione, e sin d’allora mi entrò nell’animo l’ardentissima brama di pubblicare al Mondo il rispettabile vostro giudizio che tanto mi onora. Sa tutto il Mondo che sin dall’età più fervida impiegato avete il sublime vostro talento in opere d’alto peso, in opere della più accurata storia, della più sublime teologia; Voi la critica, Voi la morale. Voi la sperimentale filosofia, e tante altre scienze ed arti, che lungo troppo sarebbe il descriverle; Voi le avete felicemente trattate, ed arricchiste il Mondo di peregrine notizie, di nuove erudizioni, di salutevoli decisioni. Non è però disdicevole a Voi medesimo, che diate uno sguardo passeggiero ad un’opera, che se nulla ha di buono, lo riconosce da Voi: Voi m’inspirate quel genio che andar mi fece della buona Commedia in traccia, e da Voi l’oggetto primario dell’onestà e della modestia apprendendo, trovai la maniera di destare il riso negli uomini, senza offendere l’innocenza.

Questa Commedia dunque, di cui mostraste di compiacervi, a Voi, Signore, offerisco in dono, credendola di Voi degna, non per altra ragione, se non per questa, che Voi l’avete lodata, fregio che basta solo ad esaltare qualunque Opera, fregio che potrà certamente difenderla, se non dagl’invidiosi, dai critici almeno e dagl’ignoranti. Sono con ammirazione ed ossequio

Di V. S. Illustrissima

Umiliss. Devotiss. e Obbligatiss. Serv.

Carlo Goldoni.

  1. La presente lettera di dedica fu stampata la prima volta l’anno 1733, nel t. II dell’ed. Paperini di Firenze.
  2. Alludasi alla pref. del Teatro Italiano, Verona, 1723.
  3. Si allude manifestamente al p. Daniele Concina e all’opera De spectaculis theatralibus etc, Roma, 1753: contro la quale insorse il venerando Maffei (De’ teatri antichi e moderni, Verona, 1753), e scriveva fin dal 7 maggio di quell’anno al Goldoni: «Le confido che ho fatto una solenne risposta al Concina ecc.» (v. prefaz. della Sposa persiana).
  4. Nell’ed. Pap. c’è solamente: tutte quelle dei moderni?
  5. Pap. ha solo: delle Tragedie.
  6. Pap.: ne ho.
  7. Alludesi alla prefazione stampata in testa all’ed. Bettinelli di Venezia, ripetuta nel t. I dell’ed. di Firenze.
  8. A. III, sc. 2: ed. Bettinelli.
  9. Pap.: anche talor mal dipinto, sceneggiate senza artifizio, e con sentimenti che certamente non hanno quella sublimità che in molte altre s’ammira, eppure ecc.
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