< Il Moliere
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Nota storica
Appendice

NOTA STORICA

«Una famosa Compagnia di comici italiani, ha dato lunedi scorso principio alla rappresentazione delle sue Commedie in questo teatro del Serenissimo signor Principe di Carignano, le quali non si ha dubbio che verranno al solito assai gradite dal pubblico.» Così una notizia nel Giornale di Torino del 21 aprile 1751 (V. Carrara, C. G. a Torino, in Commedie di V. C. Torino, 1888, vol. IV, p. 220), non seguita pur troppo da altre su quella stagione, durata fino a settembre. Non il nome d’un attore, non un titolo di commedia, non un cenno (o tempi!) sul poeta, giunto colà co’ suoi commedianti. Erano quelli di Girolamo Medebac e venivano ad esibire alla capitale del Piemonte tutta una sene di belle e nuove commedie del Goldoni. Ma le recite di quei comici italiani non incontrarono il favore del pubblico. «Il genio di questa nazione è particolare — scriveva l’autore il 30 di quel mese all’Arconati- Visconti (Spinelli, Fogli ecc., p. 17) — e dirò soltanto che più del Cavaliere e la Dama, piace in Turino l’Arlecchin finto principe.» A Torino come a Parigi. Gli istrioni italiani curino i lazzi de’ loro scenari: la commedia vera non tocchino. Due anni dopo, nella dedica della Fam. d. antiq. (V: Vol. III, p. 297, nota), ripetè in altre parole questo poco lusinghiero giudizio sui Torinesi. Ma già l’anno seguente, in fronte alla Donna volubile (Vol. VI, p. 351) modifica sensibilmente il suo pensiero. Non il più lontano accenno alle ignobili predilezioni per il teatro improvviso. Torino «situata... sul margine della Francia» aveva «adottate» non poche «delle sue lodevoli costumanze ed erano «gli animi de’ Torinesi in favore della Commedia Franzese onninamente impegnati». Nell’ediz. Pasquali (Vol. VIII, a. 1765) il passo su Torino è tolto. Trascorso un altro lungo spazio di tempo, leggeremo nelle Memorie (P. II, e. XII) che a Torino le opere del Goldoni si ascoltavano e si applaudivano, e solo sarà parola di certi tipi curiosi che a ciascuna commedia nuova dicevano: «e’est bon, mais ce n’est pas du Moliere». Per questo il Goldoni, a prova di quanto conoscesse e venerasse il Francese egli stesso, ma, più ancora, a sfogo del suo dispetto per le accoglienze fredde e le critiche avventate di chi giudicava pur senza ascoltare, da due episodi della vita di Moliere trasse questa sua commedia; la studiò coi suoi comici, e se n’andò a Genova senza presenziarne la recita (28 agosto, secondo l’ed. Bettinelli, 1753, vol. IV).

Così dopo poche commediole e dialoghi, quasi sempre allegorici, dove, salvo rare eccezioni, agisce solo l’ombra di Moliere (J. Taschereau, Hist. d.l. vie et d. ouvrages de M., Paris, 1828, pp. 417, 418; P. Peisert, Molières Leben in Bühnenbearbeitung. Halle a. S. 1905, pp. V, VI, 62), ecco un Italiano scriver la prima commedia ispirata direttamente ai casi della sua vita. E il Geoffroy aveva ragione di chiedersi: «N’est - il pas étrange qu’un Italien ait rendu le premier cet hommage dramatique á notre Moliere?» (Cours de litt. dram. Paris. 1825, vol. III, p. 400).

Dal simpatico libriccino del Grimarest (La vie de M. de Moliere. A Paris, MDCCV; ristampato a cura di A. P. - Malassis, Paris, 1877) attinge il Goldoni tutto quanto spetta alla gara — episodio centrale della commedia — tra le due rivali ch’egli, sempre col Grimarest, ritiene madre e figlia, non sorelle, come documenti venuti a luce più tardi provano (cfr. G. Mazzoni. Il teatro della rivoluzione. La vita di M., ecc. Bologna, 1894, p. 124 e segg.). Poichè la fonte non fa il nome di nessuna delle due, e il nostro autore dovea pur distinguere e d’un nome almeno aveva bisogno pel dialogo, con curioso anacronismo e violando lo spirito della nostra lingua, chiama dapprima la più giovine Guerrina, dal nome del [secondo] marito, come in Francia usa. E l’aveva scovato nel noto libello contro quella povera femminetta, intitolato La fameuse comedienne ou histoire de la Guérin auparavant femme et veuve de Moliere (a Francfort, ecc. 1688; ristampato nel 1868 a Ginevra). Rimediò poi nell’ed. Pasquali ribattezzandola col nome d’Isabella, trovato in un Dizionario francese che potrà essere il Dictionn. portatif. des theatres (Paris, 1 754), nel quale però non si legge (p. 390) Isabella, ma Elisabetta. Errore per errore (si chiamava Armanda), al Gold, per ragioni di ritmo e di rima piacque meglio il primo, di suono affine. Ci appare il Moliere nel momento più felice della sua vita e più significativo per l’arte sua, avendo il Gold., con arbitrio non negato ai poeti, raccostato due date tra loro lontane; il 1662, anno del suo matrimonio, e il 5 febbraio 1669, data della prima recita pubblica del Tartuffe. Anche l’episodio di Don Pirlone, che nella commedia prende il secondo posto, si trova accennato dal Grimarest (pp. 106, 107 della ristampa). Di là pure l’affaccendarsi dell’ipocrita per alienare al direttore - commediografo l’animo di tutti. E pur la buona trovata comica del mantello e del cappello toltigli onde Mol. se ne serva nella recita del suo capolavoro, risponde a uno spunto del Grimarest (p. 139). Inutile cercar più lontemo (Ménagiana, III p. 230; Mélanges historiques ecc. Amsterdam, 1718, p. 70), come suppone il Peisert (op. cit. p. 1 4). Nel nome dell’impostore e persino nella prima sua forma Curlone, consigliata al Goldoni o al Medebac, editore, da prudenza o voluta dalla censura, s’indovina e si ritrova il Don Pilone di quel Gigli, cui la Premessa allude con sì infinite cautele. Fattosi coraggio, l’a. adottò la forma Pirlone, che il nome originale gli ricordava forse troppo la pila dell’acqua santa. A ogni altro particolare, quasi a ogni battuta, salvo qualche tirata apologetica o aggressiva, fa riscontro un passo o l’altro del Grimarest (cfr. ancora le scene I 1,4; II 10; III 3, 6; l’2, 6 con le pagine, 20, 23, 36, 37, 107, 135, 139, 169 del Grim). Alle poche modificazioni operate dal Gold, aggiungi la casanoviana trasformazione della «vieille servante La Forest» (Grimarest, p. 134) in una vispa Colombina goldoniana che stuzzica le voglie del nuovo Tartufo, e l’invio di Valerio (Baron) al campo di Fiandra in luogo del La Torellière e del La Grange (Grimarest, p. 108), come lo stesso Moliere narra nella premessa al suo capolavoro.

Ma il seguire tanto da vicino la mite, piana esposizione del Grimarest, più inteso a mettere in evidenza la bontà e la debolezza dell’uomo, che a sentare l’artista nella sua meravigliosa officina, fa sì che il G. rimpicciolisca l’eroe invece che levarlo ben alto. E certo questo intendeva. Intenzione, nulla più. Idealizzare la figura non rispondeva neanche alle qualità peculiari dell’arte sua. Quanto poteva fece, e gli sforzi non vanno più in là della veste. Bandì le maschere, mantenne la scena stabile e, per la prima volta nelle commedie del riformatore, alla prosa sostituì il verso: quel verso nel quale Molière aveva composto il Tartufo e il Misantropo. Più avventurato di Pier Jacopo Martelli (1663 - 1727) che al metro, nuovo nella letteratura drammatica nostra, diede il suo nome e, a giudizio del Carducci, vi fece pure egli stesso miglior prova che non gl’imitatori (Nuove poesie. Imola, 1873. p. 126), il Goldoni in questo suo tentativo incontrò inaudito favore presso le platee, presso i cultori di Talia e d’altre muse. Non mancarono, s’intende neanche gli oppositori. S’accese allora tra gli oziosi della vasta repubblica letteraria una vivace polemica intomo al nuovo verso (A. Galletti. Le teorie drammatiche e la tragedia in Italia nel secolo XVIII, Cremona, 1901, p. 129). Per lunghi anni il Gold. dovette, esempio al Chiari e ad altri, secondare il gusto del pubblico. Diede così al martelliano più di trenta commedie. «Co’ denti, co’ piedi, e colle mani, | Formansi versi detti Martelliani» scriveva Carlo Gozzi (La Tartana degl’influssi ecc. Parigi, 1 757, p. 58) e coi granelleschi suoi compagni prevedeva di sentir presto «i cani | Baiar anch’essi i versi martelliani» (Sommi - Picenardi. Un rivale del Goldoni, ecc. Milano, 1902, p. 72). Gasparo in lettera del 2 ottobre 1754 scriveva a Stelio Mastraca: «Tutto il mondo e versi martelliani... i bottai sotto le vostre finestre battono in tuono di verso martelliano e fino l’azione del procreare si comanderà con bolla o decreto che sia fatta sull’armonia martelliana» (cit. dal Galletti, p. 131). Ma dello stesso Gozzi sono assai note anche le lodi date a questo verso (cfr. Ach. Neri. Aneddoti Goldon., Ancona, 1883, p. 30). G. B. Vicini chiedeva — sempre in versi martelliani — a gran voce questo metro per le scene, perchè «non troppo in alto si tiene, | Nè men troppo serpeggia sopra le umili arene» (Della vera poesia teatrale. Epistole poetiche. ecc. Modana, [1754], p. 17) Fra gli entusiasti il Goldoni in verità non era. Ne fan fede la dedica di questa commedia e quanto ripetè più tardi nell’autobiografìa (Mém. P. 1, c. XVIII). Al nuovo metro, saltellante e monotono, s’era acconciato a malincuore e pur nella questione generale, tanto dibattuta, se alla scena comica convenisse più il verso o la prosa, s’era messo apertamente — nel Teatro comico (V: Vol. IV a pag. 68, in nota) — tra i fautori della prosa. Ma quelle poche battute nell’ediz. Pasquali non si leggono più; certo perchè al Goldoni parvero troppo recisamente contraddire alla pratica da lui più tardi largamente esercitata. (M. Ortiz. Commedie esotiche del G. Nap. 1905, p. 44 e segg.; G. e Maffei. Strenna [Rachitici] 1907, Venezia, p. 55).

Le notizie della dedicatoria sul!’ottimo esito del Moliere a Torino e a Venezia, sono ampiamente confermate da quanto ne scrive l’a. a Giovanni Colombo (ded. d. D. volubile cit.), dalle Memorie (l. cit.), dalla premessa al Terenzio e da una oreve nota del Medebac (ediz. Bettin. cit), che accenna pure al bellissimo successo di Bologna. Il Goldoni che di questo suo lavoro, quasi esponente d’un nuovo indirizzo dato all’arte sua, doveva compiacersi assai, nel viaggio di ritorno a Venezia, volle leggerlo, a Modena, al march. Bonifazio Rangoni, grande amatore del teatro e suo protettore (vedi Masi, Lettere di C. G., p. 112), «col vantaggio d’averlo benignamente dell’autorevole sua approvazione fatto degno» (ded. dei Mercatanti, ediz. Pasq. vol. IX, p. 95). La fortuna accompagnò questa commedia fin nella seconda metà del secolo scorso. Vinsero contro lo scarso merito intrinseco dell’opera la vanità degli attori, felici di mostrarsi ne’ panni del gran Moliere, la parte di Pirlone d’effetto sicuro a un buon caratterista e, non ultima ragione, la voga ch’ebbero un tempo i drammi biografici. La recitò Jacopo Corsini (V: Nota al Servitore di due padr.) tra il 1775 e il 1776 tre volte al Teatro di Via del Cocomero a Firenze e per ciascuna di queste recite resta una sua ottava cantata, relative tutte alla figura dell’impostore. Nel 1820 la ritroviamo a Milano nel repertorio della Comp. Perotti (Seconda continuaz. d. serie cronol d. rappr. del Tea. di Mil. 1821, p. 135) e l’anno dopo in quello della Reale Sarda appena fondata (Costetti, La C. R. S. ecc., p. 15); di nuovo a Milano nel 1829 recitata con plauso dalla famosa Comp. Goldoni del Duca di Modena (I teatri, 1829, III | 2 p. 371). Si rappresenta a Modena negli anni 1767, 1845 e 1861 (V. Tardini. La dramm. nel n. tea. com. di Mod. 1898, pp. 39, 135, 136), a Zara (Comp. Coltellini e Ristori) nel 1855 (Sabalich, C. nel passato teatr. di Z. Il Dalmata, 27 febbr. 1908), all’Arena del sole di Bologna (Comp. Zamarini) nel 1860 (Cosentino, L’A. d. s. Bol. 1903, p. 113). Assai frequente ricorre pur tra le recite filodrammatiche (1807 [Martinazzi, Acc. de’ Filo dramm. di Mil. 1879, p. 121]; 1834-35 [Soc. filarmonico-dramm. Memorie, Trieste, 1884, p. 26]; 1872 [Prinzivalli, Acc. filodr. rom. Temi, 1888, p. 195]). Fra i grandi attori che impersonarono il Moliere goldoniano va ricordato Ernesto Rossi (V. Planiscig, Cenni cronistoria sul tea. di Soc. di Gorizia. 1881, p. 81) e ottimo Pirlone fu Antonio Papadopoli, assicura un suo biografo: «In Pirlone nel Moliere di Goldoni, non è egli il perfetto ritratto del bacchettone che sotto mantello di santità nutre impurissimi affetti, dell’ipocrita che pone, come dice Elvezio, il suo punto d’appoggio in cielo per mettere sottosopra la terra?» (Dell’attore comico A. P. Zaratino, Zeira, giugno 1856).

Ne mancò alla commedia fortuna di rifacimenti e traduzioni in Italia e fuori. Fra gli imitatori primo l’ab. Pietro Chiari col suo Moliere marito geloso pure in versi martelliani, rappresentato nel ’53 a Verona, poi a Venezia. «A lavorare su tale argomento — confessa l’autore — e lavorarci con questo metro novello mi fu allora di stimolo l’altra Commedia intolata Moliere, esposta pria dal Sig. Dottor Goldoni alle Scene» (Comm. in versi del Fab. P. C. Ven. 1757, vol. II, p. 8). Era una continuazione del Moliere goldoniano con gli stessi personaggi, tolto Pirlone e sostituito al conte Lasca un marchese D’Estramb. Anche le velleità polemiche non mancano. Identità d’ambiente, di personaggi, di intenti e di forma giustificano le accuse di pedissequa imitazione, anzi di plagio, mosse all’autore (Sommi-Picenardi, op. cit., p. 24; Neri, op. cit., p. 61 segg.). «Produsse il Molier ammogliato, copiando l’originale del mio dimidiato Terenzio [Goldoni]» scriveva del Chiari, biasimando, l’anonimo autore [S. Sciugliaga] delle Censure miscellanee sopra la commedia (Ferrara, 1755, p. 38). Opponevano i partigiani del Chiari che tra i due lavori «v’ha quella differenza che passa fra una maritata ed una da maritarsi» (Dispaccio di Ser Ticucculia ecc. In Bengodi, s. a., p. 28). E un altro a ribattere: «io rispondo, che il Moliere, o sia maritato, o no, è la stessa persona... che il primo a prendere dalla Vita del M. è stato il Semiterenzio; il Poeta incastrato [Chiari] il secondo: dunque l'incastrato imitò Semiterenzio nel prendere dalla Vita del Moliere». (ivi). Si difese alla meglio anche il Chiari nelle Osservazioni critiche mandate innanzi alla sua commedia, concedendo a bocca stretta che obbligato a «fabbricare sul vecchio» s’era dovuto adattare «alle fondamenta e alle mura... già erette». Aveva dovuto conservare i caratteri stessi e tutt’al più «modificarli ed accomodarli» al suo intento. Poi, per levarsi un po’ la stizza di dosso, finì col dir male del Moliere goldoniano. Ma non egli aveva saputo far meglio. Tutt’altro. Per metter in scena solo le smanie d’un marito geloso era necessario dar noia a Poquelin? Un Ottavio o un Lelio qualunque bastava. Con tutto ciò la commedia ebbe fortuna, sia per una relativa semplicità di svolgimento, se anche non del tutto scevra delle solite stravaganze chiaresche, sia — questa la ragione più salda — per il nome del protagonista. Sopravvisse anzi alle numerose compagne e la Comp. R. Sarda l’ammise nel suo repertorio con la sorella goldoniana (Costetti, op. cit., p. 15). Fu tradotta in tedesco (M. oder Der eifersüchtige Ehemann. 1768; in Neues Theater von Wien. Wien. Krauss, 1769 —, vol. II), e a un critico di Germania sembra oggi ancora più divertente che non quella del Gold. (Landau, Gesch. d. ital. Litt. im XVIII. Iahrh., Berlin 1899. p. 430). Non perchè imitazione dal Goldoni, ma perchè opera attribuita a un suo caldissimo partigiano [S. Sciugliaga; cfr. Spinelli. Fogh ecc. p. 67] e tra i parti poetici più curiosi della gara tra il Riformatore e il Chiari ricordiamo ancora a questo luogo Le nozze involontarie della signora Commedia Italiana col signor conte Popolo (Ferrara, 1755), pesantissima commedia allegorica che ha tra i suoi simbolici personaggi — unico nome reale — Moliere.

Il Moliere si trova nelle note raccolte del Fraporta (Scelta di comm. di C.G.Ediz. terza. Lipsia, 1790, vol. IV, p. 87 e segg), del Montucci (Scelta completa [!] di tutte le migliori comm. di C. G. ecc. Lipsia 1828, vol. I, p. 197 e segg.) e singole scene, corredate di ottime note, si leggono nelle Antologie del Targioni -Tozzetti (Ant. d. poes. ital. 11a ediz. curata da F. C. Pellegrini. Livorno, 1909, pp. 723-725) e di R. Guastalla Ant. goldon. Livorno, 1908, pp. 41-47). Antonio Montucci, senese spirito bizzarro (cfr. l’artic. di F. Romani. Per riguardo alla moglie inglese, nel Marzocco del 31 ott. 1909), mutava a suo arbitrio il num. degli atti, traduceva in toscano le parti in dialetto, correggeva Goldoni per la lingua e per la morale, e se la commedia, come questa, era in versi — tanto peggio per i versi. Dalla presente tolse qualche francesismo sostituendovi le voci italiane «benchè non senza scapito dell’armonia poetica» (p. 198) e al doppio senso, evidente nella risposta d’Isabella: «Egli non mi ha veduta, Signora, altro che questa», alla domanda della madre «a voi chi diè licenza venire in questi quarti | A farvi da Moliere veder le vostre parti?», rimediò il brav’uomo dicendo: «ma riveduto» ecc. Del modo inaudito onde manometteva Goldoni, il compilatore venne acerbamente redarguito in una lunga e pensata recensione alla sua Scelta nell’Allgemeine Literatur - Zeitung del 1829 (IV vol. col. 995 e segg.).

Come di ragione, dato il soggetto, il Moliere in Francia fu tra le commedie goldoniane più note e meglio accolte. I Francesi così infinitamente gelosi delle glorie loro, non gridarono tutti questa volta al sacrilegio. La sincerità dell’omaggio lusingò la vanità nazionale. Luigi Sebastiano Mercier (1740-1814), che col Goldoni era certo in buoni rapporti (Mem., P. III, c. 23), ridusse liberamente in prosa il Moliere. Tra i personaggi, a Valerio sostituì La Torilliere e da due aneddoti del Grimarest (pp. 168, 126) derivò due nuove scene: quella (I, I) dove il poeta rimprovera Lesbino d’aver impiegato le sue traduzioni di Lucrezio per farne diavoletti alla sua parrucca; l’altra (V 4), in cui Moliere sconsiglia Mademoiselle T*** dall’abbracciare la professione teatrale; ma questa scena non si lega in modo alcuno all’azione e solo la ritarda. Altro poco aggiunge e modifica. Nel resto segue l’originale e traduce. Il 14 nov. 1787 questa commedia, subiti nuovi mutamenti (collaboratore P. A. Guys), si eseguì a Versailles davanti ai Reali col titolo la Maison de Moliere ou la journèe du Tartuffe. Ridotta a quattro atti, omesse le parti prima aggiunte, nella nuova lezione resta assai più vicino all’originale. Così la Correspondance del Grimm (Paris, 1878, vol XV, p. 157). Fra il terzo atto e il quarto si recitò davvero il Tartufo. Porel e Monval annotano (L’Odèon. Paris, 1876, vol. I, p. 54) che il lavoro ebbe scarso successo e si fece sei volte soltanto. Anzi, secondo il Bachaumont (Mém. historiques ecc. Paris, 1809, vol. III, p. 456), successo non vi fu. Egli vi loda solo la Bellecour (servetta) per il brio e la verità. Però la statistica del Joannidés (La Com Franç., 1901, p. 53 e passim) attesta che fino al 1812 la Mais. d. M. si recitò ben 47 volte. Intorno a una recita seguita nel giugno del 1804 si legge nel Journal de Stendhal (Paris, 1908, p. 50): «La Maison a un succès complet... Cette pièce est charmante de naturel. Goldoni est peut-etre le poete le plus naturel qui existe, et le naturel est une des principales parties de l’Art. Le personnage de Moliere, surtout si bien joué par Fleury, tourne admirablement».

Nel 1801 il Moliere venne compreso tra i Chef-d’oeuvres dramatiques de C. G., tradotti da A. A. D. R. [Amar Durivier] col testo originale a fronte (Lyon et Paris, vol. II, p. 210-399). I grandi elogi al Gold, nella prefazione si affievoliscono non poco a tutto vantaggio del Mercier nell’Esame che segue la traduzione. Ancora una traduzione diede alla Francia nel 1822 Stefano Aignan (Chefs-d’oeuvre du th. ital.: Goldoni.) il quale non esita punto «a scorgere nel Mol. del G. il suo capolavoro» (p. 177). Per la fortuna di questa commedia a Parigi piace ricordarne l’esumazione fattane ancora il 16 dic. 1897 all’Odeon (cfr. F. Sarcey. Le «Moliere» de G. Conference, Revue des cours et conférences, 9 genn. 1898) nella versione dell’Aignan.

Altre due traduzioni ci son note: la tedesca, in prosa, del Saal (vol. IV), e una libera versione olandese, in versi, di P. J. Kasteleyn (Amsterdam, 1781), il quale — m’avverte il prof. Van der Berg di Nymegen, cui debbo preziose notizie sulla fortuna del Gold, in Olanda — conosceva anche il Mercier, ma seguì solo l’originale, tagliando qua e là e sacrificando del tutto il co. Lasca. Da ultimo convien far cenno pure dell’Originale del Tartufo, la nota commedia del Gutzkow, popolarissima in Germania. L’idea di mostrare Moliere in lotta aperta con l’ipocrita da lui satireggiato, sarà tutta sua e l’incontro col Goldoni solo fortuito, come vuole l’autore (Das Urbild des Tartuffe, 2a ediz., Lipsia, 1862, p. 110)? La dipendenza dal Nostro affermano il Peisert (op. cit., p. 39), C. V. Susan (C G., Oesterreichische Rundschau, 15 febbr. 1907, p. 291) e A. Gleichen - Russwurm (C. G. Die Nation. Berlino, 23 febbr. 1907).

Sparito il Moliere ormai dalle tavole del palcoscenico per restare solo nei vasti domini della storia letteraria, riposo e ultimo appello a’ lavori teatrali — che ricordo ne serba la critica? Agli elogi dell’Aignan e dello Stendhal s’aggiungono quelli del Montucci («bellissima commedia» op. e 1. cit.), dell’ab. Frane. Fanti ( «Il M. certo non può che piacere ed è una commedia che fa onore al suo autore» Lett. da Modena in data 8 agosto 1754. Modena a C. G. 1907, p. 333), dell’Auger, il cui giudizio mette conto riportare intero: «G. a fait... une piece intilulée Moliere, et c’est son chef d’oeuvre. L’idee en est heureuse, l’intrigue bien ourdie, les situations plaisantes, les caractères fortement tracés. L’auteur a écrit de verve, il s’est fortement identifié avec les chagrins de Molière, et les a peint avec une telle verité, que vous vous croyez transporté dans la maison même de ce grand homme, et que ses faiblesses et ses peines se decouvrent au spectateur comme a un ami. La pièce est ecrite en vers, et il en est resulté plus de vivacité et de brillant dans le dialogue». Physiologie du Théatre. Bruxelles, 1840, vol. 2° p. 268). Ben s’accorda con questo l’elogio d’Achille Neri: «Tutto lo svolgimento e... lavoro della sua immaginazione, condotto con tanta naturalezza e maestria, da far credere agli spettatori che veramente le cose si fossero passate in quella maniera, e non altrimenti. In ciò sta appunto il gran merito di Goldoni, e il difficile segreto dell’arte drammatica» (op. cit. pp. 52, 53). Biasimo e lode dispensa in equa misura il Rabany (op. cit. pp. 276, 281 e passim). Ma perchè pretendere dal Goldoni, l’anno di grazia 1751, qualche cosa di nuovo sull’anima e sul genio del Moliere? Tanto non chiede il Lüder che lo loda per il modo onde riuscì «a creare nel suo eroe una figura tanto viva e interessante quanto storicamente verisimile», e son messe con simpatia in rilievo le affinità tra i due poeti: il biografo e il biografato. In altri riguardi non manca neppure il biasimo (C. G. u. s. Verhälinls zu M. Berlin, 1883, pp. 23 - 30). Nell’encomio entusiastico supera ogni altro critico Domenico Oliva («Molière e sua moglie» di Gerolamo Rovella al Valle. Il Giorn. d’It., 20 maggio 1909). Il Moliere goldoniano e per lui «così vivace e indiavolato, così teatrale, così umano, così divertente da non parere superabile: di fatti non fu superato. Moliere vi è addirittura magnifico: Chapelle sotto il nome di Leandro è ritratto al vivo, e così La Grange sotto il nome di Valerio: che più! Il Goldoni ebbe l’ardimento di porre Tartufo in iscena, chiamandolo alla maniera del Gigli Pirlone: felice, radioso ardimento: la copia vale l’originale... ma non è copia, è un altro Tartufo grottesco, buffo, impagabile...» Ricordiamo ancora Giulio Bertoni (Modena ecc. op. cit. p. 416), il quale al Moliere allude con grande favore; Eugen Reichel, un goldoniano improvvisato per il bicentenario (1907), che lo annovera tra le meglio cose del Goldoni (Sonntagsblatt des Hannoverschen Couriers, 1907, n. 845), e così un tale Charles Simond, per il quale proprio questa commedia è per noi Italiani il capolavoro dell’autore (nella Notice biographique al Bourru bienf. Paris, Gautier, n. 130 della Bibl. popul).

A contrabbilanciare tanto spreco d’elogi ecco la Correspondance del Grimm (vol. cit. p. 296) definire il lavoro «une fable sans mouvement et sans action»; il Royer affermare che Gold, restò «bien au-dessous de la tàche qu’il avait entreprise» (Hist. un. d. théa. Paris, 1870, voi. IV, p. 331); e il Guerzoni, rincarando, dirlo «infelice commedia... morta nella culla» (Il tea. ital. n. sec. XVIII, Mil. 1876, p. 253), asserzione contraddetta dai fatti. Altri ancora. Victor Klemperer, riassumendo una sua severa critica, sentenzia: «se Goldoni non avesse fatto di meglio là dove potè descrivere la sua cara Venezia, non avrebbe avuto diritto davvero a disegnare Moliere come suo maestro» (Die Gestall Molières auf der Bühne. Bühne und Welt, 1° giugno 1906, p. 721). Plaude Marietta Ortiz alla condanna senza appello che su questa aberrazione goldoniana (Giorn. stor. d. lett. it. LII, p. 174) pronuncia Giuseppe Ortolani («sgorbiò il Molière pessima commedia». Della Vita e dell’arte di C. G. Ven. 1907, p. 66). A Virginio Brocchi il Molière e compagni [Il Tasso e il Terenzio] paiono solo «esercitazioni letterarie» sorte dalla «smania dell’auto-apologia» (C G. e Ven. nel sec. XVIII. Bologna, 1907, p. 38), e «d’une parfaite insuffisance» lo ritiene Paul Souday (L’Eclair. Paris, 25 febbr. 1907). Eppure, se giudizi laudativi sono, senza dubbio, fuori di posto, sentenze capitali vorremmo serbate a ben più gravi aberrazioni goldoniane. Valentino Carrera, non cieco ai difetti, riassumeva così il suo giudizio: «se il Mol. rivela in più d’un punto la marno maestra, nel suo insieme e un po’ stentata nell’azione e scarsa di comicità e ad ogni modo non corre svelta e disinvolta, spandendo sorrisi e fiori, come molte altre del nostro autore. Non credo quindi che possa stare fra quelle che sono il maggiore documento della sua gloria» (op. cit. p. 233). Ancora troppo indulgente, va concesso. Non documento di gloria, anzi neppur tra le buone. Accettiamo piuttosto, concludendo, l’equo parere del De La Harpe: «faible d’intrigue et de caractères; mais il y a quelques scènes plaisantes et le dialogue est naturel» (Oeuvres, Peuis. 1778, voi. VI, p. 324).

Questa sua opera, che per il soggetto e per la forma esterna potè sembrare all’autore lavoro classico addirittura, doveva esser dedicata dapprima a Federico Cristiano, principe elettore di Sassonia. Arrise al Goldoni l’idea di render omaggio nello stesso tempo al principe della scena moderna e a un principe del sangue. Più ancora forse — la speranza di qualche munifico dono da chi già un’altra volta avea gradito le cose sue. E Federico Cristiano nel suo soggiorno a Venezia l’anno 1740 (Molmenti. La storia di Ven. n. vita privata. Bergamo 1908, vol. III, p. 162) aveva sentito l’Enrico Re del Goldoni (Vol. I, a pp. 135-137; Spinelli, Bibliografia, p. 167) e in suo onore, per commissione del Procuratore Pietro Foscarini, il Goldoni avea composto Il Coro delle Muse, serenata (Ediz. Zatta, voi. 33) eseguita all’Ospedale della Pietà. Prima dunque di dare al torchio la sua commedia, il poeta ne fece trarre una bella copia calligrafica, ebbe cura di qualificare il suo lavoro nel manoscritto commedia di carattere, apposizione che nelle stampe manca, e inviò con questa umilissima lettera, fin’oggi inedita, a Dresda.

 Altezza Reale,

Fin da quel tempo, in cui L’A V. R.le rese felice questa città coll’adorabile sua presenza, appresi, ch’Ella gradiva fra’ suoi onesti divertimenti quello delle Teatrali Rappresentazioni. Ebbi anch’io l’onore in quel tempo di farle rappresentare il mio Enrico Rè di Sicilia, animato dal fu Sig.r Abbate Conti, d’onorata memoria ed ebbe l’A. V. R. la Clemenza di compiacersene.

Ardisco pertanto presentare agli occhi begnissimi di V. A. R. una Commedia mia manoscritta, la quale si è rappresentata in Venezia varie successive sere, ma non ancora è stampata, per quanto gli Amici miei m’abbiano a farlo eccitato.

Doppo (sic) essermi io applicato per qualche anno a correggere a misura de scarsi miei talenti, il Comico Teatro Italiano ed avere in un sì grave impegno procurato imitare il Celebre Moliere Francese, ho finalmente posto Lui medesimo in scena, ed ho de suoi casi formata una Commedia, intitolata Moliere. Ho voluto in questa, a diferenza dell’altre mie seguire anco lo stile del Lodato Autore, scrivendola in verso rimalo, ad immitazione delli Francesi.

Una tal novità mi fu universalmente approvata sin ora e tutti si uniscono a lusingarmi aver io formata una Commedia, che mi può far qualche onore.

Se così è, la offerisco umilmente all’A. V. R.le perchè si degni di leggerla, e farla ancora da suoi Comici rappresentare.

Tutti come dicevo, mi danno de frequenti stimoli per istamparla, ma siccome ella è diversa dalle altre mie nello stile, la stamperò separata, e sarei ben fortunato, se l’A. V. R.le Clementissimo Principe, volesse benignamente concedermi di consacrarla dai Torchj all’Altissimo di Lei Nome.

Ecco la grazia, che io umilmente le chiedo, e crederò allora ben impiegati i sudori miei, se mi averanno un fregio sì grande ottenuto. Ciò vivamente io spero dalla Clemenza impareggiabile dell’A. V. R.le a cui con umile profondo ossequio m’inchino.

 Venezia, li 4 Xbre 1751.

Di V. A. R.le
Umiliss.mo Servidore Ossequ.mo
CARLO GOLDONI.


Il ms con la lettera e la commedia si trova alla Biblioteca Reale di Dresda (msc. Dresd. Ob 42). Consta di 73 pp. num., più 4 che rispondono alla dedica, al titolo e all’elenco de’ personaggi. La commedia è quale fu poi stampata dal Paperini. All’Ab. Antonio Conti (1677-1749), il noto drammaturgo, il Goldoni, salvo errore, accenna una volta soltanto, nella pref. al vol. XIII del Pasquali (V; Vol. 1,° p. 99). Ma da questa lettera si vede ch’era in rapporti col Goldoni e conosceva il principe. L’avvocato mandò a Dresda il copione, ripetendo forse in cuor suo i versi della sua cantata «Se pietoso il fato arride |Al desio che m’arde in petto, | Spero lieto in tal oggetto | I miei danni ristorar», ma sia che dell’«eroe la bell’alma» e del «rampollo regale il cor pietoso» si fossero mutati a suo riguardo, sia (ben più probabile) che il principe avesse dimenticato il dottor veneziano che poetava a ore perse — la risposta fu negativa o mancò del tutto. E allora il Goldoni, senza perdersi d’animo, pensò a un altro principe certo assai più in grado di intendere la nobile impresa da lui tanto bene avviata. Così opportunamente la commedia, dove Carlo Goldoni s’inchinava al grande riformatore della scena francese, andò dedicata a Scipione Maffei che, primo, con nobilissimi e savi propositi aveva ideato il mento del teatro tra noi. E la commedia si stampò non in edizione speciele, ma nel secondo volume del Paperini.

Le Memorie (P. 1. e 27), le prefazioni biografiche (Voi. 1, pp. 69, 70) e massime l’importante premessa alla Sposa persiana con frammenti di lettere del Maffei al Nostro (Ed. Pitteri I, Pasq. XIII) ci ragguagliano sui rapporti corsi tra i due; rapporti lumeggiati da Achille Neri (Aneddoti cit. p. 23 segg.) e da Maria Ortiz (Strenna cit.). Certo par singolare che il G. indirizzasse proprio la sua prima commedia in versi martelliani a chi, secondo l’ideatore del nuovo metro, quanti fossero per adottarlo «pregava supplicava, scongiurava, | Che quasi peste il mirtiliano verso | Fosse dalle lor favole fuggito» (Carducci, Opere, XIV p. 164); a chi da Radamanto era stato condannato a non parlare, o solo ne’ metri di Mirtilo, finché non si fosse purgato del peccato dell’ambizione (Femia sentenziato). Ma il Femia e del 1724. Nel 1727 il suo autore era mancato ai vivi. In quasi trent’anni bizze letterarie perdono forza e sapore. Il Maffei del resto, grazie proprio al Moliere, s’era ricreduto delle sue sentenze troppo recise. Se non del coturno, s’acconciò a ritenere il martelliano degno del socco e non negò l’appoggio della sua autorità al confratello. Così ai loro buoni rapporti noi dobbiamo una delle dedicatorie più significative del teatro goldoniano (V: Storia letteraria ecc. Modena, 1753, Libro I, e. II, p. 29), il Maffei un omaggio bellissimo, del quale la stima immensa che faceva di sè «oltre il debito e il diritto» (Carducci, l. cit. p. 157) si sarà compiaciuta, e il Goldoni questo breve elogio che al Marchese piacque farne nel suo celebre Trattato, dandone prima notizia all’encomiato in lettera del 7 maggio 1753 (Ed. Pitteri, l. c.): «In molte [commedie] del Sign. Goldoni chi non vede di quanta moralità più volte si faccia pompa? Questi due autori [il G. e il Fagiuoli] hanno fatto vedere come riescono popolarmente le buone Comedie anche in prosa, e come non c’è punto bisogno, che siano licenziose, per essere applaudite, e gradite» (De’ teatri antichi e moderni, ecc. Verona, 1753, p. 27). Breve e misurato elogio, limitato alla moraltà delle commedie goldoniane e all’essere quelle fino allora composte tutte in prosa. Avvertì l’opportuno prudente restrittivo in molte e la critica - sfuggita forse più che voluta - del si faccia pompa. Il Goldoni invece spende e spande l’incenso intorno al capo dell’autore della Merope, salvo a moderare il suo entusiasmo quando il marchese era già agli Elisi. Nel ’57 bensì, mentre dell’autorità del Maffei si faceva forte contro le ingiurie di F. R. Morando, le commedie maffeiane erano ancora «lodabilissime» (Ed. Pitteri, 1. cit.). Il Morando, autore di una tragedia dimenticata, aveva qualificato lui e i seguaci suoi nell’uso del martelliano gente nata per infamia dell’arte (ivi). E il Gold, volle rivedere le buccie alla sua misera tragedia, ma men portato alle acri guerre della penna che ai mutui compatimenti, finì col lodarne alcuni tratti, dove, a creder suo, l’a. avea perfino superato il maestro [Maffei]! Due anni dopo, in lettera al Vendramin (28 agosto. Mantovani, p. 138), la commedia delle Cerimonie è detta con poco rispetto alla memoria dell’autore «seccante all’ultimo segno» C’era bensì equivoco, l’avverte il Vendramin, con la Scolastica, e il Nostro allora senza esitare gratifica dell’epiteto un’opera di Messer Ludovico. Nelle Memorie (P. I, c. 27) si fa solo fugace menzione della fortuna della tragedia e dell’insuccesso del commediografo, e, errore già da altri avvertito (Ortolani, Settecento, Venezia, 1905 [in corso di stampa], p. 318), vi si confonde («il publia un volume sous le titre de Réforme du Théàtre Italien contenant sa Mérope, et deux comédies. les Cérémonies, et Rajouet» Mém. P. I, c. XXVII) il Teatro italiano, cioè la nota compilazione fatta dal Maffei nel 1723, col suo proprio Teatro, (Verona, 1730), contenente la tragedia, la commedia, e il dramma, non il Raeuel che è del 1747 e uscì anonimo presso S. Coleti (Novelle della Rep. lett. 1747, cit. dell’Ortolani).

E. M.


Questa commedia fu stampata nel 1753, prima nel t. IV dell’ed. Bettinelli di Venezia e subito dopo, corretta dall’autore, nel t. II dell’ed. Paperini di Firenze: uscì poi a Bologna (Corciolani V, ’53 e Pisarri V, ’54), a Pesaro (Gavelli II, ’53), a Torino (Fantino e Olzati, II, ’56). Qualche altra modificazione vi portò il Goldoni nel 1762, per il t. III dell’ed. Pasquali di Venezia. Si notano ancora le ristampe del Savioli (Ven., III, ’70), dello Zatta (Ven., cl. 3, IV, ’92), di Guibert e Orgeas (Torino, III, ’72), del Masi (Livorno), del Bonsignori (Lucca) e altre nel Settecento. — La ristampa presente fu compiuta principalmente sul testo più curato del Pasquali; ma reca in nota le varianti delle prime lezioni.

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