< Il Narciso
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Atto I
Il Narciso Atto II

ATTO PRIMO

Monte Parnaso con due cime tutte intorno fiorite. A piedi del monte si stende una vaga pianura, circondata da piante di varie sorti. Nel mezzo del monte alcuna capanna pastorale.

SCENA I

Cidippe e Narciso vengono discendendo dalle due cime del monte cantando, e alle radici poi s’incontrano.

Cidippe. Se non volevi amar
Narciso Se tu
A due. cor mio, la natura
Cidippe. di tempra men dura
Narciso. più
A due. doveati formar.
Cidippe. Ben mi parea ch’oggi piú bella e chiara

l’alba sorgesse, e piú dell’uso il colle
fiorisse; or che ti veggo,
mia delizia e mio sol, gentil Narciso.
Narciso. E a me parea che nube impura intorno
togliesse agli occhi miei
la primavera o il giorno, or che ti veggo,
mio tormento e mio orror, ninfa importuna.
Cidippe. Mira lá, quelle rose
del mio gran foco accese aprono il seno.
Narciso. E tu que’ gigli osserva:
sparsi dal ghiaccio mio fann’ombra al prato.

Cidippe. Perché ti fêr le stelle

sì bello e sì crudel?
Narciso.   Sol perché avessi
a piacerti e a fuggirti.
Cidippe.   A’ lidi, a’ venti
dunque ognor spargerò pianti e lamenti?
Narciso. Lascia d’amar.
Cidippe.   Ciò che consiglia il labbro
distruggon que’ begli occhi.
Narciso.   O parti, o ch’io...
Cidippe. Deh, almeno per pietá...
Narciso.   Cidippe, addio!
Cidippe.   Partirò, per compiacerti,
          tutta affanno e tutta amor.
          Crude belve,
          oscure selve,
          a voi torno, e forse avrete
          piú pietá del mio dolor.

SCENA II

Coro di Cacciatori con levrieri che parte vengono dal monte, parte dalle capanne, e parte da’lati della scena; Narciso.

iᵃ parte del coro.   Non v’ha piacer più grato

          che viver senza amore
          in libertá.
2ᵃ parte.   Le selve, il monte, il prato,
          di belve impoverir.
3ᵃ parte.   Né prigionier languir
          d’una crudel beltá.
Tutti.   Non..., ecc.
Narciso. Voi pastori e voi ninfe,
cui non di molli effeminati amori
punge cura lasciva,

ma di onesto piacer nobil desio,

giá dell’usata caccia
giunta è l’ora opportuna. Andiam lá dove
spingon le antiche selve
di Elicona e Parnaso al ciel la chioma,
dove il patrio Cefiso
con l'umide sue braccia il sen feconda
della fiorita sponda,
ove l’Asopo, ove l'Ismeno irriga
le verdi piagge e le campagne amiche;
andiam, ninfe e pastori!
Altro diletto è questo
che pianger per un seno,
sospirar per un labbro, e in ozio vano
spenderne gli anni, onde all’etá matura
di un bugiardo piacer ne resti solo
il pentimento e il duolo.
Coro.   Non v’ha piacer piú grato,
          che viver senz’amore
          in libertá.

SCENA III

Eco, Narciso e Coro.

Eco. Narciso, i passi arresta; Eco sen viene

a partir teco e le fatiche e i rischi.
Narciso. Vien pur, ninfa gentil, te sola io trovo
uniforme a’ miei voti.
Tu cara a me, poiché di amor non senti
le pungenti quadrella, e a me non stanchi
con sospiri importuni il casto udito.
Eco. (Oimè! l’esempio altrui cauta mi rende.)
Narciso. Vedi gli stolti amanti: il volto e gli occhi
sparsi di orror, di lagrime, le voci

da singulti interrotte, esempio insieme

di pietá e di terrore.
Sol cosí premia i suoi vassalli amore.
Eco. Cosí in amor si pena,
quando è crudel, come tu sei, chi s’ama;
ma di amor corrisposto
gioia non v’ha che ben pareggi ’l prezzo.
Piú di una ninfa in simil cure esperta,
piú di una volta udii lieta ridirmi:
— Fortunato pastor, ninfa beata,
cui di far tocca in sorte
quel dolcissimo cambio
di cor con cor, d’alma con alma. O sorte
degli Elisi piú dolce! Aure felici,
che que’ labbri baciando
piú soavi spirate! Ove la mente
figurarsi può mai destin migliore? —
Cosí anche premia i suoi vassalli amore.
Narciso. Sento dir che Cupido è un tiranno.
Eco. Ma un tiranno che reca diletto.
Narciso. Che avvelena col labbro che ride.
Eco. Che ravviva col labbro che uccide.

(N.) Cruda morte debole
A due di un petto.
(E.) Dolce vita nobile
Narciso. Ninfa, se men mi fosse

noto il tuo cor, di giusto sdegno acceso
direi...
Eco.   Frena, o Narciso,
l’ira inutil del labbro. A garrir teco
un mio delirio e non amor mi guida.
Narciso. Non di garrir, ma di partirsi è tempo.
Fuggon rapide l’ore e il dì s’avanza.
Eco. (Cor mio, non disperar; ci vuol costanza.)
Narciso. Fuor della tana il bosco
giá circondan le belve; il monte e il piano

sente gli urli primieri, e impazienti

danno i molossi il lor latrato ai venti.
Coro. Alla caccia, alla caccia!
Narciso.   Scorrete intorno
               e valli e monte,
               e piani e selve,
               di belve in traccia.
          Con tal diletto
               del lungo giorno
               si passan l’ore.
               L’ozio di amore
               cosí si scaccia.

SCENA IV

Eco.

Che fier destino è il mio!

Doverti amar, né poter dir: t’adoro!
Aver la morte in seno,
né poter dir: — Crudele, io per te moro! —
Oso appena a me stessa,
per timor d’irritarti,
confidarne il secreto.
Io temo gli occhi miei, temo il mio labbro,
e per piacerti, o Dio! teco mi fingo
inimica di amor, quando piú t’amo.
Cosí mi lice almeno
seguirti ovunque vai. Posso asciugarti
su la fronte i sudori, e del mio petto
far morbido guanciale a’ tuoi riposi.
Cosí talor mi lice
stringer la mia con la tua destra, e mostri,
qualora il core oppresso

l’orme del suo dolor m’invia sul volto,

sebben tu non gl’intendi e non li senti,
mostri qualche pietá de’ miei tormenti.
          Occhi belli, occhi vezzosi,
               benché fieri e disdegnosi,
               godo almen di rimirarvi.
          Che se foste a me pietosi,
               temerei per troppa gioia
               di morir nel vagheggiarvi.

SCENA V

Uranio e Lesbino.

Uranio. Sí, mio caro Lesbino,

nelTamor di Cidippe
fui felice una volta, e l’infedele
pianse al mio pianto, arse al mio foco un tempo.
Ma qual donna non cangia e voti e cure?
La mia fede è tradita. Io son lo stesso,
ma non Cidippe. O di altro bello accesa,
o ad altre cure attenta, allorché incontro
mi faccio a que’ begli occhi,
piena di sdegno e d’ira
o s’infinge, o mi fugge, o non mi mira.
Lesbino. Te felice, o pastor, che almen provasti
quante gioie dar possa un grato amore.
Ebbe almen qualche tregua
nell’uso de’ piaceri il tuo dolore.
Solo Lesbin si strugge
nel continuo suo pianto; è per lui tolta
ogni speranza, ogni diletto, e solo
pasce la rimembranza
dell’altrui crudeltá, del proprio duolo.

Uranio. Un continuo dolor perde le forze,

si fa natura e istupidisce i sensi.
Ma più fiero ei divien, quando lo scuote
dal suo lungo letargo
un passagger diletto.
Lesbino. È gran pena d’un core
un bramato piacer né mai goduto.
Uranio. Maggior pena diventa
la memoria del ben quando è perduto.
Lesbino. All’inutile gara
diaim fine, Uranio. Meglio
fia il risanar che l’inasprir le piaghe.
Tu per Cidippe ed io per Eco ardiamo.
Uranio. Che dobbiam far?
Lesbino.   Narciso,
d’ambe le ninfe e di noi pure amico,
benché di amor nimico,
sappia il nostro desir, ne presti aita.
Chi sa...
Uranio.   Tirreno intanto,
genitor di Cidippe,
so che arride al mio amor, loda i miei voti,
e ne ha tentata in mio favor la figlia.
Lesbino. Eh, Uranio, poco è dolce
quell’imeneo, cui piú di amor congiunge
violenza paterna.
Vedi, la vite all’olmo
volontaria si sposa e l’edra al faggio.
Uranio. Lesbin, non ben l’intendi. Oh, quante volte
quella che amor non vinse ha vinto un bacio!
D’ogni beltá piú fiera e piú ritrosa
è un incanto il piacer. Tal l’angue appunto
a una grata armonia l’ira si scorda,
né piú il tosco letal spira dagli occhi.
Addio, pastore, addio!
Lesbino. Secondi ’l ciel il tuo desire e il mio.

Uranio.   Piaghi Imeneo quel cor

               che giá potè di amor
               frangere il dardo.
          E vinca un bacio solo
               chi ben non seppe vincere
               un labbro sospirando,
               e lagrimando
               un guardo.

SCENA VI

Lesbino.

Che non vince in amor lunga costanza?

Anche la quercia annosa
che piú volte scherní l’ire degli euri
alfin rovina, e la gelata selce
a’ replicati colpi
di una rigida man scoppia in faville.
Tal la mia ninfa io spero,
bench’abbia piú di quercia e piú di selce
duro e gelido il cor, spero, che a forza
di lungo amor, di salda fé, deponga
pietosa al dolor mio
e l’antica durezza e il gel natio.
               Chi sa
               che non ritrovi un di
               pietá
               nel fiero cor
               la mia costanza?
          Sento che il mio dolor
               tu lusinghi cosí
               dolce speranza.

SCENA VII

(Grotta di ninfe a foggia di tempio).

Tirreno, Coro di sacerdoti, di pastori e di ninfe.

Coro.   O gran dee che custodite

          queste selve e questi fiori
          aggradite i nostri doni
          e l’amor de’ nostri cori.
Tirreno. Omai del sacro rogo
l’odoroso alimento unite, o voi,
sacri ministri, e voi,
innocenti pastor, vergini caste.
(Il coro innalza in forma di altare un rogo, in cui tutte le ninfe gettano i loro fiori; sacrifizio.)
Coro.   O gran dee, ecc.
Tirreno. Or d’incenso e di nardo
spargete il rogo acceso, onde alle stelle
in odorati nembi il fumo ascenda.
Ecco dall’aureo nappo
su la fiamma che stride io verso questo
liquor, cui giá sudaro
le vendemmie cretensi, e questa verso
dal cristallo piú terso
linfa innocente e pura.
Alfo, il vasel d’argento
dammi, perché ne spruzzi
del piú candido latte
le leggere faville; e voi fra tanto
accordate giulivi
all’alme dee, ninfe e pastori, il canto.
Coro.   O gran dee, ecc.
Tirreno. Fausti nel sacrifizio
son tutti i segni; ecco la vampa è chiara

e non obliqua ascende,

né di tetro vapor l’aria si adombra;
ecco lampo sereno
con passeggera luce
balenare a sinistra, e quindi al volo
batter candide piume il lieto augello;
ed ecco, della fiamma
agli ultimi deliqui, il cener sacro
qual soave fragranza intorno spira.
          Con auspici
               si felici
               tutto lieto per noi sará.
          Non i campi il nembo sordo
               abbatterá,
               non gli armenti il lupo ingordo
               infesterá.

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