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deputato.
Una tra le più simpatiche figure che noi facciamo sfilare dinanzi agli occhi del lettore in questo nostro libro — ci si perdoni la frase soldatesca, mentre le cose militari sono all’ordine del giorno — è senza dubbio quella dell’Aleardi.
È un poeta, ma vero poeta, robusto insieme e gentile, dai concetti elevati, soavi e profondi, dall’espressione castigata, originale, soventi ardita, pur sempre venusta, e pittoresca al sommo.
Melanconico, non di quella melanconia affettata ch’era moda qualche anno fa di seminare pei carmi, onde gli adolescenti e le femminucce ven sapessero grado, ma d’una mestizia sincera, spontanea, quasi diremmo involontaria, d’una mestizia che vi fa pensare: quest’uomo ha molto sofferto; oppure quest’uomo ha cercato, ha cercato nella vita... che? un’amico, forse — un amico, intendiamo, come se lo fabbrica nella sua mente un poeta — o una donna, ma qual donna! — e non ha trovato, o ha perduto, e si sente solo, o piuttosto si sente incompleto e si lagna, senza avvedersene quasi, il tapino, e quand’anche s’attenti a cantarvi l’osanna, le corde della sua lira non sanno farlo che in toni minori.
La melanconia, però, nell’Aleardi non è mica assorbente, non è mica uno scopo, non lo rende mica nè egoista, nè misantropo, nè inetto; lungi, lungi di là: è un colore, una veste, diremmo quasi una forma, almeno per rapporto agli effetti, ma noi rattiene, nè lo sminuisce, in niente e per niente.
Egli è filantropo, egli è patriota — e che patriota! lo sanno le prigioni di Mantova e di Josephstadt — egli è un caldo ammiratore delle sublimi bellezze della natura, egli è uno scienziato, un filosofo, un economista, e domani sarà forse un grande oratore.
Il suo carattere risponde alla sua fisonomia: l’uno e l’altra schietti, affabili, attraentissimi. Della sua persona accade come delle sue poesie: chi ne legge una se ne innamora, la torna a rileggere, fa ricerca delle sorelle, e le ha e le serba per le più care cose del mondo; chi avvicina l’Aleardi l’ama d’un tratto, e vorrebbe starsegli a fianco tutta la vita.
A Verona, sullo scorcio del 1812 è nato il nostro poeta, da una delle più antiche famiglie patrizie di quella città, ivi trapiantatasi dalle Romagne prima del mille, e che spegnesi in lui.
Dalle grandi e miti scene della natura, dai campi aperti, dai ridenti colli ove trascorse la giovinezza beata, dalla santità dei costumi domestici, dallo smisurato amore onde i suoi genitori l’amavano — amore cui corrispondeva per parte d’Aleardo una sorta d’adorazione non cessata con la vita di essi — da tutte queste buone, belle e sante cose, derivò forse nell’animo del giovinetto quel sublime istinto di poesia, governato da soavissimo affetto, che doveva più tardi traboccargli dal cuore a conforto e ad ammirazione di chi il conosce dappresso, o legge i suoi carmi.
Uscito di collegio, compiti gli studî legali a Padova, mortigli in braccio — ohimè! di soverchio dolenti di staccarsi da tal figlio — e padre e madre, rimase soletto con una sorella, presso la quale si raccolse e cui dedicò ogni sua affezione.
Si fu allora che la sua mente divagò, senza guida e cupida di sapere, per molta varietà di discipline or di filosofia, or d’economia politica, or di scienze, naturali; e tutto approfondiva e riteneva tutto, ma l’amore di poetar lo vinceva.
Scrisse, giovane, gran numero di liriche, le più da caldo, da sdegnoso affetto di patria inspirate; ma siccome ei le spargeva qua e là, e di difficile accontentatura qual si è, non sembrava appagarsene e ne faceva niun caso, così sventuratamente quasi che tutte le andarono sperse.
Più tardi, sul punto di laurearsi in legge, pubblicò un poema, l’Arnalda — fanciulla di Cipro che appicca fuoco alla santa-barbara del vascello» ottomano, che traevala schiava — ed in quello la tavolozza del poeta si mostra di già ricca di splendide tinte, il suo pennello scorre già facile e sicuro sulla tela, e le grandi figure del quadro, al pari dei menomi accessorj di esso, son già pinti da mano maestra.
Poscia il poeta sentì ristretto l’orizzonte che racchiude i colli nativi, e percorse la Toscana e visitò Roma e Napoli.
Quella vasta, solenne e severa scena della natura italica che si noma l’agro romano, commosse profondamente l’animo del nostro vate e gl’ispirò un poema intitolato: La Campagna di Roma, ove nell’ordine in cui le si affacciavano alla mente e al cuore dell’Aleardi, peregrinante attraverso quelle eloquenti e maestose solitudini, ci cantava glorie e sventure italiane in modo degno degli eroi di cui interrogava la polve.
Mal per noi che di quel poema non rimanga che un solo canto, il Circello, essendo il rimanente stato distrutto una tal notte in cui gli sgherri austriaci che il menavano prigione fecer man bassa su tutte le più preziose sue carte.
Rimase quindi l’Aleardi muto di versi per oltre sette anni; quindi mise fuora Le Prime Istorie, Le Città Marinare, Un’Ora di giovinezza, Raffaello e la Fornarina, poesie tutte che fecero il giro della nostra penisola, e che furono per ogni dove accolte col più vivo entusiasmo.
L’Aleardi scrive quasi sempre in isciolti, il più arduo de’ versi italiani, e possiam dire che tre muse ispirino ognora i suor carmi: la Natura, la Moralità e la Patria.
Ei non comprende l’arte per l’arte al modo di Goethe e di Heine, e come dicea Foscolo:
Odia il verso che suona e che non crea;
Secondo Koerner, egli usò il verso qual possente eccitatore dei sentimenti d’indipendenza e di libertà, sopratutto in tempo di pace fiacca, ed ebbe il coraggio di scrivere e di stampare i suoi canti sotto il feroce e vigile occhio della polizia austriaca.
Oltre a molte poesie rimaste inedite fino ad ora, e che giova sperare, nell’interesse della letteratura italiana, che abbiano o prima o poi a veder la luce, l’Aleardi scrisse alcune prose sulle arti belle, di cui è amorosissimo, e che con molta cura ne’ suoi viaggi ebbe campo di studiare.
La rivoluzione del 1848 lo sorprese a Roma. Volato a Venezia, fece parte della Consulta di Stato, quindi fu dal presidente Daniele Manin inviato a Parigi qual incaricato d’affari.
Volte al basso le fortune italiane, si ritrasse tra gli amici suoi di Firenze, ove rimase fino al giorno in cui scadeva il termine dell’amnistia accordata dall’Austria; rientrò allora in patria, anche perchè un suo dilettissimo amico, vecchio e malato, chiedeva riabbracciarlo prima di morte.
Nel 1852, arrestato e chiuso in una delle più malsane prigioni di Mantova, vi passò lunghi mesi, solo, al bujo, affamato, senza tuttavia piegar mai un minuto, non lasciandosi adescar da lusinghe, nè atterrir da minacce.
E sì che una volta fu messa a dura prova la costanza del generoso cattivo.
Da lungo tempo, egli, amantissimo, come abbiam detto, della sorella, era affatto privo delle di lei notizie, e fremeva di dolore e di sgomento in pensando a qual mal punto la poveretta dovesse trovarsi ridotta dopo la tremenda catastrofe che li aveva separati, immersa qual si dovea essere nell’angoscia della più crudele incertezza sul di lui conto.
Una mattina si tirano i catenacci, le porte si schiudono e una rozza voce intima al poeta d’uscire. Non era la libertà, dacchè le sentinelle con le bajonette in canna precedevano e seguivano il prigioniero; era forse un interrogatorio del quale convenia prepararsi a sopportare con pacata fierezza l’insidiosa malignità. Ma, oh sorpresa, oh emozione indicibile! nella piccola e nuda stanza ove l’Aleardi è introdotto non havvi che uno sconosciuto, che si tiene in disparte, ed una donna che in vederlo entrare getta uno strido, e gli si avvinghia al collo con ambe le braccia.
Quella donna era la sorella del martire.
Il poeta, passato il primo istante d’insuperabile commovimento, rientrò in sè stesso e si disse che, onde non ispezzare il cuore di quell’amata, onde render possibile senza soverchio strazio di lei il novello distacco che sospettava imminente, era pur duopo che si padroneggiasse, frenasse l’irruenza della passione, e desse a divedere una serenità d’animo, una specie di securtà indifferente, in quel fatale momento Dio sa quanto lungi da lui!
La gentildonna comprese forse quella pietosa menzogna, e degna sorella dell’Aleardo, sebbene, ahimè! non ignorasse come il più sovente da quelle segrete i nobili prigioni non uscissero che per esser trascinati al patibolo, valse a contenersi a sua volta, sicchè il breve convegno trascorse più calmo di quello che i due interlocutori, nell’interesse l’uno dell’altro, l’avesser mai potuto sperare.
Ma non appena il generoso cattivo fu ricondotto nell’orrendo suo carcere, non appena ebb’egli cessato d’udire allontanarsi il custode ond’era stato coraggio risepolto, che la foga dell’emozioni e degli affetti, alla quale era poco prima bastato a far argine, traboccò impetuosa, infrenabile, e le lacrime e i singhiozzi e le inarticolate grida d’un disperato dolore si aprirono un varco attraverso le fauci e le ciglia del martire.
Pur quello scoramento fu di corta durata e fu il solo. Indi a non molto, mentre alcuni de’ suoi diletti compagni di sventura perivano sulla forca, ei venia rilasciato, senza aver vista faccia di giudice, senza che gli si dicesse nè perchè lo si era gettato in un carcere, nè perchè lo se ne era ritolto.
Da quell’epoca visse sempre nella città nativa, scrivendo nella fede sincera del riscatto d’Italia, e vaticinando ed affrettando coi voti il sospirato momento.
E questo giunse alla fine, e se ne gioisse l’animo del poeta ognuno sel pensi. L’Austriaco vide quel sorriso d’ineffabile gioja, e fremente di vendetta e di rabbia, pochi dì prima dell’armistizio di Villafranca, righermì l’Aleardi insieme a quattordici altri de’ suoi concittadini, e lo risospinse in un carcere.
Da quel carcere il poeta udì tuonare il cannone di Solferino e di San Martino; quindi con due soli de’ suoi soci d’infortunio — gli altri venivano tutti riposti in libertà — con la barbarie con la quale un tempo si menavano i vitelli al mercato — udimmo questa frase dalla sua bocca — fu tradotto a Josephstadt, ove rimase imprigionato due mesi.
Tornato libero, come a Dio piacque, si restituì a Verona per abbracciare i suoi cari, quindi passò quel Mincio fatale, sulle cui rive erasi arrestato l’angelo della redenzione italiana.
Accolto con pubbliche manifestazioni di giubilo a Brescia, a Cremona, a Modena ed in altre città, ei scelse Brescia, la generosa, a sua dimora, d’onde dagli elettori di Lonato e Rezzato, da quella terra che finisce a bagnarsi nel Garda, lago domestico di quattro illustri famiglie italiche, la Veronese, la Mantovana, la Bresciana e la Trentina, ei fu deputato rappresentante della nazione al primo Parlamento del nuovo regno, degna e meritata ricompensa a chi tanto fece e soffrì per la patria.
Aleardo Aleardi.