< Il Parlamento del Regno d'Italia
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Giovanni Vacca Enrico Castellano

deputato.


Gli Anguissola sono una antica famiglia lombarda che le cronache del medio evo e il celebre romanzo di Cesare Cantù hanno popolarizzata.

L’Anguissola di cui ci occorre qui discorrere è appunto un discendente di essa, il quale, giovinetto, entró nella scuola di marina di Napoli da cui dopo aver mostrata molta applicazione e dopo aver subiti brillantissimi esami, escì col grado di alfiere di vascello.

La marina regia napoletana, se dal lato della bassa forza ha goduto e gode tuttora molta fama, bisogna dire che in questi ultimi tempi specialmente non si credeva, a torto e a ragione, comandata da ufficiali capaci ed energici.

Quello che par certo si è che l’esperienza mancava spesso alla più parte di quelli, i quali rivestiti di una splendida divisa salivano di grado in grado fino ai più elevati della loro difficile carriera mettendo ben di rado il piede sulla tolda d’un naviglio di guerra, e contentandosi tutt’al più degli studii teoretici, i quali senza i pratici si sa che in materie nautiche valgono fino a un certo segno.

L’Anguissola che voleva divenire un vero marino in tutta l’estensione del termine cercò ed ottenne facilmente d’imbarcarsi di buon’ora e di fare lunghe navigazioni.

Certo, agendo in quel modo, egli perdeva quelle ore di beato ozio che gli ufficiali della marina di Napoli impiegavano a percorrere le lastre volcaniche di Toledo o di Chiaja, o i viali della Villa Reale, o a starsene mollemente assisi discorrendo del più e del meno sui mediocremente soffici divani del caffè d’Europa, o a batter le mani, a zittire, o a scanocchialare le ballerine del teatro San Carlo, o le attrici del Fiorentini, ove essi possiedono da tempo immemorabile i propri palchi.

A ciascuno i suoi gusti; bisogna dire però, che quelli dell’Anguissola valevano à cattivargli la stima di quanti lo conoscevano, nel tempo stesso in cui facevano di lui uno dei più esperti ed abili marini.

L’ufficialità della marína napolitana s’era un po’ proclive ai divertimenti ed avversa ad incontrare i disagi e le traversie della navigazione, non mancava certo di cultura, e come quella ch’era guari in totalità composta dell’eletta della nobiltà stava sotto tutti i rapporti alla testa della società di Napoli.

Questo faceva si ch’ella, mentre per le sue speciali cognizioni e per la sua annegabile superiorità, formava il corpo il più progressista del Napolitano; d’altra parte esercitasse un’influenza assai efficace sulle più culte classi di quella popolazione.

Dimodochè poi, coloro tra i suoi ufficiali, che erano i più distinti e i più influenti in essa, potevano a ragione vantarsi di essere in grado di fare o disfare in Napoli.

Una volta ammessa l’incontestabilità di questi fatti, notissimi a tutti coloro che hanno abitato Napoli durante l’ultimo periodo del regno dei Borboni, non deve recare affatto meraviglia l’apprendere che la marina napolitana fece un bene immenso alla causa nazionale e contribui massimamente alla distruzione del vecchio odiato regime col mettersi nella quasi sua totalità dalla parte dei partigiani dell’unione contro i borbonici.

Ora, una parte principalissima in questa patriottica risoluzione della marina napolitana l’ebbero l’Anguissola e il D’Amico che dettero l’esempio dell’abbandono d’una causa ch’era detestabile per sè medesima, ma che mille volte più diveniva detestabile, avvegnachè fosse in contrasto con quella che sola poteva dare salute e forza e grandioso avvenire all’Italia.

Noi sappiamo che quei pochi che hanno seguito Francesco II a Roma, e che si danno il titolo di fedeli e leali, chiamando spergiuri e traditori gli uomini della sorte dell’Anguissola, dei Vacca, dei d’Amico, e altri generosi, hanno e predicano una teoria diametralmente opposta alla nostra; ma se quelli uomini, alcuni dei quali, a ragion del vero, sappiamo illusi, volessero per poco riflettere, spogliandosi di quell’entusiasmo mal inteso che loro annebbia la vista e gl’impedisce di discernere il vero dal falso, non esitiamo a credere che non tarderebbero a scorgere da qual parte stia la lealtà pura, la fedeltà plausibile.

Noi comprendiamo benissimo la devozione alle persone, ma non ammettiamo in alcun modo che questa devozione possa in verun caso anteporsi ad una devozione che deve essere la prima fra tutte le terrestri – come si vede, noi eccettuiamo le religiose –, la devozione cioè verso quella santissima quanto carissima cosa che si chiama, la patria.

I più virtuosi tra gli antichi, quelli i cui nomi suo nano ancora viventi e citati in esempio sulle bocche di tutti gli uomini dabbene, ci hanno lasciati mille fatti luminosi a provare che nulla hassi da avere qui in terra che stia sopra alla patria.

V’ha egli amore più forte, più legittimo, più rispettabile di quello che un padre nutre verso i suoi figli? Or bene. Bruto non gli ha essi condannati perchè mancarono al loro dovere verso la patria? E il nome di Bruto non è egli onorato, tra i più onorati?

Che valore può mai egli avere un giuramento dato a un sovrano, quando questo sovrano torce il suo ferro parricida contro la gran madre comune?

E si dovrà esser sordi all’appello di questa, l’appello veramente sovrano e irresistibile, per ascoltare quello di un uomo, che ha avuto l’imperdonabile torto di mettersi in lotta con essa, e che chiede il soccorso delle vostre armi, per riporle il giogo sul collo?

Ma si dice, il militare a qualsiasi arma appartenga, deve essere sopratutto disciplinato, cioè deve chinare il capo dinnanzi ai voleri dei suoi superiori non discutere, non muovere obbiezioni, obbedire, in una parola e null’altro, pare. Dove anderebbesi, si aggiunge,se il soldato avesse a permettersi di esaminare e criticare il comando trasmessogli dal suo capo diretto, il quale dal canto suo potrebbe agire nella medesima guisa o a un dipresso circa le ingiunzioni fattegli dal suo superiore? La disciplina non esisterebbe piú, e senza disciplina non vi sarebbero armate.

Questi ragionamenti, giusti in principio, non sono affatto applicabili nel caso nostro.

Non tutti i giorni accade che una nobile nazione, qual si è l’Italiana, oppressa per secoli da un regime di sovranucci disputici federati a suo danno sotto l’egida e la presidenza del tiranno principale, l’Austria, mediante applicazione della famosa dottrina che si riassume in quelle due parole: divide et impera, riesca per un concorso inaudito di provvidenziali circostanze, a cacciare la maggior parte degli aborriti dominatori e sia in procinto di stringersi in un solo fascio che gli dia forza a resistere all’urto dei suoi nemici, quando questi si arrischino a tentare un ultimo conato onde ricondurla alla pristina servitù.

Di queste occasioni nella vita d’un popolo può presentarsene una, ed è egli permesso non riconoscerla e comprendere che in essa si può, anzi, si deve agire in modo affatto eccezionale, seguendo quel nobile e generoso istintinto che solo può guidar l’uomo ai grandi resultamenti, alle azioni" sublimi che l’istoria registra nelle eterne sue pagine, e che la più tarda posterità ammirerà riconoscente?

Lode adunque gratitudine al conte Amilcare Anguissola, e ai nobili suoi imitatori, mediante l’opera dei quali la marina italiana si accrebbe di un numero assai considerevole di ottimi legni da guerra, i quali nel caso contrario sarebbero divenuti un potente mezzo offensivo nelle mani del nemico della patria, o sarebbero stati venduti all’estero e quindi irremissibilmente perduti per noi.

Il Governo nazionale ha ricompensato come doveva il conte Anguissola che si diportò d’altronde con molto valore durante l’assedio di Gaeta, e lo ha elevato al grado insigne di contr’ammiraglio. La città di Napoli dal canto suo ha voluto mostrargli tutta la gratitudine che gli professava per l’insigne servizio reso alla nazione intera e il 5. collegio elettorale di essa lo ha scelto a proprio rappresentante al Parlamento.

La capacità poco ordinaria dell’Anguissola lo ha fatto incaricare di varie importanti incombenze per parte dei ministeri succedutisi al potere. La Camera dal canto suo lo ha eletto a membro di commissioni cui spettava l’esame di rilevanti progetti di legge riferentisi a cose di marina.

Non essendo o non credendosi oratore l’onorevole ammiraglio si è contentato di discutere in seno agli offici e lo ha fatto in modo da conciliarsi sempre più l’ammirazione e la stima di quanti l’hanno udito e apprezzato.


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