< Il Parlamento del Regno d'Italia
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Giovanni Battista Borelli Pietro Castiglioni
Questo testo fa parte della serie Il Parlamento del Regno d'Italia

Domenico Carutti di Cantogno.



Nato il 25 novembre del 1821 in Cumiano, circondario di Pinerolo, e fatti i primi suoi studi nel collegio di Garigliano, ed a Pinerolo i maggiori, seguì le discipline legali alle università di Torino e di Pisa, sebbene non togliesse laurea.

Esordì ventenne nella carriera letteraria con la pubblicazione di due racconti: Delfina Bolgi e Massimo, nei quali se da una parte può farsigli rimprovero di aver voluto, novello e inesperto peregrino nel cammin della vita, entrare molto addentro a scrutare gli arcani ripostigli del cuore, non si può negargli dall’altra forza di passione e intendimento gentile.

Come tutti gl’Italiani, ebbe egli pure vena poetica e scrisse dei versi. La sua tragedia Velinda, notevole per nazionali sensi e nobiltà di forma, gli valse gl’incoraggiamenli del Niccolini e del Pellico.

«Sorto il quarantotto — così si esprime sul di lui conto l’amico nostro avvocato Franceschi in un cenno biografico ch’ei dettò del Carutti — diede addio alla letteratura propriamente detta, e si mise a tutt’uomo agli studî politici e storici, non venendo però mai meno nel suo animo il culto professato alle muse.

«Ed eccolo dai sogni dorati della fantasia scendere nella palestra dei giornalisti e porsi tra i collaboratori della Concordia, giornale in quel tempo molto diffuso e segnalato per ardenza d’opinioni, ma che sempre divoto si conservò alla monarchia costituzionale.

«Sul finire del quarantotto il Gioberti lo nominò applicato al ministero degli esteri, e come gli studî politici e l’ufficio di giornalista avevano staccato il Carutti dalle lettere, il novello incarico troncò la sua breve carriera giornalistica.

«Egli seppe però anche nell’aura dei ministeri, non sempre propizia alla meditazione e alla calma, trovar ritagli di tempo per dettare alcuni articoli, che leggonsi nella rassegna mensuale della Rivista Italiana del 1849 e 50, nei quali con altezza di vedute trattò le politiche e le sociali dottrine.

«Nè solo agli obblighi del suo ufficio e ad articoli per Riviste attendeva in quegli anni il Carutti, ma ardiva un libro che col titolo: Dei principi del Governo libero, vedeva poi la luce nel 1852.

«Intorno a questo libro — checchè possano averne detto alcuni sempre più pronti a criticare che a fare — se si considerano la finezza dei pensieri, l’acutezza delle investigazioni e le pagine svolte per comporlo, non si può a meno di darne lode al Carutti, che in freschissima età sobbarcavasi a un lavoro di tanta lena. E così la pensarono i dotti, che a voce e in iscritto gli furono larghi d’encomio.»

A questo lavoro tengono dietro due altri, assai più importanti: la istoria, cioè, del regno di Vittorio Amedeo II, e quella del regno di Carlo Emmanuele III.

Queste due opere, che hanno costato lunghe e faticose ricerche al chiaro autore negli archivi dello Stato, danno a buon dritto valevole titolo al Carutti alla benemerenza e alla stima dei cultori delle patrie istorie. Scritte con purgatissimo stile, sono ricche di documenti e di fatti ignoti o mal conosciuti; il bell’ordine e la chiarezza dell’esposizione, la saviezza delle apprezzazioni e delle deduzioni ne rendono la lettura estremamente interessante e proficua. «Per queste due opere — continua a dire il Franceschi — ebbe il Carutti la croce del Merito Civile, la quale fra tante altre croci ha questo di più, che in chi la porta è segno che del merito ce n’è di certo.

«Alla sapiente operosità dal Carutti mostrata negli scritti non solo, ma nell’esercizio di delicati incarichi e di vari ufficî al ministero degli esteri, ascriver si deve la sua rapida salita al posto in cui ora lo vediamo di segretario generale.

«Le ultime parole pubblicate dal Carutti sono quelle poche, ma nobilissime, da lui indirizzale giorni fa agli elettori politici del collegio di Avigliana e Giaveno, presentandosi come candidato; con quelle parole il Carutti diceva quanto consentivagli la sua modestia e la sua onestà.

«Noi però cogliamo volentieri quest’occasione per rivolgerci a tutti gli elettori di quel collegio, affinchè pongano mente anche alle cose da noi, senz’ombra di spirito di parte, riferite su colui che presentasi a loro candidato. Così, tra quelle che hanno sentilo da lui stesso e le nostre, potranno agevolmente farsi accorti che nell’affidare al Carutti il mandato di rappresentarli al Parlamento, oltre al bene generale, al loro proprio provvederanno; imperocchè alle doti di buon cittadino, alla soda esperienza civile e politica in mille modi acquistata, al saper, come suol dirsi, tener la penna in mano per tutti i versi, nel Carutti s’incontra un’altra qualità, quella di parlare: vogliamo dire, di parlar bene, anche all’improvviso.»

Eletto effettivamente deputato dal collegio d’Arigliana, il segretario generale degli esteri ha preso parte in distinta guisa alle principali discussioni di politica esterna che si sono agitate nella breve sessione di quest’anno nel primo Parlamento italiano. Il suo modo d’argomentare è logico, la frase è ricca, ornata — fors’anco di soverchio — ; ma l’intonazione della voce e la maniera di porgere non sono ancora quali dovrebbero essere, chè, o troppo lente e sommesse, o troppo impetuose e declamatorie, producono sui sensi e sull’animo dell’uditore un effetto inferiore per avventura a quello che dovrebbero ingenerarvi. Ma questa è pecca lieve e passeggera, chè derivante com’è da inesperienza, non già da difetto, tarderà poco a sparire, e non torrà che agli altri pregi del Carutti debbasi aggiunger quelle di dotto e diserto oratore.



  1. Usiamo della facoltà che ci siamo riserbata nella Prefazione di non seguire, cioè, anche nella pubblicazione delle biografie l’ordine rigorosamente alfabetico a cagione delle difficoltà che nelle attuali vacanze del Parlamento ci rendono malagevole di raccogliere gli opportuni documenti.


Note

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