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Francesco Arese.
senatore.
La vita che ci accingiamo a descrivere è una di quelle che ci rende oltre ogni dire gradito l’assai spinoso incarico che ci assumemmo. Nascita, ricchezza, ingegno, cuore, educazione, tutte le prerogative, tutte le qualità si trovan riunite, e in eminente grado, nel nostro protagonista. Di più, eccelse amicizie, ch’egli non mendicò, ma che spontanee se gli offersero, e che i suoi meriti gli guadagnarono, un patriotismo ardente quanto disinteressato, incrollabile al pari che illuminato, l’hanno posto a buon dritto in cima agli avvenimenti, e, malgrado la sua ben nota modestia, ne han fatto un personaggio storico.
Francesco Arese è nato in Milano, nel 1805, dal conte Marco — che fu deputato ai comizi di Lione, e incaricato di speciali onorifiche missioni da Napoleone I — e dalla marchesa Antonia Fagnani. Compiti i primi studî nel collegio di Parma, e i superiori in Milano, fu laureato in legge all’università di Pavia.
Il conte Arese aveva appena vent’anni quando gli accadde uno di quelli avvenimenti che decidono talora dell’avvenire d’un uomo, sopratutto allorchè questo uomo è dotato di uno di que’ caratteri fermi ed interi che non sanno nè obliar, nè transigere.
Uno zio paterno del conte, il colonnello Francesco Arese, arrestato dopo i fatti del 1821, era stato condannato al durissimo carcere dello Spielberg. Il giovinetto, commosso fieramente al pensiero dell’atroce sciagura ond’era oppresso quel suo diletto parente, eccitato anche da amici e da affini, s’indusse, sebbene a malincuore, a presentarsi, a Milano dapprima, nel 1825, e il seguente anno in Vienna, all’imperatore Francesco I, onde impetrare liberazione, o mitigazione almeno di pena al generoso prigione.
L’apostolico sovrano commise la crudeltà — e lo sbaglio! aggiungerebbe un politico — di rimandare l’una e l’altra volta il nobile supplicante inesaudito.
Da quel momento tutto fu detto! Il conte Arese fece un giuramento, che ha sempre osservato dipoi: ei giurò di non aver più verun contatto con Casa d’Austria e co’ suoi devoti, all’infuora di quello che può per avventura esistere tra due nemici irreconciliabili che s’incontrino sul campo di battaglia colle armi alla mano.
Di là a non molto, infatti, ei cominciava le ostilità col prender parte ai moti del 1831, e quelli riusciti a male, doveva andar esule e rimaner lungi dalla cara patria per ben otto anni.
La brevità che ci è imposta dalla natura del nostro lavoro c’impedisce di seguir passo a passo, come il vorremmo, nelle sue ardile intraprese e ne’ suoi lunghi ed istruttivi viaggi il nostro protagonista; dovremo tenerci paghi d’indicare le prime e i secondi quasi sommariamente.
Desideroso d’apprendere a nobile e pratica scuola le rudi discipline della vita militare, come quegli che prevedea non lontano il giorno nel quale i figli d’Italia avrebber fatto appello alle armi onde trarsi di collo il giogo dell’oppressore austriaco, recossi a passar due anni in Algeria, vivajo di quelle eroiche ed agguerrite schiere di Francia, che fecero in questi ultimi tempi maravigliare l’Europa, non tanto pell’irresistibile slancio del loro valore, quanto per la costanza e la fermezza a tutta prova di che dettero saggio nel sopportare e sfidare privazioni e disagi, morbi e fatiche.
Colà ei s’ebbe accoglimento cordiale, e potè seguire le due campagne di Mascara e di Tlemcen, in qualità d’ufficiale d’ordinanza del maresciallo Clausel.
Rientrato in capo a due anni in Europa, si portò in Isvizzera, ove fu ospitato nel castello d’Arenemberg da quella regina Ortensia, che non avea certo d’uopo d’esser regina per ispirare la più entusiastica ammirazione, la devozione la più inalterabile in tutti coloro che avevano la buona sorte d’avvicinarla.
In quel luogo e sotto gli occhi della figlia di Giuseppina, che pose al conte Francesco affetto di madre, questi strinse calda e solida amicizia col di lei figlio, il principe Luigi Napoleone, che già conosceva per averlo prima incontrato a Milano, a Roma e a Firenze.
E qui ne sia subito permesso di ricordare che una tale amicizia non si limitò già a un semplice scambio di piacevoli e famigliari rapporti, o a proteste di sole parole, ma fu cementata da una di quelle singolari prove d’attaccamento, che gli uomini in generale, e i principi in particolare, non sogliono ricevere nella sventura.
Non avvi chi non rammenti quel generoso conato del giovine principe, che fu detto il tentativo di Strasburgo; molti lo qualificarono allora di folle, di temeraria intrapresa; la prosperità della Francia e l’altezza cui oggi son saliti i di lei destini, la rigenerazione d’Italia e rassetto d’Europa intera sulle larghe e solide basi delle nazionalità han già dimostrato o stanno per dimostrare ad ognuno quanto fosse legittima, direm di più, quanto fosse naturale e fatidica la nobile impazienza, l’intolleranza d’indugio che spingeva il futuro vincitore di Solferino verso quel trono ch’ei conosceva spettargli a più d’un dritto, e dall’alto del quale si accingeva a operare il rinnovamento del vecchio mondo.
L’Arese, saputo con estrema emozione il funesto resultamento dell’impresa tentata dall’eccelso suo amico, saputo ch’esso slava per essere deportato in America, varcò tosto l’Atlantico, e allorchè l’esule augusto pose piede su quelle spiagge remote, ebbe a provare il non tenue conforto ai suoi cocenti rammarici, di vedervisi ricevuto, e in certa guisa ospitato — con quanta cordialità, con quanta espansione è inutile il dirlo, — dal conte Francesco. E l’angelica regina Ortensia, essa, l’ambasciata madre, essa, l’espressione la più poetica dell’attaccamento, dell’abnegazione qui in terra, quanta gratitudine non seppe all’Arese del suo gentile operato, e come ampiamente nel compensò con dargli nobile pegno d’affettuosa ricordanza nel suo testamento!
Dopo aver percorso gli Stati-Uniti d’America, penetrato entro le terre degl’Indiani, visitato Cuba e le Antille, il conte Francesco rimpatriò alla fine del 1838, dopo che Ferdinando I d’Austria ebbe concessa un’amnistia senza condizioni, e sul terminare del 1839 tolse in moglie la contessa Carolina Fontanelli figlia del generale e ministro della guerra del regno italico.
Si fu verso il 1845 che l’Arese, in cui l’amor patrio e l’avversione allo straniero dominio mai non quotavano, cominciò ad avviare intelligenze ed accordi con Cesare Balbo, Massimo d’Azeglio, Lorenzo Valerio ed altri caldi italiani di varie provincie, onde promuovere ed affrettare la grand’opera dell’italiano riscatto. E questa eccitata, maturata, preparata di lunga mano, si tradusse infine nelle riforme piemontesi e nella stupenda rivoluzione lombarda, già preceduta dal generoso sollevamento di quell’eroica Palermo, verso la quale sono ora conversi gli sguardi di tutto il mondo civile.
Il conte Francesco venne tosto da Milano inviato a Torino, onde recarvi quella maravigliosa novella, ed invocare gli ajuti del magnanimo re Carlo Alberto, che, pressato dalle istanze del bollente lombardo, ebbegli a rispondere le seguenti precise parole:
— Domani, dinanzi al mio palazzo, sfilerà la guarnigione di Torino, con alla testa uno de’ miei figli, e si porterà alla frontiera. —
Il Re mantenne lo propria promessa, e l’Arese dal canto suo tolse il comando d’una compagnia di volontari e con essi fece tutta la campagna fin presso alla resa di Peschiera.
Ma la patria avea d’uopo d’altri e più rilevanti servigi da lui, ed egli, sempre pronto ad inchinarsi al benchè menomo di lei cenno, lasciò il campo per accettare una missione affidatagli dal governo provvisorio di Milano appo la corte di Baviera, ove tuttavia, per austriaca pressione, non ebbe ad essere ricevuto.
Posteriormente il re Carlo Alberto lo nominò suo inviato straordinario a Parigi, onde complimentarvi il principe Luigi Napoleone, eletto a presidente della repubblica francese, e ad invocarne l’alleanza a prò della seconda guerra d’indipendenza che stavasi per guerreggiare in Italia.
Osservisi strano volgere d’umani eventi! que’ due amici che pochi anni prima eransi abbracciati, entrambi proscritti, sulle spiagge d’America, si ritrovavano allora, l’uno già quasi sovrano del suo paese, l’altro rappresentante dinanzi ad esso la gran patria risorta, se non ancora redenta!
Certo colui che avesse potuto assistere non visto al colloquio di quei due avrebbe udito proferire di quelle parole che decidono dei destini delle nazioni; e se alle calde preghiere dell’italiano il nipote del gran Còrso dovette per avventura rispondere con dolorosa negativa — mentre ei si sapeva allora impossibilitato ad agire, dovendo prima vincere l’anarchia che immiseriva la Francia all’interno, e la rendeva inetta ad influire al di fuori — forse in quello stesso colloquio ed all’amico quasi d’infanzia, il futuro moderator dell’Europa confidò taluno de’ vasti concepimenti, arditi quanto il pensiero, sublimi quanto mai umano disegno può esserlo, che, messi ad effetto con un’abilità, una prudenza e un vigore non più veduti, dovevano un giorno compiere la grand’opera iniziata nel 1789.
E avvegnachè tra que’ concepimenti, accanto a quello che restituiva alla Francia il suo splendido posto fra le nazioni — dopo averla lavata dell’onta di Waterloo e delle due invasioni nemiche — esistesse l’altro, non meno gigantesco, di darle Italia, indipendente ed unita, a secura e riconoscente alleala, l’Arese ebbe a partirsi da Parigi men dolente e meno scoraggiato di quello che, portatore qual era d’un rifiuto, lo si dovesse supporre.
Nel medesimo tempo in cui il conte eseguiva tal missione nella capitale francese, uno de’ collegi elettorali di Genova eleggevalo a deputato al Parlamento nazionale; rientrato poi appena in patria, il ministro Gioberti lo nominava ambasciatore presso la repubblica di Francia, ma egli non credeva dover accettar tale incarico.
Escluso dall’amnistia austriaca dopo il 1848, ebbe stabile domicilio a Genova ed a Torino, e solo nel 1852, e in una circostanza per lui ben dolorosa, gli accadde di dover tornare per poche ore in Milano.
Ricevuta la funesta notizia che il padre era agli estremi, domandò ed ottenne un salvocondotto dal maresciallo Radetzky, per recarsi a compiere presso il morente gli ultimi officî.
Giunto ch’ei fu alla frontiera ebbe novella prova della buona fede austriaca, nel vedersi arrestato, e accompagnato fin nel proprio palazzo da due gendarmi imperiali, e in quel breve tempo in cui, straziato dall’affanno di perdere l’amato genitore, ne riceveva il supremo addio, dovette soffrire l’insopportabile presenza di due agenti di polizia, che per espresso ordine del generale Giulay, nol perdettero un sol istante di vista.
Colpito nel seguente anno dal sequestro di tutti i suoi beni, non accettò l’offerta d’un alto patrocinio ond’esserne liberato, non volendo andar solo immune da una sciagura, cui avrebbero ad ogni modo dovuto continuare a soggiacere gli altri compromessi politici lombardo-veneti.
Del resto, da quel momento e fino a questo giorno la vita del nostro protagonista è a frequenti riprese quella d’un ambasciatore straordinario, incaricato delle più rilevanti, delle più difficili, siccome delle più delicate e confidenziali missioni. I ministri degli affari esteri Azeglio, Dabormida, Cavour, più e più volte e in epoche diverse, lo fanno interprete, mediatore della loro politica a Parigi ed altrove. L’istoria di tutti i negoziati condotti a buon termine per opera del conte Arese, e sopratutto degl’importantissimi conclusi o modificati tra esso e il di lui amico l’Imperatore de’ Francesi, sarebbe oltre ogni credere interessante, ma ognun comprende che noi non la possiamo dettare in queste pagine. Ne preme tuttavia di rettificare l’erronea opinione, invalsa generalmente in Italia, circa il risultato di una delle ultime e più importanti missioni che sieno per avventura state affidate al nostro protagonista.
Conchiusa la pace di Villafranca, e dimessosi il ministero Cavour, il re Vittorio Emanuele chiamò presso di sè il nobile conte e gli commise lo spinoso incarico della formazione d’un gabinetto, al quale naturalmente l’Arese avrebbe dovuto presiedere. Questi, malgrado che sia scevro d’ogni ambizione, e amante di vivere una vita modesta e indipendente, non avrebbe creduto nulladimeno poter rifiutare l’opera sua in tal circostanza, come abbiam visto ch’egli non si è mai ricusato ogni qual volta si è avuto urgente bisogno de’ suoi servigi pel Re e per la patria; pure ci è noto ch’egli ebbe con evidente rammarico a declinare l’onore ch’eragli offerto. Ed è qui ed in ciò che noi intendiamo fare la rettificazione in discorso, in quanto che tutti i giornali nostrani dissero che l’Arese accettasse di buon grado l’incarico, ma la sua missione fallisse, per non essere egli riuscito a trovarsi colleghi per la composizione del ministero.
Vero è che l’Indépendance belge e il Nord smentirono subito un tale asserto, ma in quell’effervescenza degli animi in Italia si prestò poca o niuna attenzione a quanto nelle loro colonne apparve in proposito.
Circa ai motivi che possono aver indotto il nobile conte a trarsi addietro in un momento sì critico pel sovrano e pel paese, noi non li conosciamo positivamente; ma ci sembra che colui che li rintracciasse in quella salda coerenza a generosi principî, in quella costanza e consentaneità d’operati che costituiscono la base e l’essenza di tutta l’onorevole vita del nostro protagonista, non dovesse forse andar lungi dal vero.
Difatti, non è egli mestieri di convenire che ad un uomo del carattere dell’Arese, esule o emigrato da diciotto anni, e le cui opinioni politiche, ferme e inconcusse, non erano un mistero per alcuno, mal sarebbe sieduto l’esordire nell’alto suo ministero di capo di governo del Re Galantuomo, col dettare e sottoscrivere i decreti, mediante i quali si avevano a richiamare le truppe e i commissari piemontesi dalle provincie aggregate o protette?
Nè con ciò intendiamo gettare il benchè menomo biasimo, o l’ombra neppur d’un rimprovero sullo specchiato generale Alfonso Lamarmora per essersi egli assunto una così incresciosa incombenza; solo intendiam costatare che ciò che a questi non sconveniva, all’Arese riusciva forse impossibile.
Senatore del regno, gran cordone dell’ordine Mauriziano, commendatore della legion d’onore, il conte Francesco, rimasto vedovo fin dal 1849, ha quattro figli, tre dei quali maschi: uno che studia legge all’università di Torino, il secondo allievo della scuola militare di Pinerolo, il terzo della scuola regia di marina.
Ed ora che abbiam terminato di redigere questi di soverchio rapidi cenni biografici, ne sia permesso di tributar un plauso, che niuno potrà intaccare di adulazione, al nobile conte, per l’abnegazione e lo zelo affatto patriotico col quale si è prestato e si presta nel servire con tanto frutto e nelle più scabrose occasioni l’Italia ed il Principe.
E tanto più se gli deve saper grado, crediam noi, degli eminenti servigî ch’egli ha resi e che rende, in quanto che, con un disinteresse, di cui ben di rado si riscontra l’uguale, ha sempre rifiutato tutti gl’indennizzi, paghe o pensioni, esibitigli dai diversi ministri che si son succeduti al timon dello Stato.
Nè ciò è tutto; che anche, quando è occorso — e le occorrenze sono state frequenti in questi ultimi tempi — egli ha fatto a prò del paese offerte e largizioni che ognuno conosce ed apprezza; e per non dir d’altro, ricorderemo che mentre la battaglia di Magenta, onde ne venivano aperte le porte della Lombardia, accadeva in gran parte sui tenimenti del conte — i quali, sia detto tra parentesi, n’erano come ragione comanda devastati — egli si dava premura, niuno l’avrà dimenticato, d’offrire all’Imperatore de’ Francesi due vaste sue case, colà situale, onde fossero convertite in ospedali militari.
Certo, la gloria ed il merito di un’integerrima leale ed operosa esistenza, tutta spesa a vantaggio della patria, appaiono anche più splendidi e puri, non essendo menomamente offuscati da quell’ombra del quadro, che i nostri alleati d’oltr’alpe chiamano nel pittoresco loro linguaggio: question d’argent!