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Francesco Avesani.
AVESANI barone avvocato FRANCESCO
deputato.
Ecco un nobile veglio, dinanzi al quale la gioventù d’Italia deve pure inchinarsi con profondo rispetto e sentita riconoscenza, avvegnachè egli sia un di quei pochi che posson dirsi con sicurezza di coscienza e purità di soddisfacimento: molto operai col senno e con la mano a vantaggio dell’italica redenzione.
Francesco Avesani è nato a Verona sul cadere del secolo scorso da nobile e benemerita famiglia. Il padre di lui, uomo d’integri costumi ed alta capacità, fu ufficial superiore del genio in servigio dell’antica repubblica veneta. Il figlio, informandosi di buon’ora all’esempio del genitore, educò ad un tempo l’intelletto ed il sentimento alle più nobili ed utili discipline, alle aspirazioni le più patriottiche e generose.
Compiti gli studi universitari a Padova, avvocatatosi e fissata stabile dimora in Venezia, egli si ebbe ben presto guadagnata in quest’illustre ed infelice metropoli la stima e la fiducia d’ognuno.
Non entreremo nei particolari d’una vita che si può dire quasi privata in confronto di quella tutta vissuta a pro della patria posteriormente dall’Avesani; ma ci limiteremo a confermare che nella città dei dogi non si operava cosa che buona e bella si fosse cui non prendesse parte principalissima il nostro protagonista.
Nell’inverno del 1845-46 l’Avesani ebbe per la prima volta a trovarsi in contatto diretto coi governanti austriaci a cagione delle vertenze che insursero tra questi e la Società della Strada ferrata tra Venezia e Milano.
Delegato a Vienna insieme ad altri, tra i quali figurava il De Bruck, poscia ministro delle finanze, onde patrocinare i vantaggi della Società medesima, egli ebbe in quella una prima occasione di dare un saggio della propria fermezza e decisione nel trattare coi rappresentanti dell’Austria patri interessi. Spedito antecedentemente nella capitale dell’impero un memorandum, redatto con tanta energia da far dire al consigliere aulico incaricato di tal bisogna che il ministero n’era rimasto altamente indignato (ganz indignirt), nelle conferenze e trattative ch’ebbero in seguito luogo l’Avesani continuò a persistere nelle da lui adottate conclusioni, contr’anche l’avviso de’ suoi colleghi, alcuni de’ quali sembravan disposti a cedere, e ciò con tanta nobile e irremovibile ostinatezza da pervenire ad ottenere che la sovrana risoluzione, mediante la quale si usurpava una porzione dei diritti della Società, venisse alfin revocata.
Nel 1847, la visita che fece Cobden a Venezia, nella sua trionfale escursione attraverso l’Italia, che festeggiava il propugnatore del libero scambio qual messaggero d’un’èra novella pei popoli oppressi, fornì un’altra occasione al patriottismo dell’Avesani per tentare un passo che utile fosse al paese, o che ad ogni modo assumesse il carattere d’una energica protesta contro l’infeconda e spogliatrice dominazione straniera.
Avendo il governatore austriaco vietato che durante il pranzo dato dalle notabilità veneziane all’economista inglese si proferisse verun’arringa, il barone Francesco si rifece di quel forzato silenzio col leggere in una seduta dell’Ateneo, del quale era uno de’ più chiari membri, un discorso, in cui proponeva s’imitasse nella città di San Marco l’esempio dato dal Cobden in Inghilterra, e come questi aveva chiesto al governo del proprio paese una sola concessione: la revoca del dazio sui grani, così i Veneti domandassero all’Austria che cessasse dal proibire l’importazione del ferro estero, proibizione diretta unicamente a favorire il monopolio di pochi possidenti austriaci proprietari di stabilimenti ferrieri.
Tale rimarchevole memoria, di cui ci duole non poter riferire alcun brano, terminava con la proposta all’Ateneo di provocare in tutte le Accademie del Lombardo-Veneto l’istituzione d’apposite commissioni onde queste si dessero a promuovere presso le rispettive popolazioni ciò che gl’Inglesi con termine assai espressivo chiamano: l’agitazione.
L’Ateneo, annuendo alle generose sollecitazioni dell’Avesani, decretò prima di tutto si desse alla luce il di lui discorso perchè fosse inserito negli atti, e nominata poscia una commissione nel senso dal chiaro avvocato stabilito, ne ’l chiamò a presidente. Se non che il censore della stampa, sebbene in una sua lettera diretta all’Avesani gli prodigasse i più sperticali elogi, dichiarandosi inetto a giudicare tanto grave bisogna, fece sì che il permesso della pubblicazione mancasse e che questa quindi non potesse aver luogo.
Immediatamente, con quella costanza nei propositi ch’è la qualità essenziale di ogni uomo che sa e vuol rendersi utile alla società, il barone Francesco diresse un’istanza al governatore, nella quale trascrisse alcuni articoli della Patente austriaca del 1815 sulla stampa — articoli sufficientemente liberali, ma che, secondo il solito rimanevano ineseguiti — domandando arditamente se avessero a considerarsi come lettera morta.
Dietro quest’abile quanto energica insistenza, il permesso della stampa venne accordato; quando pero la commissione dell’accademia di Verona prese a trattare caldamente la materia, sopraggiunse un veto sovrano che lasciò tutto in tronco.
Ma laddove l’Avesani si mostrò proprio quel grande animo ch’egli è, si fu nella circostanza imponentissima in cui una collisione tremenda stava per aver luogo tra la popolazione fremente di Venezia e le truppe austriache, nel marzo del 1848. Tutti sanno che si deve alla fermezza veramente spartana, e pertanto oculata, del barone Francesco, se questi riuscì a far accettare ai due governatori stranieri una capitolazione che rimarrà celebre nell’istoria dei nostri nazionali rivolgimenti; ma pochi conoscono il processo verbale officiale della conferenza tenuta all’uopo dall’Avesani coi suddetti due governatori, processo sottoscritto dai membri della deputazione, e che non esiste nella collezione dei documenti prodotti dal Cattaneo, nè in alcun’altra delle istorie della rivoluzione del 1848.
Ci sembra adunque pregio dell’opera il riportare per intero nel nostro libro cotal processo verbale di conferenza, non che la capitolazione che ne susseguì, tal quali li troviamo in uno stampato dato alla luce nell’ottobre del 1849 in Torino per cura dello stesso barone Avesani, che lo credè allora necessario onde rettificare la poco favorevole impressione prodotta nel pubblico da alcune parole men che esatte proferite riguardo alle cose di Venezia dal generale Alberto della Marmora nella seduta del 20 ottobre suddetto del Senato del regno.
«La Congregazione municipale della città di Venezia — così è concepito tal documento — con suo foglio della mattina del dì 22 marzo 1848 invitò alcuni tra i più stimati cittadini ad associarsi ad essa nelle angosciose circostanze del momento.
«L’assemblea, composta del signor podestà e dei sei assessori municipali, del suo segretario e dei signori Giuseppe Reali, Luigi Revedin, avvocato Giovanni Francesco Avesani, Leone Pincherle, avvocato Giacomo Castelli ed avvocato Costi, stava discutendo sullo stato delle cose e misure da prendersi; quando le giunse la nuova della morte dell’odiato colonnello Marinovich, ucciso dagli arsenalotti, e dell’impresa del valoroso capo della Guardia civica del sestiere di Castello, signor Francesco Olivieri, ch’entrò col suo drappello in Arsenale, e ne fece montare un altro sulla goletta guardaporto; senza che altre notizie dell’Arsenale giungessero.
«Si presentò successivamente all’assemblea il signor avvocato Angelo Mengaldo, già capitano dell’antica armata d’Italia, ed eletto comandante della Guarda civica, il quale, ritornato dal palazzo di governo colla missione ch’egli ebbe prima dal municipio di chiedere che fosse fatto sgombrare l’Arsenale di terra dai croati, riferì ch’esposto ai governatori civile e militare, conte Palffy e conte Zichy, in presenza del consiglio di governo e del viceammiraglio Martini, l’oggetto della sua missione, gli si fece osservare che le esigenze si succedevano l’una all’altra, e che, quantunque soddisfatte, nondimeno l’inquietitudine continuava, ed avrebbe continuato ancorchè si fosse aderito al licenziamento dei croati dell’Arsenale; e però ei venne eccitato ad esporre francamente quali fossero le vere intenzioni della città; al che egli rispose senza esitanza che la città non sarebbe stata tranquilla finchè tutti i mezzi di offesa e di difesa non fossero posti in mano dei cittadini.
«Gli fu replicato che ciò equivarrebbe a domandare un’intiera abdicazione, ed egli soggiunse non sapere di ciò, sapere bensì di non poter rispondere delle luttuose conseguenze che deriverebbero dall’insistere nel rifiutarsi a soddisfar questo voto e ch’egli andava a riferirne al municipio; come fece immediatamente, eccitando esso municipio, per consentimento dello stesso governo, a portarsi presso di questo a spiegargli il voto del popolo, senza di che l’effusione del sangue sarebbe inevitabile.
«L’assemblea incaricò allora una deputazione di alcuni fra i suoi membri onde portarsi al palazzo del governo e ripetere tale voto ai due governatori, e salvare la città dalla strage.
«La deputazione fu composta del sig. podestà Correr, dei due assessori municipali signori Luigi Michiel e Dataico Medin, dell'avvocato Avesani e del sig. Leone Pincherle, ai quali venne ad aggiungersi il signor Fabris, deputato centrale, e partì alle ore tre e mezza pomeridiane. L’avvocato Mengaldo, comandante la Guardia civica, sopraggiunse duranti le trattative.
«Introdotta negli appartamenti di S. E. il sig. conte Palffy, governatore delle provincie venete, la deputazione lo trovò circondato dal suo consiglio di governo.
«Egli allora prese la parola, e cominciò il suo discorso con un severo e lungo rimprovero delle imputazioni fatte al governo affine di produrre, egli diceva, l’agitazione del popolo, e ch’egli ad una ad una andava enumerando e dichiarando false.
«Interruppe questo preambolo l’avvocato Avesani dicendo:
«— Siam noi venuti qui per ricevere rimproveri all’uso antico, o per negoziare?
«Al che il signor governatore si eresse ancor più, lagnandosi dell’interruzione, ed aggiungendo ch’egli non parlava col signor Avesani, se questi non voleva ascoltarlo; ma parlava col signor podestà e cogli altri.
«Egli terminò il suo discorso col rinfacciare che si era promessa la tranquillità del paese, tostochè si fosse accordato dal governo ciò, che poi ottenuto, provocò un’agitazione maggiore e nuove domande; ch’egli aveva radunato il suo consiglio di governo per ascoltare quello che si chiedesse ancora, acciocchè, se le domande fossero tali ch’egli ed il consiglio avessero facoltà di aderirvi, se ne trattasse in quella conferenza.
«A tale eccitamento il signor podestà rispose che il municipio aveva scelta una deputazione formata degli individui presenti, allo scopo di far conoscere a S. E. ciò che si credeva indispensabile ad evitare l’effusione del sangue; il che stava sopratutto a cuore del municipio, il quale si era a ciò adoperato nei giorni trascorsi e si adoperava tuttora; ed invitò l’avvocato l’Avesani a farsi l’oratore della deputazione.
«L’avvocato Avesani espose che il signor governatore non poteva aspettarsi una domanda ordinaria nella sfera delle attribuzioni del consiglio di governo; che ogni dissimulazione era vana; che non v’era tempo da perdere; che perciò la deputazione non entrava nè in confutazioni dell’inconveniente preambolo del signor governatore, nè in discussioni sulla ragionevolezza o meno, dei motivi del malcontento del paese, o sulla sufficienza delle tarde concessioni fattegli; ch’era forza andar subito al concreto, e che la domanda concreta era questa: Il governo austriaco ceda il potere!
«Quand’è così, rispose indignato il governatore, io mi dimetto dal governo, ed a norma delle istruzioni ricevute, lo rimetto nelle mani di S. E. il governatore militare; e così la città avrà che fare unicamente con lui.
«Allora l’avvocato Avesani disse d’aver poc’anzi veduto, nella vicina stanza, all’aprirsi di una porta, S. E. il sig. conte Zichy, comandante della città e fortezza, e pregò S. E. il sig. governatore conte Palffy di farlo chiamare, acciocchè egli udisse sull’istante la domanda e desse sull’istante la sua risposta.
»Il sig. conte Palfly andò egli stesso a chiamarlo, e rivolgendo a lui la parola, gli espose la domanda fatta dalla deputazione, impossibile ad esaudirsi dal consiglio di governo e da lui; per lo che esso conte Palffy rimetteva anche il suo ufficio nelle mani di lui sig. tenente maresciallo comandante della città e fortezza, e cessava sin d’allora di essere governatore; ma nel medesimo tempo gli raccomandava che, nell’esercizio de’ suoi rigorosi doveri, esso sig. tenente maresciallo volesse risparmiare il più possibile questa bella e monumentale città, alla quale egli protestava la più viva affezione.
«S. E. il sig. tenente maresciallo conte Zichy fece le meraviglie della domanda annunziatagli, e la disse impossibile ad esaudirsi anche da lui; soggiungendo ch’egli pure amava la città di Venezia, nella quale soggiornava da molti anni; ma che il suo dovere andava al di sopra delle sue affezioni, e ch’egli avrebbe fatto rigorosamente il dover suo.
«L’oratore della deputazione, avvocato Avesani, rispose ch’egli teneva tal dichiarazione per un rifiuto; ch’egli andava tosto a riferirlo al popolo; e che il sig. tenente-maresciallo sarebbe responsabile della strage imminente.
«Il sig. conte Zichy lo trattenne e lo eccitò a moderarsi; ma l’avvocato Avesani esclamò che la moderazione era impossibile, ed articolando le domande, chiese:
«1.° Le truppe tedesche, o comunque non italiane, partano: le italiane restino.
«— Impossibile! esclamò il sig. tenente-maresciallo; ci batteremo.
«— Ebbene, ci batteremo! rispose l’Avesani in atto di partire.
«Trattenuto di nuovo ed esortato dal tenente-maresciallo a penetrarsi della sua posizione, poichè ci andrebbe della sua testa, se accordasse una tale domanda; l’Avesani soggiunse che in simili frangenti ci va della testa di tutti; che non si potevano aspettare ordini da Vienna, o da altro luogo, che si era ormai perduto troppo tempo; che ogni ora, ogni minuto poteva esser decisivo e portar la strage; che la formula della domanda era spartana e spartana esser dovea la risposta.
«Il sig. tenente-maresciallo replicò, che quand’anche egli potesse aderite alla domanda in massima, egli non potrebbe mai ordinare una simile distinzione; ch’egli potrebbe solamente comandare lo sgombro dalla città delle truppe indistintamente, ed in caso poi che parte della truppa non volesse abbandonare la città, soffrirlo in pace. Ma l’oratore della deputazione non accettò questo mezzo termine, dichiarando che se si voleva evitare la strage, quella chiara distinzione era indispensabile; che portare al popolo una concessione a mezzo od ambigua avrebbe cagionato la strage per togliere l’ambiguità, o per arrivar al tutto, o a più che tutto; ch’egli era per conseguenza dell’interesse stesso della salvezza della truppa tedesca il non fidarsi di mezzi termini; e che perciò nelle incrollabili esigenze di lui, Avesani, chi ben vedeva doveva ravvisare lo spirito di pace.
«La prima domanda venne finalmente accordata da S. E. il sig. comandante della città e fortezza.
«L’avvocato Avesani chiese dipoi:
«2.° Le truppe partano immediatamente per Trieste e per mare.
«Il tenente-maresciallo conte Zichy rifiutò, adducendo ch’egli non poteva impedire che le truppe andassero a raggiungere i loro corpi, e partissero sotto la protezione dei forti.
«L’avvocato Avesani oppose che al contrario anche i forti dovevano essere abbandonati, e che noi Veneziani non volevamo fare un presente delle truppe respinte da noi ai nostri fratelli delle provincie; nè soffrire che andassero ad ingrossare l’esercito austriaco nel nostro suolo lombardo-veneto.
«Ogni replica del tenente-maresciallo fu troncata colla dichiarazione per parte dell’Avesani che qualsiasi discussione era impossibile e ch’era forza rispondere sì o no alla formula indeclinabile della domanda:
«Accordato.
«L’oratore della deputazione domandò:
«3.° Le Casse tutte restino qui.
«Al solito rifiuto, solita insistenza. All’obbietto che occorreva pagare le truppe e i trasporti, l’oratore della deputazione accordò che dalle casse fosse rilasciato l’occorrente per la paga delle truppe, e pel loro trasporto. Aderì in seguito che la paga fosse di tre mesi1.
«Infine l’oratore della deputazione esigeva in ostaggio i due governatori fino alla completa esecuzione dell’accordo. Il governatore civile conte Palffy si dolse altamente di tale esigenza, mentr’egli si era dimesso dalle sue funzioni, e non entrava per niente nell’accordo stipulato col governatore militare, nelle cui mani eransi riuniti tutti i poteri. Egli interpellava l’Avesani a riconoscere almeno ch’egli si era diportato sempre da galantuomo, e non meritava di esser trattato in tal guisa.
«— Sì, è vero! riprese l’oratore della deputazione, galantuomo; e aggiungerò affezionato al paese fino a tre mesi fa; ma da tre mesi ella commise gravissimi errori, ed errori proprî, oltre quelli che derivavano dai comandi di quell’uomo che si decantava qual Nestore della diplomazia, e che invece colla sua resistenza ostinata al torrente del tempo ha condotta al precipizio la monarchia austriaca.
«Il governatore militare, dolendosi egli pure della domanda di averlo in ostaggio, osservò ch’egli doveva occuparsi dell’esecuzione dell’accordo, e che necessariamente egli restava l’ultimo a partire.
«Gli astanti tutti, compresi gli altri membri della deputazione, s’interposero affinchè non fosse insistito in tale domanda d’ostaggi; e l’avvocato Avesani stese la mano al conte Zichy, dicendo:
«Datemi, generale, la vostra parola d’onore che sarete l’ultimo a partire.
«Questa parola fu data e scritta, stipulando pure che un vapore sarebbe posto a disposizione dell’E. S. pel trasporlo della sua persona, del suo seguito, e degli ultimi soldati che rimanessero.
«Tutto il resto pure fu scritto, insieme col patto al quale, sulle istanze del tenente-maresciallo, fu aderito di provvedere ai mezzi di trasporto delle famiglie degli ufficiali e soldati e di garantire, oltre ad essi, anche agli impiegati civili le loro persone, famiglie ed averi.
«Lo scritto fu esteso e firmato in doppio; uno degli originali fu lasciato a S. E. il sig. tenente-maresciallo comandante della città e fortezza, conte Zichy, e l’altro venne trattenuto dalla deputazione, e depositato solennemente nello scrigno del municipio.
«Erano allora le ore sei pomeridiane.
«I deputati, sortendo dal palazzo, proclamarono al popolo la capitolazione, di cui già, nel tempo speso nelle trattative, scritturazione e copia, era giunto a sua notizia molto prima il punto più importante, cioè la decadenza del governo austriaco.
«Firmati
- Gio. Correr, podestà.
- Luigi Michiel, assessore municipale.
- D. Medin, assessore municipale.
- P. Fabris, deputato centrale.
- A. Mengaldo.
- Gio. Francesco Avesani.
testo della capitolazione:
«Onde evitare lo spargimento del sangue, S. E. il signor conte Luigi Palffy, governatore delle venete provincie, avendo udito da S. E. il sig. conte Giovanni Correr, podestà di Venezia, ed assessori municipali, e da altri cittadini a ciò deputati, che non è possibile raggiungere questo scopo senza che abbia luogo quanto sarà articolato qui sotto, nell’atto di doversi dimettere, come si dimise dalle sue funzioni, rimettendole nelle mani di S. G. il sig. conte Ferdinando Zichy, comandante della città e fortezza, ha raccomandato caldamente al signor comandante medesimo di volere aver riguardo a questa bella e monumentale città, verso la quale egli ha sempre professato la più viva affezione e il più leale attaccamento; lochè gli piace nuovamente di ripetere. In conseguenza di che, essendosi il sig. conte Zichy penetrato della stringenza delle circostanze, e del medesimo desiderio di evitare un inutile spargimento di sangue, si devenne fra lui ed i sottoscritti a stabilire quanto segue:
«1.° Cessa in questo momento il governo civile e militare, sì di terra che di mare, che viene rimesso nelle mani del governo provvisorio, che va ad istituirsi e che istantaneamente viene assunto dai sottoscritti cittadini;
«2.° Le truppe del reggimento Kinski e quelle dei croati, l’artiglieria di terra, il corpo del genio, abbandoneranno la città e tutti i forti; e resteranno a Venezia le truppe italiane tutte, e gli ufficiali italiani;
«3.° Il materiale da guerra d’ogni sorte resterà in Venezia;
«4.° Il trasporto delle truppe seguirà immediatamente con tutti i mezzi possibili per la via di Trieste, per mare;
«5.° Le famiglie degli ufficiali e soldati che dovranno partire, saranno garantite, e saranno loro procurati i mezzi di trasporto dal governo che va ad istituirsi;
«6.° Tutti gli impiegati civili, italiani e non italiani, saranno garantiti nelle loro persone, famiglie ed averi;
«7.° S. E. il sig. conte Zichy dà la sua parola d’onore di restare l’ultimo in Venezia, a guarentigia dell’esecuzione di quanto sopra. Un vapore sarà posto a disposizione dell’E. S. pel trasporto della sua persona e del suo seguito, e degli ultimi soldati che rimanessero;
«8.° Tutte le casse dovendo restar qui, saranno rilasciati soltanto i denari occorrenti per la paga e pel trasporto della truppa suddetta. La paga sarà data per tre mesi.
«Fatto in doppio originale.
Conte Zichy, tenente maresciallo Comandante la città e fortezza. |
Giovanni Correr. Luigi Michiel. Dataico Medin. Pietro Fabris. Gio. Francesco Avesani. Angelo Mengaldo, comand.e Leone Pincherle. |
Francesco dott. Beltrame, testimonio.
Antonio Mazzani, testimonio.
Costantino Alberti, testimonio.
viva venezia! viva l’italia!
- «Cittadini!
«La vittoria è nostra, e senza sangue. Il governo austriaco, civile e militare, è decaduto.
Gloria alla nostra brava Guardia civica! I sottoscritti nostri concittadini hanno stipulalo il trattato solenne.
«Un governo provvisorio sarà istituito; e frattanto per la necessità del momento i sottoscritti contraenti hanno dovuto istantaneamente assumerlo. Il trattato viene pubblicato oggi stesso in un apposito supplemento della nostra Gazzetta.
«Viva Venezia! Viva l’Italia!
- «Venezia 22 marzo 1848.
Gio. Correr. |
- ↑ Nelle casse si trovarono alcuni milioni; le truppe tedesche, ch’erano i croati e il reggimento Kinski, e non Zichy, non partirono il 24 marzo, ma parecchi giorni dopo, e sopra legni mercantili perciò noleggiati, e non già sopra il Vulcano, che non era a Venezia, e non fu mai in potere dei Veneziani. Ciò in rettificazione delle parole del generale cavaliere Alberto della Marmora.
Tale è l’esatto tenore di questo rilevantissimo documento, ignoto affatto fin qui; ci sembra perfettamente inutile di commentarlo, ch’egli è abbastanza esplicito di per sè, e tesse gli elogi dell’Avesani meglio di quello che le parole del più eloquente uomo del mondo potessero farlo.
Senza poi voler tornare troppo minutamente a riandare le cose di quel tempo, onde non rimestar passioni, o piuttosto velleità, che certo crediamo appieno svanite, ma il cui spettacolo tuttavia non può rallegrar l’animo di nessuno, neanche ai dì nostri, ci sembra utile di ricordare che allorquando il barone Francesco uscì dal palazzo di governo col duplo della Capitolazione in mano per andarlo a depositare negli archivi del municipio, tra una folla di popolo che faceva ala e mandavano grida di esultanza, udendo acclamare da qualche voce: Viva la repubblica! ei prorompesse nelle seguenti parole: — Nò, amici miei, non proferite altro grido, che quello di: Fuori lo straniero! viva Italia! e viva Venezia!
Nessuno osò replicare in quel momento, chè si nutriva per l’Avesani una stima e un affetto superiore ad ogni espressione; pure, quasi contemporaneamente, il Manin proclamava di fatto la repubblica sulla piazza San Marco.
L’Avesani, uomo dotato di sano criterio e avente aspirazioni puramente e largamente italiane, deplorò e disapprovò apertamente quel passo insalutare, mentre egli lo considerava quale una sfida lanciata sul volto non solo di Carlo Alberto, unica forza della gran patria, ma anche di tutti i monarchi d’Europa.
Pure, siccome il partito contrario aveva preso il sopravvento, e ciò a segno tale, che scorgendo nell’Avesani un serio ostacolo alle sue mire, osò mandare a minacciarlo di morte — lui, il salvatore, lui, il liberatore di Venezia! — ove non si fosse ritratto dal maneggio degli affari; il barone Francesco, tra che non aveva la benchè menoma ambizione di governare, tra che rifuggiva sol dal pensiero di poter provocare dissensioni civili, si dimise da quella carica di membro del governo provvisorio, che veramente in via provvisoriissima erasi assunta, e ricusò poscia tutti gli altri officî che i suoi avversari politici offrirongli, limitandosi ad accettare il solo mandato di deputato al Parlamento.
Quando poi sopragginsero le strettezze dell’infelice Venezia, allora ebbesi di nuovo ricorso all’Avesani, e questi, immemore dei patiti affronti, e non guardando che al periglio che minacciava la patria, accettò di far parte di commissioni che tendevano a resistere sino all’estremo, e a non accettar capitolazioni in senso diverso da quello dell’accordo da esso dettato al governatore austriaco.
Esule, dopo la ricaduta dell’antica regina dell’Adriatico, l’Avesani durante il suo soggiorno in Piemonte ha saputo conciliarsi la benevolenza e la considerazione d’ognuno, e ciò tanto più in quanto che, more solito, non ha cessalo un giorno di rendersi utile al paese ed ai suoi compagni di sventura.
Avvertendo ch’egli è stato inviato al parlamento nazionale dal II collegio di Bergamo, noi non possiamo meglio chiudere questa notizia biografica che col trascrivere qui le parole scritte da N. Tommaseo sul di lui conto nel n. 138 del giornale di Genova, L’Amico (15 giugno 1859), in occasione di una risposta da esso Tommaseo diretta a M. Havin direttore del Siècle per invitarlo a rimettere all’Avesani una somma di denaro emanante da sottoscrizioni aperte in Francia a favore d’Italia:
«All’intenzione vostra, o signore, — così si esprime il Tommaseo — io non credo poter meglio corrispondere che facendo distributrice della somma a me gentilmente diretta la Società benemerita che da quasi dieci anni provvede a’ sussidî degli esuli, oltre a quanto fa per essi il governo piemontese con cura meritevole della nostra riconoscenza. Uno de’ fondatori di questa Società, e che ne pose gli statuti con intendimenti più ampî di quel che i tempi poi concedessero, è il barone Francesco Avesani, il quale nella storia di Venezia risorta, quando sia scritta davvero, terrà luogo cospicuo, siccome quegli che, sovrastando ancora il pericolo, anzi facendosi più minaccioso che mai, venne animosamente alle prese coll’autorità civile e con la militare dello straniero, e le condusse coll’imperiosità del diritto inerme a scrivere il patto della cessione, senza il qual patto, e la presa dell’arsenale e tutte le altre mosse non solo riuscivano vane, ma provocavano sulla città gli estremi flagelli.
«Di così grande benemerenza non fece il nobile cittadino, nonchè strumento di ambizione, nè mostra, e si raccolse nella vita privata, pur sempre operosamente ajutando ai bisogni e alla dignità della patria; e semprechè il bene di essa lo volesse, a coloro da cui dissentiva si accostò generoso. Il primo avvocato di Venezia e del Veneto sofferse gli ozi disagiati dell’esilio decenne; egli, già uso a fruire i vantaggi legittimi della ricchezza, e dell’autorità e della fama, seppe, nell’età sua già grave, viversene ragguardevole nella sua stessa oscurità, senza vanto e senza querela. Queste cose dicendo, io so d’essere interprete della coscienza e della gratitudine dei Veneziani; e godo che questa occasione solenne mi si offra di dirlo ad uomini qual voi siete.»
Sappiamo di buon luogo che allorchè il barone Avesani lesse queste espressioni, dettate da un suo avversario politico, e che a caso gli capitarono sott’occhio verso la metà del successivo agosto, ne provò sì viva emozione che le lagrime gli bagnaron le ciglia ed ebbe a esclamare:
«— Le parole del Tommaseo bramerei mi servissero un giorno d’orazione funebre!»