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Gaetano Bichi.
deputato.
Poche sono le provincie in Italia ove la libertà non abbia avuto in ogni tempo un qualche energico rappresentante. Bichi nella Versilia e in Toscana suona sinonimo di liberale, è quella una delle famiglie italiane che dal 1821 al 59 hanno molto agito e molto sofferto per la gran causa nazionale.
Già anche prima del 1821, Giovan Battista, fratello maggiore del cavaliere Gaetano, s’era levato animoso saettatore della Santa-Alleanza e del diritto divino delle dinastie; onde fu incatenato a Modena, espulso a perpetuità dai domini di quel duca feroce e tradotto nelle prigioni di Firenze.
Gaetano Bichi dei conti di Scargiano, che nella più verde età ebbe a ricevere sì forti impressioni d’odio contro la tirannide, nacque il 24 aprile 1810 a Pietrasanta. Questa famiglia è un ramo dell’illustre ceppa dei Bichi di Siena, dai quali, tra i molti che onorarono ora la toga ora le armi, discese quell’intrepidissimo Jacopo Bichi, che fece nell’assedio di Firenze così nobili prove d’italica virtù, combattendo e morendo per la sovranità del popolo.
Il cav. Gaetano studiò le lettere latine, l’archeologia e le leggi nella università di Roma.
A sedici anni fu dichiarato con lettere patenti del 1.° luglio 1826 socio dell’accademia dei Tesmofili, dotto collegio di giureconsulti.
A 17 anni fu acclamato maestro di diritto criminale e naturale dall’archiginnasio romano con diploma del 21 giugno 1827.
Intanto colla scienza e nella fratellanza di gagliardi intelletti di Romagna, dell’Umbria e delle Marche si rafforzava nel Bichi il cittadino italiano che cresce alla patria con tutti gli elementi di sua esistenza.
Sudò a terminare i suoi studi all’universilà di Pisa, ove sforzandosi più che mai d’estendere il culto dell’avvenire d’Italia, venne presto esposto all’odio dei professori, che lo attendevano agli esami per umiliarlo.
Arrivò il giorno delle prove finali e il cavalier Bichi era di poco entrato nel diciannovesimo suo anno quando fu laureato dottore con diploma del 1.° luglio 1829.
Per compiacere al proprio genitore, esperto giurisconsulto, esercitò in Pietrasanta la professione legale, ma non prese a patrocinare altre cause che quelle dei poveri.
Arriva il luglio del 1830, e quando le tre immortali giornate ebbero rovesciato e infranto quel borbonico trono che la Santa Alleanza aveva turpemente racconciato in Francia, il Bichi, che nelle grandi riforme del popolo francese uso era a discernere il principio universale, salutò quella stupenda rivoluzione come foriera del riscatto d’Italia. Non egli aspettò che la gente rispondesse al grido di libertà; lo sentiva onnipossente dentro sè stesso, comprese che il tempo d’agire era venuto, corse a Firenze, traversò i confini toscani, e impiegò l’opera sua in arditi e decisivi apparecchi.
Nel 1831, infatti, sebbene nelle provincie di Toscana si fosse molto rallentata la fiducia nel principio del non-intervento messo innanzi dai ministri di Luigi-Filippo, veggiamo il nostro protagonista risolutamente lasciar da banda i troppo prudenti ed avverare colla sua fermezza la grande idea del sacrifizio personale.
Dicono che vi fu qualche cosa di temerario nella fede ch’egli ebbe in sè stesso e in quelle poche braccia che si destinavano a porgergli aiuto. Noi, senza proferir giudizio sugli ardimentosi casi di quell’epoca, diciamo che questo sentirsi più potente del numero e più allo della sventura, quando la sventura ci coglie, è una grande dote che se nei passati conflitti non fu di vantaggio immediato, fece pur sempre avanzare l’Italia verso la propria meta.
Fallite le speranze di quel memorabile anno, il Bichi è arrestato in Pietrasanta. Due giorni dopo vengono ordini da Firenze d’arrestare anche il fratello e di fare perquisizioni in casa Bichi; ma il di lui fratello non dormiva; fu trovato riparo a tutto, nè restò traccia di quanto mai poteva esser distrutto. Essendo dunque riuscita vana la perquisizione, il vicario regio, avvocato Cartoni, venne in disgrazia del governo e fu cacciato via dal suo posto perchè non fu abbastanza iniquo da violare più presto il domicilio di quella rispettabile famiglia. Intanto il cavalier Bichi fu tradotto a Pisa e quantunque nulla prova materiale fosse in mano di quegli ignobili processanti se non che una lettera già da lui scritta a Pisa, nondimeno egli fu condannato il 15 aprile 1851 a diciotto mesi di dura relegazione nell’allora mortifera maremma.
I bravi maremmani l’accolsero con ogni maniera di gentili riguardi e il relegato politico, mentre opponeva all’aria malsana tutte le resistenze somministrate dalla ricchezza, andava tentando il terreno, e non tardò molto ad avvedersi che in quegli ospitali petti v’erano sani germi di libertà; quindi con non pochi, e fedeli tutti, divise le sue speranze ed il suo culto della futura Italia.
Tornato al suo paese natale, e persuaso essere anche in quelle misere condizioni una sola la elevazione dell’uomo, dritto pensare e generoso sentire, e stimando debito suo il far pur sempre qualche cosa che si congiungesse in qualche modo all’avvenire della patria, volse l’animo ad affratellare la classe superiore coi figli del popolo, cogliendo e creando occasioni di fare andare in dileguo le distinzioni artificiali della vecchia società e d’imprimere tacitamente quanto più poteva impulsi a liberali idee.
Ma quel governo, che chiamava sempre più delitto tutto ciò ch’era al di fuori della sfera del suo egoismo, ricominciava il metro delle vessazioni d’ogni genere e mostrava spiegata ogni giorno la maladetta unghia dell’arbitrio. Per dare ai lettori un’idea dell’ostinazione con che il governo granducale assediava di tenacissimi sospetti il Bichi, trascriviamo uno squarcio di lettera riportata tra i documenti della polizia toscana che il Risorgimento pubblicò il 28 gennajo 1860 nel suo numero 16:
«Lettera riservata del sotto-ispettore di polizia di Pietrasanta del dì 11 maggio 1847 all’ispettore di Pisa:
«Un movimento straordinario nelle milizie di questa guarnigione ed alcune coincidenti circostanze estranee avvertite dalla polizia fecero supporre nelle ore pomeridiane di jeri che una qualche novità sovrastasse. Potè sapersi che il governo di Livorno aveva espressamente e con tutta riservatezza prevenuto questo comando di piazza che il principe Luigi Bonaparte, fuggito l’anno scorso dal castello di Ham, trovandosi attualmente in Corsica, tentava uno sbarco clandestino sul littorale toscano per penetrare nel seno d’Italia e convertire l’ordine attuale di cose.
«Per l’importanza di sì rilevante affare il Comando suddetto fece rinforzare i posti militari della costa marittima, e questa forza carabiniera a mia diligenza e, direzione fece un servizio di vigilanza intorno ad una villetta del conte Bichi, posta in marina, dalla quale era già partito un numeroso complotto di persone che poche ore prima si erano colà radunate. Questa riunione si ritenne per sospetta, considerando che il locale ov’ebbe luogo apparteneva al prefato conte Bichi, dimorante attualmente in Parigi ed uno de’ più esaltati in politica.»
Tanto era radicato nel governo granducale il timore che il Bichi non cessava dal minarlo che vegliava perfino le mura ove il relegato del 1831 aveva abitato. Fu dunque ventura il sottrarsi coll’esilio agli artigli di quel governo implacabile.
Entrato nella capitalo delle grandi rivoluzioni, il Bichi si diede a frequentare il collegio di Francia, cercando modo d’interessare quei sapienti politici a favore della derelitta Italia ch’egli veramente sapeva essere stata offesa da’ bugiardi ministri del re Luigi Filippo; ma visto, e pur troppo rivisto che nulla poteva Italia sperare dalla Francia d’allora, il Bichi si ritirò in una campagna, ove per qualche tempo non volle più col mondo politico altra conversazione che quella dei libri e dei giornali.
Nel 1848 il conte non volle affrettarsi a rientrare in Italia, e perchè col veder suo pugnavano i predicali frazionamenti, e sovratutto perchè non gli fu possibile il credere che un principe d’animo fiacco e tenacemente austriaco potesse mai trovar la forza di restar fedele al principio della rigenerazione italiana per qualsivoglia sacramento facesse. La forza morale non nasce per incanto di sacramenti. Eppoi in ogni caso sapeva trovarsi allora in sua vece in Pietrasanta il di lui fratello, forte sostenitore della sovranità del popolo, il quale infatti fu da due compartimenti, da quel di Pisa e da quel di Lucca, eletto rappresentante alla Costituente toscana, la quale come fu disciolta dovette anch’egli prendere la spinosa via dell’esilio.
Nel 1851 inesorabili affari di famiglia ricondussero il cavaliere Gaetano in Pietrasanta, il quale però, sapendosi in odio del governo, e desiderando non divenir causa di molestie ad alcuno de’ suoi conterranei, s ricoverò nelle sue terre di Motrone, traendo materi di occupazione dall’orticoltura, e consacrando i suoi risparmi a sovvenire amicalmente i profughi che nel loro escire di Toscana andavano traversando Motrone per recarsi nel libero Piemonte. Ma quell’insensato governo non seppe rispettare neppure la solitudine sacra a pacifiche cure. A guisa di ladri notturni i gendarmi granducali invasero più volte il campestre domicilio del Bichi, e così vessanti erano le perquisizioni che dall’abitazione del proprietario si diffondevano insolenti nelle casette dei di lui contadini.
Oh certo non fa meraviglia se le provincie d’Italia hanno così profondamente unanimi invocalo, come oggi Venezia e Roma invocano impazienti, quel nome in cui sta la salute di tulle e di tutti, il nome del Re galantuomo!
Nel 1859 gli elettori di Pietrasanta, memori dei patimenti, dei sacrifici, e della costanza del Bichi, lo scelsero colla più nobile spontaneità, e con manifesta allegrezza di tutta la popolazione a loro rappresentante a quella reverenda Assemblea che sovranamente e legittimamente decise dei destini della Toscana. Amato dal popolo e suo deputato, ebbe profondamente a cuore la pubblica tranquillità, nè torse mai l’animo dalla missione consigliatagli dal suo ben inteso patriotismo. Perciò con affettuosa vigilanza si studiò di far sentire il gran dono delle pubbliche libertà a coloro che parevano meno pronti ad apprezzarle, mentre dalla parte dei troppo ardenti si adoperava con aperta benevolenza perchè sconsigliati impeti non si sbrigliassero e non facessero ingiuria al loro stesso amore della conquistata libertà.
Un gran bisogno nel cuore del deputato era che il gran concetto dell’annessione, che molta parte era dell’anima sua e che i suoi elettori avevano gagliardamente inteso, entrasse pur anco nelle campagne, e si svolgesse, come poco a poco si andò svolgendo, nel cervello di quasi tutti i suoi rappresentanti. Potentissima leva da muovere più presto il contado a generose italiane idee gli parve la sottoscrizione per il milione di fucili proposta dall’illustre generale Garibaldi, e non solo se ne valse felicemente subito nelle campagne della Versilia, ma, come troviamo nel Secolo, giornale di Firenze, a’ 27 ottobre del 1859 il Bichi fu il primo ad aprire quella sottoscrizione ed a popolarizzarla in Toscana.
Egli porse mano amica ai volontari e con quanta cordialità ognuno l’intende. Pochi sono i paesi che proporzionalmente alla popolazione abbiano dati tanti volontari quanti ne ha dati la liberale Pietrasanta. Qui ne piace ricordare col Monitore toscano dei 21 dicembre 1859 che il Bichi primo offrì un premio per animare vieppiù l’istituzione del tiro a segno, istituzione che potrà essere un giorno di gran giovamento all’Italia.
Il cavaliere Gaetano si dilettò di poesia dalla sua prima gioventù; il diploma col quale l’Arcadia il dichiarò socio della sua accademia porta la data del 1829. Abbiamo pure sott’occhio una di lui traduzione, stampata in Firenze, d’un poemetto sulla conquista di Costantina che suo fratello, dimorando in Francia, scrisse nella lingua di quella nazione. Mentre andiamo d’accordo coi valenti uomini che già pregiarono il verseggiare pieno di movimento e di forza del cavaliere Gaetano, non possiamo non esprimere il nostro rammarico che le sempre pronte perquisizioni, i sospetti implacabili e le conseguenti angustie della vita lo abbiano disgustato e distolto dai legali suoi studi.
Dopo l’immenso fatto dell’annessione della Toscana, il distretto di Pietrasanta lo inviò deputato al Parlamento italiano, ove, assiduo negli uffici, fu nominato in quasi tutte le commissioni per l’esame di leggi che riguardano le province toscane. S. M. il Re lo ha insignito della croce di cavaliere dell’ordine Mauriziano.
Nel corrente anno 1861, il distretto di Pietrasanta, quantunque ampliato di Camajore e di Viareggio, lo volle e con saldo efficace volere per la terza volta suo rappresentante, rieleggendolo deputato al Parlamento del regno d’Italia.