< Il Parlamento del Regno d'Italia
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Giuseppe Toscanelli Luigi Carlo Farini
Questo testo fa parte della serie Il Parlamento del Regno d'Italia


Giacomo Durando.



Questo illustre patriota trasse i natali a Mondovì nel 1807 da onorati parenti.

Non possiamo trattenerci di cedere subito la penna all’onorevole generale per lasciargli dipingere la sua fanciullezza e dire come, vedendo un vecchio scudo in famiglia col motto Durantes vincunt, ei si proponesse di farne sua divisa e stimolo a divenire qualche cosa di non comune.

«Eravamo cinque fratelli (così scrive Giacomo Durando in alcune sue memorie). Mio padre e mia madre avevano già distribuite le parti a ciascuno. Erano i bei tempi della ristorazione del 1815: uno doveva essere procuratore per succedere al padre, e lo fu, previe alquante seccature; un altro doveva essere di rigore prete o frate; e tale fu Marco, ora visitatore generale della Missione in Torino, esempio del clero regolare, rispettabilissimo per ogni lato. Ci volea parimente un militare, e fu Giovanni, attualmente generale d’armata. Del quarto-genito, finalmente, ch’era io, non poteva farsene altro che un avvocato. Destinato in pectore agli onori della laurea, poichè m’ebbero esperimentato alquanto discoletto in casa e pochissimo studioso della prosodia latina, mi mandarono al collegio dei Preti della Missione in Savona. Quivi mutai vita e costumi. Mi diedi fervoroso agli studi, divenni senza rivalità il primo in tutto; a me gli onori delle ovazioni in certe solennità religiose; a me le preferenze; a me le dolcezze di qualche libertà, negata ad altri: era insomma un piccolo personaggio.

«Tutti dicevano che io promettea molto; scriveva versi in italiano discretamente; ebbi gli onori di essere ascritto in un’Arcadia, che chiamavano Chiabreresca; negli studi filosofici, specialmente nella parte metafisica e morale, sostenea bene una tesi pubblica, infine, mi faceva largo. Quei buoni padri mi careggiavano, e speravano forse che io mi sarei col tempo ascritto alla loro Società. Ne ebbi un momento la tentazione, ma fu di breve durata. Sentiva fortemente, era dotato di vivissima immaginazione sotto un’apparenza fredda; aveva divorato notte e giorno Dante, Monti, Cesarotti e Foscolo; il sentimento italiano s’era creato e sviluppato in me potentemente a queste letture assidue ed efficaci. Provava una vaga, indefinibile ambizione di fare, o di tentare almeno, qualche cosa di utile e di grande per la mia patria. Chiaro è quindi che l’idea di chiudermi in chiostro non potea molto sedurmi.»

L’amore, se mai gli fosse rimasta qualche esitanza in proposito, non tardò a fargli abbandonare ogni pensiero di clausura fratesca, e crediamo prezzo dell’opera riprodurre dalle memorie succitate l’avventura che valse a porre un termine alla sua vita di collegiale e a disingannare crudelmente i buoni padri che speravano fargli indossar la cocolla.

«Un primo amore verso una gentildonna che avea conosciuta in paese, mi trasse a qualche ragazzata. Avevamo concertato una combriccola di tre o quattro compagni, fra cui ricordo il deputato avvocato Airenti; ciascuno di noi aveva il suo primo amoretto, ci ajutavamo a vicenda di notte per scalare le mura del giardino del collegio e andavamo a sospirare innocentemente e platonicamente sulle rive del porto sotto le finestre del nostro adorato tormento, come dicevamo metastasiamente, e ritornavamo con mille stratagemmi a rintanarci in collegio. La faceta tresca durò qualche mese. Alcuno di noi aveva preso sul serio queste avventure notturne; ci parea d’essere altrettanti Werther, altrettanti Ortis. Un mio compagno si volea suicidare, un altro parlava di rapire l’amata; io scarabocchiava a furia lettere, romanzetti, o abbozzi di drammi. Vere fanciullaggini; quanto al suicidarmi, non credo avere mai spinto il mio amore fino a questo punto.

«Queste avventure ci avevano resi indisciplinati. Io sosteneva nelle scuole certe opinioni piuttosto ardite, battagliava con tutto il mondo, non so più per qual sistema di metafisica, quindi venni in sospetto de’ miei superiori. Fui spiato, denunziato anche da un invidioso della mia incontrastabile supremazia in lettere e filosofia. Comunque sia, venne il dì della catastrofe.

«Fui un bel giorno avvertito che il comandante della città, il conte Pallieri, padre dell’attuale consigliere di Stato, mi chiamava. V’andai, sperando esservi qualche buona notizia per me del Piemonte, giacchè era sul termine dei miei studi. Ma era ben altra cosa. Il terribile comandante, dopo avermi ben bene squadrato, forse credendo di trovare in me qualche cosa di straordinariamente facinoroso, e trovatomi di aspetto avvenente, di carattere dolce, si rabbonì immediatamente, e mi andò con garbo rimproverando delle mie opinioni politiche e filosofiche, meravigliando come così giovine fossi divenuto una pietra di scandalo per tutto il collegio. Io non potea, nè sapea giustificarmi; venni dunque consegnato a un buon carabiniere che mi ricondusse a Mondovì.»

Il padre inviollo a studiare legge all’università di Torino, ma egli, invece di stillarsi il cervello ad apprendere le discipline legali, per le quali si sentiva un’insuperabile repugnanza, assisteva colla più grande puntualità alle lezioni del celebre professore di letteratura Manera, di cui parla come segue nelle sue memorie:

«Sembra che questo distinto professore avesse mandato secreto di raccogliere intorno a sè l’eletta della gioventù piemontese. Nell’anfiteatro anatomico di Torino dava le sue lezioni spiegando Dante, a cui accorrevano tutti gli studenti di letteratura. Vi erano allora Brofferio, che poi volò come aquila sugli altri, Basilico, Aprati, Montanari, Bianchini, Mattirolo, De Bager, Marenco, ed altri che non rammento. II gesuita, fattomi chiamare a sè, voleva assolutamente che io prendessi parte a quelle giostre accademiche. Mi scusai, rincalzò nuovamente; tenni fermo. Io provava una ripugnanza invincibile ad esordire nella carriera letteraria, politica o legale sotto la protezione, tuttochè benevola e certamente proficua, di un gesuita. V’era forse un po’ di pregiudizio e di orgoglio; comunque, ho resistito alle seduzioni, ed allora ci voleva un po’ di coraggio.»

Poco più tardi il Durando si legava in intima amicizia col Brofferio, col quale doveva poi prender parte attiva alle cospirazioni politiche, che cagionarono i moti del 1831.

«Nel 1826, così egli narra, seguitando io materialmente i miei studi legali, con un’indicibile svogliatezza, frequentando poco le scuole, moltissimo i teatri e gl’inevitabili portici di Po, mi avvenne di stringere relazione di amicizia con Angelo Brofferio. Egli era allora alla moda; aveva allora terminati i suoi studi all’università, aveva scritto drammi, commedie, tragedie, poesie liriche; applaudito nei teatri, nei convegni, nelle accademie, era popolare, amatissimo, invidiato, corteggiato; era insomma un uomo d’importanza relativa, rispetto ai tempi e alle circostanze.

Convenivamo insieme in casa della Gaetana Rosa, spiritosa artista della real compagnia, e della celebre Carlotta Marchionni.

«Gl’istinti liberali ed italiani del Brofferio consuonavano coi miei. Non dee dunque maravigliare se nel 1830, quando scoppiava la rivoluzione francese, ci siamo trovati insieme nell’ardua e perigliosa via delle cospirazioni.

«Venuta quell’epoca, non esitai ad associarmi col Brofferio e qualche altro nell’intento di redimere il nostro paese sotto il vessillo della libertà e dell’indipendenza. Eravamo pochissimi, ma speravamo, e così fu infatti, moltiplicarci mercè di segrete propagande di scritti e di ordinate associazioni.

«Voglio qui registrare i nomi di questi coraggiosi promovitori, o per dir meglio, continuatori di quei liberali del 1821 che, primi, diedero l’esempio del sacrifizio. Non me ne lagno, ma neanche credo dovermi recare ad onta d’essere stato anch’io nella schiera degl’iniziatori della libertà italiana.

Eccone alcuni, e sono dolente di non ricordarli tutti: Giuseppe Bersani, dottor Balestra, dottor Sisto Anfossi, avvocato Angelo Brofferio, Giacomo Durando, Giovanni Durando, marchese Massimo di Montezemolo, conte San Gregory, Michelangelo Castelli, Giacomo Peyrone, Ignazio Ribolli, Destefanis, Levancis, Nolta, Paolo Soldi, Clerici, Carlo Gazzera, Alessandro Massimini, Giuseppe Garberaglio, Odoardo Ferrua, Massimiliano Aprati, conte San Giorgio, ed altri che ora non ricordo. A questi s’aggiunsero altri nomi destinati al potere, come Cadorna, Merlo, Pinelli e Vincenzo Gioberti.

«Errò chi scrisse che quest’associazione era ordita da Giuseppe Mazzini come preludio alla Giovine Italia. Nessuno degli uomini citati aveva relazioni personali con Mazzini, di cui il nome era allora sconosciuto. Mazzini, se non erro, iniziò in Isvizzera, sullo scorcio del 1833, i suoi lavori politici e la sua propaganda. Noi non avevamo nè principi nè tendenze repubblicane; volevamo libertà costituzionale, e possibilmente l’indipendenza d’Italia. Brofferio stesso, il più avanzato tra noi tutti, non repubblicaneggiava più di qualunque altro. Impastati di idee greche o romane, noi non avemmo campo a formulare positivamente un programma di governo. Volevamo cambiare lo Stato, ma ben non sapevamo in qual modo. Andavamo raccozzando qua e là uomini e cose finchè l’opportunità si presentasse. A ciascuno il fatto suo. Mazzini spiegò ricisamente la sua bandiera nel 1832 o 1855 in Marsiglia, dopo la nostra iniziativa in Torino.

«Dettai un indirizzo al re, che fu discusso ed accettato dalla direzione superiore e stampato occultamente da Giuseppe Pomba. Diffuso quello scritto per tutto il Piemonte, svegliò negli spiriti esterrefatti una incredibile commozione; fu la prima bomba dopo un silenzio decenne. Si credette all’esistenza di una potente Società; si sgomentò il Governo e s’incominciò a credere che potesse esser turbata la pace sepolcrale del paese.

«Sollevaronsi in questo Modena, Parma e Bologna; noi procedevamo a gonfie vele; sul finire del 1831 il Piemonte era certamente in grado di levarsi in armi, in soccorso dei fratelli, ove la Francia non avesse mancato al solenne principio da lei bandito di non intervento, e l’Italia centrale avesse potuto sostenersi.

«La nostra congiura poneva salde radici, si allargava prodigiosamente, e già si pensava ad operare allorchè . . . . . . »

Qui il Brofferio, al quale noi prendiamo in prestito i brani principali di queste memorie del Durando, descrive egli stesso, egli principalissimo attore, le peripezie di quel dramma; noi gli cediamo di buon animo la parola.

«Eravamo nella primavera, e correva la notte del sabato santo, allorchè, verso le ore undici, dopo di aver passata la sera in casa Caldani, io mi restituiva a casa. Il Colonnello Bordino, mio ottimo amico, mi accompagnava fino alla porta della via, e dicendo — A rivederci a domani — mi stringeva la mano e mi augurava la buona notte. Quale soprastasse il domani, nè Bordino, nè io potevamo indovinare. Ora lo apprenderanno i lettori.

«Salgo la scala, suono il campanello, odo il romore d’un passo sconosciuto, e mi viene aperto l’uscio col lume in mano, non dal solito cameriere, ma da un gendarme.

«Comprendo in un baleno ogni cosa, tento di evadermi, tornando sui miei passi e mi vedo alle spalle due altri gendarmi che di soppiatto mi avevano seguitato. Costretto a retrocedere, sono condotto nello studio, dove il commissario Gay, con due agenti di polizia, faceva una minuta perquisizione.

«All’ingrato officio era presente mio padre, il quale, già prima insospettito delle trame nostre, benchè pieno di sconforto, si conteneva assai dignitosamente. Io mostrai viso franco e parlai con disinvoltura; ma il cuore mi balzava e il pensiero dell’angoscia di mia madre, che io non vedeva, mi turbava più di ogni cosa. Pure io sperava ancora che tutto sarebbe terminato con una semplice perquisizione. In casa io non aveva nè armi, nè carte; nessuna traccia di congiura si poteva raccogliere presso dime, nè sulla mia persona; di mano in mano che le ricerche della polizia rimanevano deluse, io ripigliava coraggio, e le mie parole suonavano irridenti.

«Erano le due dopo mezzanotte, allorchè, dopo aver messo sossopra tutto lo studio, il commissario diceva: — Signor avvocato, ci conduca ora nella sua camera da letto.

«Padronissimi, io risposi, e li precedetti con passo fermo.

«— Signor Novarino, soggiunse il commissario, volgendosi al brigadiere che comandava i tre o quattro carabinieri entrati in casa, ci segua anch’ella.

«E il brigadiere, fatto cenno a due carabinieri, ci tenne dietro. Il pronostico non poteva essere più sinistro. Passando, mi apparve mia madre, muta, immota, pallida, fra le mie sorelle. La povera donna mi vide passare coi carabinieri, senza batter palpebra. Quel silenzio mi piombava sull’anima.

«Si ripetè nella mia camera la stessa minuziosa perquisizione fatta nello studio, e come quella, riuscì inutile pur questa.

«Quando tutto fu compiuto, mio padre ed io ci guardammo in viso senza parlare. Ognuno di noi comprendeva che quel momento era supremo. Il commissario Gay legava con una cordicella alcune carte insignificanti da lui sequestrate, con lenta calma le suggellava, poi consegnavale ad alcuno de’ suoi agenti. Mio padre ed io ci guardavamo sempre senza far motto.

«Consegnate le carte, il commissario si volse di nuovo al brigadiere Novarino con queste parole: Signor brigadiere, il mio dovere è fatto, ora ella faccia il suo. Novarino mi pose le manette. — Ora, diss’egli, venga con noi.

«Che cosa dicesse e facesse mio padre, io non udii e non vidi; ben vidi e udii uno scoppio di pianto della mia madre nella dischiusa camera, che mi percosse di acerbo spasimo. Volli motteggiare, volli fare il disinvolto, volli ridere.... Misere ostentazioni da fanciullo!

«Nei regi proclami, ai rivoluzionari si prometteva il patibolo, e Carlo Felice quando faceva di queste promesse non mancava mai di parola. Era anch’egli, alla sua foggia, un re galantuomo.»

Torniamo ora alle memorie del Durando per sapere come fosse che la cospirazione venisse scoperta e quali conseguenze ne derivassero pel nostro protagonista.

«Un fortuito incidente, prosegue a dire il Durando, ruppe la tela. Fu dimenticato in un albergo del Colle di Tenda, da un ufficiale dei nostri che si recava a Nizza per farvi la propaganda, un portafogli con alcuni proclami e alcuni nomi. La polizia arrestò immediatamente tre ufficiali del reggimento Piemonte a Genova, cioè Ribotti, Levaneis e Destefanis. Contemporaneamente si arrestava in Torino Angelo Brofferio, Giuseppe Bersani e il dottor Balestra. S’iniziò ab irato un processo sotto l’alta direzione del conte Cimella, che minacciava di concludersi luttuosamente, tanto più che Parma, Modena e Romagna deponevano le armi. I carcerati erano tutti giovani, quasi tutti inesperti delle reti fiscali, e potevasi temere che si lasciassero strappare qualche motto, qualche cenno, qualche indizio, da autorizzare nuovi arresti e nuove persecuzioni. Durante tutto il mese di aprile e maggio 1831 menai una vita d’ansietà e di tribolazioni. Non dormiva in casa, cangiava spesso domicilio, mi refugiava or qua, or là, sempre adocchiato da innumerevole turba di spie; ebbi ospitalità in un convento, e talora anche nella reggia presso una stretta congiunta del Bersani. Mi toccava poi confortare ora la famiglia desolata del Brofferio, ora le famiglie degli altri detenuti. Questa situazione si aggravava di giorno in giorno. Sul finire di aprile mi venne fatta una lunga perquisizione. Fui sorpreso di nottetempo in letto; si rovistarono durante quattro o cinque ore le mie carte, i miei libri. Solo mi tolsero una corrispondenza anonima, proveniente da Chieri, dove qualche giorno prima era stato un tafferuglio fra operai, al quale si volle naturalmente attribuir colore politico. Il bravo commissario s’immaginò aver fatto una grande scoperta e mi lasciò fregandosi le mani dalla gioja. Disgraziato! erano lettere di una prima donna del teatruccio di quella città. Credei a tutta prima che sarei tradotto in carcere; ma il commissario si limitò ad ammonirmi con queste parole: Ella può pensare ciò che vuole, ma non più in là. Così ci facevano grazia allora della libertà del pensare.

«Vissi ancora nell’incertezza durante un mese, finchè ebbi avviso che il mandato d’arresto non tarderebbe ad essere spiccato. Eravamo sul finire di maggio dello stesso anno 1851. Mi diressi verso Vercelli, Borgo Ticino, Sesto Colende. Quivi il capitano svizzero d’un vapore che faceva allora il servizio del lago, mi nascose per sottrarmi alle solite visite dei gendarmi austriaci e mi condusse a Magadino. Al romore del mio tentato arresto e della mia fuga, alcuni miei amici credettero giunto il tempo di allontanarsi. Massimo di Montezemolo riparò in Francia per Grenoble. Il dottor Anfossi pel Lago Maggiore in Isvizzera, altri per altra via. Mio fratello Giovanni rimase in Alessandria al reggimento Cuneo, di cui era tenente. Nondimeno tre mesi dopo venne destituito e si ritrasse nel Belgio.

«Il processo si conchiuse senza lutti. Venuto al trono Carlo Alberto, non volle sull’esordio mostrarsi severo con giovani, di cui in segreto professava egli stesso le opinioni; ma non seppe arrendersi, per motivi speciali, a graziare anche il Bersani, che venne destinato a sette anni di detenzione a Fenestrelle. Tutti gli altri vennero rilasciati. Molte dicerie si sparsero a quell’epoca su questo processo e sui motivi che determinarono il governo a troncarne il corso. Non mancò forse qualche debolezza, qualche imprudenza, o più probabilmente, qualche giovanile ingenuità in alcuno dei detenuti, e ncppur questo potrei affermare. Certo è che, usciti di carcere, perdurarono tutti virilmente nelle vie generose che avevano prima calcale; tutti furono perseguiti, astiati, sorvegliati dalla polizia; nessuno ebbe favori o protezioni dal governo; tutti sostennero più o meno disagiatamente la vita e si portarono degnamente.»

Il Durando si trattenne poco in Isvizzera, e disperando di poter così facilmente e così presto essere utile all’Italia rimanendosi in patria, si recò nel Belgio, ove prese servigio in quella legione straniera, comandata in capo da Achille Murat. Ma entrati i Francesi a soccorso della rivoluzione belgica, la legione fu sciolta, e Durando passò a far parte di altra che si organizzava per combattere in favore di Don Pedro nel Portogallo. In quella legione, Giacomo Durando ebbe grado di tenente, ma poco mancò non perisse nel tragitto da Ostenda alle coste Lusitane.

Si oda la descrizione ch’ei fa nelle sue memorie di quel fortunato viaggio.

«Il legno che ci portava era uno dei primi piroscafi che si adoperassero a questo tragitto. La traversata non doveva protrarsi al di là di cinque o sei giorni. Dopo il primo giorno si manifestò a bordo il cholèra morbus. Nessuno aveva cognizione di questa malattia e non sapevamo spiegarci come mai vi si fosse potuto infiltrare. Fino allora non si era parlato di questo malanno che in Polonia, e presumo che nello sfacelo di quel paese qualche profugo la portasse latente nel Belgio, dove si diffuse nelle nostre truppe.

«Questo fatale incidente minacciò di farci perire a bordo tutti quanti, e così sarebbe stato se il viaggio si fosse protratto ancora di qualche giorno. Toccammo finalmente le foci del Douro, dopo aver perduto una trentina d’uomini, con altrettanti malati a bordo. La città d’Oporto era compiutamente bloccata dall’armata Miguelista; i settemila uomini che l’occupavano sotto gli ordini di Don Pedro, appena bastavano a tutelarne una parte; le comunicazioni col mare difficilissime: i viveri scarseggiavano. Era un’orrenda vista quella dei nostri colerici, discesi a stento nelle piccole barche dei Portoghesi. Mi ricordo che quei marinari spaventati si rifiutavano di accoglierci e si dovette minacciare di far uso della forza.»

In seguito il chiaro scrittore ci fa una descrizione, delle più tetre, dello stato in cui trovò gl’italiani che l’avevano preceduto, e dice:

«Dei primi a giungere fu Massimo di Montezemolo, ma ohimè! in qual misero stato! Tutti gli officiali di Don Pedro vestivano laceri panni e distinguevansi appena dai gregari, portando una specie di sciarpa rossa. Le fatiche dell’assedio, la mancanza di soldi regolari, il vitto scarso, spiegavano le cause della loro compassionevole condizione.

«L’aspetto e le narrazioni che ci faceva Montezemolo dello stato delle cose, era tale da dileguare ogni illusione. Appena sbarcati, fummo salutati dalle cannonate; si dovette sostenere un combattimento coi Miguelisti per proteggere il nostro sbarco, e durante tutto quell’anno, più o meno, ci vedemmo sempre esposti ai colpi delle artiglierie nemiche, le quali ci serravano da ogni lato.»

Il nostro protagonista ebbe grado di capitano nella legione straniera e comandò una compagnia di Italiani. Nella stessa legione ricorderemo che militava il fratello Giovanni, col grado di maggiore, Cucchiari col grado di sergente ed Enrico Cialdini semplice soldato.

Terminata la guerra del Portogallo, nelle varie fazioni della quale i due fratelli Durando grandemente si distinsero riportando varie ferite, essi passarono al servizio della regina Maria Cristina nel reggimento Cacciatori d’Oporto, composto tutto d’italiani, ove s’ebbero Giovanni il grado di tenente-colonnello e Giacomo di maggiore.

Noi non seguiremo il personaggio della cui vita riandiamo gli avvenimenti in tutte le vicissitudini per le quali ebbe a passare durante il tempo in cui combattè quell’accanita guerra civile che insanguinò per tanti anni la Spagna. Ci basti sapere che all’ultimo, avendo seguite le sorti del generale Espartero, concorse alla difesa che si fece a Madrid contro Narvaez, e dopo la perdita della capitale e di quasi tutto il regno, dopo l’espulsione d’Espartero, si recò nel 1843 a Saragozza, ove fatte le ultime resistenze, capitolò e si refugiò in Francia, ove visse fino al marzo del 1844, pubblicando poscia un opuscolo politico che sembrerebbe scritto pei nostri giorni; se ne giudichi dal solo titolo: De la rèunion de la peninsule Iberique par une alliance entro les dynasties d’Espagne et de Portugal L’alleanza dinastica eccettuata, quella riunione non sarebbe ella delle più desiderabili oggidì?

Poco tempo dopo, vedendo che la guerra che si guerreggiava ancora in Ispagna non era di tal natura da comportare che un onorato ufficiai di fortuna vi prendesse parte, e il desiderio di rivedere la patria ardentemente facendosi sentire, il Durando rientrò in Piemonte, ove fu salutato colla più affettuosa premura dai suoi amici e parenti. Poco rimasto in Torino, si condusse a Mondovì, ove compose un libro ch’ebbe non poca importanza e che venne letto, in quei tempi, con moltissima avidità da coloro cui stava a cuore il risorgimento della patria; vogliam dire il suo volume intitolato la Nazionalità Italiana.

E qui ne giova aver di nuovo ricorso alle memorie del nostro protagonista per udire da lui qual fosse lo scopo pel quale egli lo aveva scritto e quali speranze e quali convincimenti glielo avessero dettato.

«Ritrattomi alla villa paterna di Mezzavia, presso Mondovì, in casa di mio fratello Giuseppe, percosso anch’egli dalle ire governative, posi mano al libro della Nazionalità Italiana. Già dissi come io mi rimanessi, nei tredici anni trascorsi, quasi estraneo alla vita intellettuale e sociale d’Italia. Era cosa temeraria accingermi a pubblicazioni politiche, non tanto dal lato delle difficoltà pressochè insuperabili per farsi legger da molti, ed anche da pochi, ma perchè mi difettavano la dottrina e lo stile, che tanto ajuta le cose mediocri e fa anche tollerare le cattive. Ad ogni modo, nel lungo vaneggiare dell’esiglio, io aveva la mente zeppa d’idee vaghe, informi, ma che pur sentiva giuste ed atte a fissare in un’opinione concorde le secolari discordie degl’Italiani.

«Nelle eterne marce e contromarce dall’Aragona in Castiglia, da Castiglia in Catalogna o a Valenza, io andava ruminando il gran problema d’Italia, e sovente mi addentrava in queste meditazioni così profondamente, che, benchè camminassi alla testa del mio reggimento, in paese dove lo scostarsene valeva esser preso e fucilato immediatamente dai faziosi, mi accadeva talvolta di avanzarmi solo e dimenticare il reggimento, e fuorviarmi in una specie di sonnambulismo politico. Di queste distrazioni ridevano molto mio fratello Giovanni, Cialdini, Fanti, Ribotti, Cucchiari, Fabrizi, Ardoino, e le attribuivano a mal capitati amori. Comunque sia, quando tornai in Torino, mi trovai con un capitale assai grosso di pensieri, di sistemi, di elucubrazioni politiche sulle condizioni italiane.

«Mi vennero allora per le mani due volumi del Primato degli Italiani di Gioberti, le Speranze d’Italia di Cesare Balbo, nomi che mi erano adatto nuovi. Conosceva le pubblicazioni di Giuseppe Mazzini.

«Questi tre scrittori, a cui più tardi s’aggiunse Massimo d’Azeglio e pochi altri, formavano il nucleo dei pensatori che per vie diverse tendevano a creare in Italia un centro d’opinioni, intorno a cui raccogliessero le masse ondeggianti degl’Italiani.

«Divorai con passione tutti quei libri e restai sbalordito come, malgrado tanta magnificenza di stile, di dottrina, di eloquenza, di patriotismo, nessuno di tutti questi illustri uomini, a mio credere, avesse dato nel segno. Mi trovai profondamente umiliato. Io non potea supporre che tutti traviassero e che io solo vedessi chiaro in tanta anarchia di tendenze, in tanto antagonismo d’opinioni.

«Io non concordava con Mazzini, che aspirava all’unità assoluta e immediata d’Italia col sistema repubblicano. — Io pensava che bisognava andare all’unità passando prima pel sistema dell’unificazione progressiva, il cui maximum fissava in mia mente a due Italie in capo alle due dinastie più potenti, con Roma governata municipalmente nel mezzo. All’unità assoluta penserebbero i figli.

«Io dissentiva da Gioberti in ciò, che, reputando il passato un’istituzione esclusivamente cattolica, io non volea che si frammischiasse al nostro risorgimento. Io faceva astrazione dal papato; egli lo proponea come perno del nostro futuro edifizio. Egli volea confederazione; io volea la massima unificazione possibile. V’era quasi tanta divergenza fra il mio modo d’esaminar la questione e quello di Gioberti, quanto tra me e Mazzini.

«Cesare Balbo per giungere alla nostra indipendenza facea buon mercato provvisorio della libertà, quantunque fosse essenzialmente liberale; volea confederazione, credea all’onnipotenza del municipalismo; io offriva rimedio unico la libertà: ben inteso senza confederazione, ma con moto successivo unificante della monarchia.

«Allora non conosceva personalmente Gioberti e Balbo e non teneva conto delle dure necessità che pesavano sugli scrittori, che per esser letti dovevano mascherarsi, o travestirsi, od andar tortuosi. Avvezzo a dir alto i miei pensieri, non sapea capacitarmi che si. potessero scrivere dei volumi lasciando al benigno lettore la cura d’interpretarli ed applicarli in un senso diverso dallo scritto.

«Io mi trovava quindi fuori della via che con tanto splendore e tanta popolarità calcavano i miei predecessori. Era veramente annientato in faccia ad essi. Eppure io sentiva dentro di me ch’essi erano tutti nel falso sentiero; che tenendo lor dietro, era impossibile il far l’Italia; tutto al più, si teneva acceso il fuoco sacro, si rinvigoriva lo spirito pubblico, s’incoraggiavano i Principi, se ve n’era alcuno accessibile a buone inspirazioni, nelle sane tendenze. Era questo al certo un gran risultato; ma dovea necessariamente produrre una spaventosa confusione d’idee, che avrebbe infallantemente paralizzalo il primo molo nazionale. Il 1818 venne a provarlo.

«Io volli accingermi a battere una via opposta. Aveva interamente fede nei destini di Casa Savoja, dico di più, indovinava nel mio segreto gl’istinti certamente italiani di Carlo Alberto e la sua inevitabile adesione ai principi liberali. Tutto quel libro fu il frutto della mia profonda convinzione a questo riguardo. Proclamai dunque, come grande principio unificatore della nostra nazionalità, la Monarchia, e ciò contro Mazzini che alzava la bandiera opposta. Dichiarai essere il Papato l’elemento precipuo delle nostre passate divisioni, e l’ostacolo maggiore al nostro risorgimento futuro, e ciò contro Gioberti,, che n’avea fatto il perno del suo sistema. Salutai anzi tutto ed altamente la libertà, come il mezzo più polente di forza e d’influenza per cacciar l’Austria d’Italia: e ciò contro Balbo, che volea prima di tutto l’indipendenza e più tardi la libertà.

«Con tali principj, con tali sentimenti, io diedi mano a quella pubblicazione e vi lavorai instancabilmente durante tutto l’anno 1845. Ben può ciascuno immaginarsi qual fatica improba mi abbia costato lo studiare un poco la storia nostra d’Italia, di cui aveva una leggera tinta, per difetto, credo, di libri acconci, il formarmi uno stile, se non elegante, almeno non troppo dimesso e trascurato, e finalmente coordinare una congerie enorme di note, di pensieri, di sistemi; in una materia quasi nuova, non per lo scopo, ma per le forme pratiche ed attuabili che intendeva di darle. Io voleva scrivere per gli uomini di Stato e non per gli accademici.

«Volea penetrare nella mente di Carlo Alberto ed esercitarvi una specie di pressioue, onde svolgere in lui quei sentimenti italiani e liberali che io presentiva latenti. Si vedrà come, in parte, venni a capo del mio pensiero.

«Colla mia valigia piena zeppa di manoscritti, di memorie e leggerissima di denaro, mi avviai in febbrajo del 1845 a Parigi. La mia fortuna personale era tutta perduta nella Spagna; perfino qualche capitaletto raggranellato a stento sui miei crediti col governo, sciupavasi da certi faccendieri industriali che vennero in Ispagna a sfruttarsi la credulità pubblica e le economie di noi poveri militari. Mi era rimasta una pensione del Portogallo di franchi 1500, un altro migliajo del retaggio paterno; e così doveva vivere in Parigi con grande parsimonia.

«Ritrovai in Francia il dottore Anfossi, che più non aveva veduto dal 1831; il Zaccheroni, che da Marsiglia sfrattato con me, s’era ricoverato a Parigi; conobbi Gioberti, Massari, Ferrari; ma il circolo delle mie relazioni era ristrettissimo; v’erano pure gli emigrati spagnuoli che avevano seguito Espartero, e con essi alcuni miei vecchi amici. Passai la vita studiando, riformando, correggendo; in luglio del 1846 pubblicai il mio libro; potei, a dura pena, trovare uno stampatore anticipando danari; e mi ricordo che dovetti in quel tempo impegnare tutte le mie decorazioni di Spagna e Portogallo onde ritrarne una somma per le prime spese.

«Per dir vero, sembrava troppo lusingarmi che uno scritto, il quale recisamente, senza frasi, senza anfibologia, annunziava un compiuto sistema politico-militare per cacciar l’Austria dall’Italia, potesse esser gradito ad un governo il quale timidamente e quasi di contrabbando movea i primi incerti passi nella via della libertà e della nazionalità italiana. Pio IX cominciava a tentennare. Crebbero allora gli allarmi dell’Austria; crebbero le ire contro i liberali; crebbero le minaccie degli uni, le oscillazioni degli altri; fatto è che appena giunse il mio libro a Torino, ricevetti un bigliettino del marchese Brignole, nostro ambasciatore alla corte di Parigi, col quale l’illustre patrizio mi significava, con modi cortesissimi, che in seguito a quella pubblicazione io non dovessi più ritornare in patria.

«Mi rassegnai, non aveva più che fare a Parigi; pensai ritornare in Ispagna, ove si erano smesse le persecuzioni contro gli Esparteristi, e quivi rimanere fino a che miglior fortuna arridesse alla patria mia!»

Ma ormai erano quelli gli ultimi sforzi della reazione. Re Carlo Alberto non tardava a concedere le franchigie costituzionali al Piemonte e il Durando poteva farvi ritorno e prender parte attiva agli avvenimenti importanti che vi si preparavano.

Egli fu che fondò il giornale l’Opinione, che non può contestarsi aver reso e render tuttora grandi servigi alla causa nazionale; egli fu che, deponendo anche una volta la penna per la spada, consentiva di buon animo, aderendo alle istanze del governo provvisorio di Milano e d’accordo con Cesare Balbo presidente del consiglio dei ministri, di andare a porsi alla lesta dei volontari, con grado di generale, al Caffaro, sull’estrema frontiera tra Brescia e il Tirolo.

E qui, per dare un’idea di quanto facesse in quell’occasione il nostro protagonista a pro della patria, lasciamo parlare il Brofferio, uno de’ suoi migliori e più vecchi amici:

«Nel comune d’Anfo, in prossimità della Rocca, così si esprime il valente scrittore, il Generale stabilì l’ambulanza, i magazzini dei viveri e poco stante il suo quartier generale. I soldati di Durando essendo tutti volontari, sua prima cura fu quella di ordinarli, istruirli, disciplinarli.

«A quella gioventù, che in pochi giorni vedeva l’Austriaco ricacciato sull’Adige, la guerra di aspettazione pareva assurda, incomportabile. Bisognava rimanersi immobilmente su alle montagne in mezzo alle nevi, fra le privazioni e gli stenti. Contrastando con le inclemenze della stagione e del loco, bisognava aspettare di piè fermo il nemico e non cercarlo, e non provocarlo; cose tutte per giovani ardenti difficilissime; e nondimeno si ottennero.

«Nel 22 maggio il generale austriaco che comandava nel Tirolo, radunava tutte le forze di cui poteva disporre, e con tre pezzi di campagna e una batteria di racchette si presentava in Lodrone, disposto a forzare il posto del Caffaro, invadere la provincia di Brescia, e cadere sulla retroguardia degli assedianti. I nostri fecero sul principiò buon contegno, ma essendosi il nemico impadronito di un’altura, la posizione divenne insostenibile.

«Il generale italiano, appena udito il romor del cannone, recavasi sul luogo del combattimento; ma gli stuoli del reggimento bresciano, quelli della Morte e i quattro pezzi d’artiglieria, già si ritiravano disordinatamente verso Anfo. Vide allora Durando che non vi era più un minuto da perdere e con tutte le sue forze, s’accinse a riprendere la vetta del monte.

«Fortunatamente gli Austriaci, nell’ebbrezza della vittoria, si davano a saccheggiare il castello di Lodrone, e le case poste al di qua del Caffaro; quindi l’altura fu con poca lotta ripigliata. Fatto accorto dell’errore, il nemico volle riprendere il monte, ma i suoi assalti furono con vantaggio respinti. Verso le due pomeridiane gli Austriaci, riordinati e rinforzati, tornarono alle offese; anche questa volta la resistenza fu pari all’assalto, e poco stante gli assalitori si volsero in fuga.

«Questa fazione salvò da gravissimi danni la provincia di Brescia e lasciò libero il corso delle operazioni all’esercito piemontese.

«Dopo questa severa lezione, gli Austriaci non tentarono più cosa di rilievo. Qualche rara volta si mostrarono. Seguirono alcune scaramuccie e sempre con la peggio dell’Austria.

«Si appressavano intanto i giorni luttuosi. Le notizie dei primi disastri sull’Adige giungevano al generai Durando nel mattino del 25 di luglio. Tre giorni dopo gli Austriaci passarono il Mincio; segui la ritirata del nostro esercito, e Peschiera e Brescia e tutte le altre valli di questa provincia trovaronsi esposte ai colpi dei nemici. Dal 27 di luglio, volgendo sempre in peggio le sorti nostre, Durando, privo di superiori ordini, fu compiutamente abbandonato alle proprie inspirazioni. Primiera sua cura fu quella di raccogliere le forze disperse pigliando campo fra il Tirolo italiano e la provincia di Brescia. Nel giorno stesso della dedizione di Milano si fecero dal presidio della Rocca d’Anfo e dalle guide di Tamberg alcune sortite con esito felicissimo. Gli Austriaci si dettero più volte a precipitosa fuga.

«Nel 7 di agosto seguiva una spedizione sopra Lonato e nelle vicinanze di Peschiera. Venuta la notizia degli ultimi disastri in Lombardia, il comandante di Brescia invitava Durando ad unirsi al presidio della città onde concertare la ritirata per il lago d’Iseo e Val Camonica alla frontiera svizzera. Durando avrebbe voluto ritirarsi direttamente in Piemonte, o traversare la Svizzera, secondo i casi. In questo intento, verso il mezzodì del 12 agosto egli moveva verso Brescia, allorchè, con sua grande meraviglia, udiva che la città era sgombra e che gli Austriaci stavano per occuparla.

«Sorpreso, ma non sgomentato, il generale entrava in Brescia. La città era quasi deserta. Dai municipio venivagli presentata la convenzione del 10 agosto a fronte della quale doveva ritirarsi; ma benchè fossero le sue forze notevolmente diminuite, stabiliva di farsi strada verso il Piemonte per Bergamo e Como.

«Sulla via di Bergamo seppe che poco distante dalla città si trovava il generale Schwarzemberg con una brigata e una batteria, e che già le autorità municipali si apprestavano a ricevere le truppe dell’Austria. Ciò non trattenne Durando; anzi, per suo cenno la vanguardia italiana occupava la parte superiore della città mentre gli Austriaci dal lato opposto ne occupavano la inferior parte.

«Gli Austriaci, non conoscendo bene le nostre forze, dopo brevi negoziazioni, consentirono il passo; e verso la sera del 13 Giacomo Durando entrava in Bergamo alla testa della divisione, in mezzo ai Croati che gli rendevano gli onori militari, in mezzo ad una popolazione che, malgrado la presenza del nemico, si abbandonava agl’impeti del più acceso entusiasmo.

«Gli Austriaci udivano quelle grida di esultanza e stavano taciti ed immoti.

«Nel giorno successivo, dato il segno della partenza, la popolazione si accalcava per accompagnare le truppe italiane fuori del caseggiato. Viva il general Durando! gridavano i principali abitanti. Viva Durando! ripeteva tutto il popolo, a rivederci, tornate presto, non ci dimenticate! e uomini e donne, e vecchi e fanciulli alzavano le mani per accennare al pronto ritorno. — Spettacolo che strappava le lacrime!

«Superata questa difficoltà, un’altra non meno grave ne sorgeva in opposto campo.

«La maggior parte degli ufficiali e dei soldati di Durando componevasi di volontari repubblicani che per affetto alla causa italiana pugnavano sotto gli stendardi della monarchia.

«Sapendo che Mazzini raccoglieva gente a Lugano, e posti in sospetto, per sinistri eventi, della regia fede, dichiaravano quasi tutti di voler condursi a Lugano.

«Soprammodo ardua diventava la condizione di Durando, devoto sinceramente a Carlo Alberto; i momenti incalzavano, e parte colla dolcezza, parte colla risoluzione, otteneva che neppur uno da lui si distaccasse.

«A poca distanza da Merate gli fece contrasto nel cammino il maresciallo d’Aspre, col quale, appianate le cose, il generale si pose in accordo e potè nel giorno dopo arrivare a Monza, dove pigliò due giorni di riposo.

«Quivi nuove difficoltà, messe in campo dal maresciallo Radetzki; ma finalmente, superate anche queste, si potè per Legnano, Gallarate e Sesto Calende, aver posa in Oleggio. Così, dopo un mese di continui travagli e di ardue vicende, pervenne Durando a ricongiungersi alle truppe del Re nella terra natia. Seguito il doloroso armistizio di Vigevano, e raccolte in Piemonte le truppe, veniva chiamato Dorando a comandare una divisione. Ma nel ritirarsi dal Tirolo soffriva tanti disagi che, percosso in ultimo da insistente infermità, non sentivasi atto al faticoso incarico.

«Più tardi ebbe a pentirsi del rifiuto, perchè la divisione stessa, posta sotto gli ordini di Ramorino, non si trovava quando era d’uopo a guardia del Ticino; onde seguivano fieri disastri.»

Ma ciò che importa conoscere con qualche esattezza ci sembra essere, come venisse dal Durando disimpegnato lo spinoso officio affidatogli dal Governo del Re di alto commissario a Genova, officio che valse al Durando molta impopolarità, senz’alcun dubbio affatto immeritata.

Udiamo come, nelle più volte citate memorie, egli stesso esponga quei fatti:

«Genova stava allora sotto l’influenza del partito democratico. Vi dominavano i circoli popolari, vi si attizzava l’odio contro il Piemonte, il rancore contro Carlo Alberto; l’autorità compiutamente disconosciuta, i cittadini moderati stavano in disparte, la situazione era ardua e piena di pericoli. Le Camere, avendo, dopo la nostra ritirata in Piemonte, lasciati al Re i pieni poteri, si avrebbe potuto dichiarare lo stato d’assedio, ed io avea chiesta ed ottenuta la facoltà di attuarlo in certe eventualità. Codesto provvedimento mi repugnava, a meno che io vi fossi astretto da necessità; mi accontentai, in un proclama che diressi ai Genovesi, di lasciar loro intendere che non avrei esitato a farlo qualora la salvezza del paese lo avesse richiesto; dissi loro apertamente che avrei gettato un velo sulla statua della libertà, frase che io aveva rubata non so se a Montesquieu o a Mirabeau. Tanto bastò perchè diventassi immediatamente bersaglio alle collere dei demagoghi, allora potentissimi, che da tutta Italia si erano dato convegno a Genova.

«Non è a dire quanto impopolare vi fosse diventate il mio nome. Il mio contegno apertamente ostile durante l’emigrazione alle tendenze di Mazzini, la mia insuperabile ripugnanza ad arruolarmi sotto la bandiera giobertiana, che allora sfolgorava più grande che mai, l’aver ricondotto dalla Lombardia al regio Piemonte oltre cinquemila lombardi, il fior della gioventù di quel paese, erano tutti peccati che non mi si volevano perdonare.

«Ressi quel governo, senza poter far altro bene che guadagnar tempo. Ne’ tempi di commozione politica è qualche cosa, ma soltanto grandi e fortunati eventi possono migliorare una situazione disastrosa; essi invece si svolsero fatalmente e Genova nell’aprile del 1849 andò in fiamme, e vi fu necessità di salvarla con lo stato d’assedio che io mi contentava di far presentire.»

Eletto deputato al Parlamento nazionale dal patrio collegio di Mondovì, Durando si assise alla destra accanto ai Revel, ai Menabrea ed ai Balbo, perchè comprendeva ch’era d’uopo rafforzare il partito della resistenza, laddove quello della rivoluzione sconsigliata ingrossava e minacciava di tutto travolgere.

E quando finalmente quest’ultimo ebbe vinto e indusse in mal punto il Piemonte a romper la guerra contro l’Austria (chè noi reputeremo sempre disastri i disastri, sebbene per avventura da essi col progresso del tempo e degli avvenimenti sien derivate prospere vicissitudini per la patria), il Durando, ridivenuto soldato, con animo poco fiducioso di vittoria, è pur vero, ma fermo ed intrepido, tornò in campo ed ebbe parte massima in quella breve campagna che tanto lutto sparse in Italia.

E qui più che mai ci piace ceder la penna al valoroso generale che ci fa la più veridica e commovente descrizione di quella fatale battaglia, che fu detta la Waterloo dell’italico risorgimento.

«Verso le 10 del mattino, stando in Novara nel palazzo Bellini, udimmo i romori delle prime cannonate. I cavalli erano già sellali e pronti; salendo le scale del palazzo, raggiunsi sul pianerottolo il Re Carlo Alberto; mi fermò; era calmo e sereno come l’uomo che va a compiere un gran dovere a costo d’un gran sacrifizio. Almeno, mi disse, potessimo quest’oggi far una buona giornata. Chi sa!... — io non potea rispondere che quelle vaghe parole di fortuna dell’armi, di sbagli dei nemici, di santità della causa nostra, le quali ben gli rivelavano la nessuna, o la tenuissima speranza che io nutriva sull’esito della battaglia. Io aveva letto sul viso dei soldati, al momento che si ritiravano da Vigevano, lo scoramento e la sfiducia. In tutto lo stato maggiore del Re non vi era un uomo che non fosse convinto ch’era giunto l’ultimo giorno. Questa persuasione era generale; di là quella mollezza, quel difetto di slancio, quel contegno riservato e cupo degli uffiziali e dei generali, quelle mosse fredde della truppa, che sono i segni precursori infallibili delle sconfitte.

«Appena entrati collo stato maggiore del Re sull’estrema linea dell’azione verso la strada della Bicocca, una cannonata ci uccise l’uffiziale di scolta dei Carabinieri. Due reggimenti cominciavano a piegare, furono surrogati da altri e si continuò il combattimento con varie vicende. Le divisioni austriache si succedevano per rinfrescar la battaglia, noi riservammo, e inutilmente, una divisione intera, e fu grande errore. La battaglia durò indecisa fino alle tre pomeridiane. Io non mi separai mai un momento dal fianco del Re. Riceveva con un mesto sorriso gli uffiziali che venivano a recargli notizie favorevoli di quanto si operava sulla nostra destra. Ma lo sforzo principale gli Austriaci lo tentarono e lo effettuarono sulla strada principale che dalla Bicocca conduce a Novara. È là e in presenza del re Carlo Alberto che fu fatto l’estremo sforzo, a cui non si potè opporre sufficiente resistenza, e nè anche tentare l’estrema fortuna col mettere in piena e opportuna azione una divisione di riserva.

«Un nuovo corpo austriaco sottentrò verso le tre; fino allora si erano perdute, riprese, riperdute e riprese le posizioni di fronte alla Bicocca. Ma le sorti declinavano visibilmente. Il generale Perrone, grondante di sangue, per una ferita mortale ricevuta nella fronte, venne condotto barcollante dinanzi al Re, a cui diresse alcune parole interrotte e inintelligibili. Il re lo confortò con parole amorevoli e dolci modi. Intanto radoppiavano gli sforzi austriaci, raddoppiavano le nostre resistenze; il duca di Savoja, il duca di Genova facevano audacemente il debito loro; ma tutto fu indarno. La ritirata divenne una necessità inevitabile. Il Re col suo stato maggiore persisteva nell’estremo pericolo; e già era sfilata dietro lui pressochè intera la truppa che copriva la prima linea di difesa, quando io vidi essere più che tempo che il Re si ritraesse dalla folla che si agglomerava in disordine sulla grande strada. Resisteva ancora, quando una grandinata di mitraglia fulminò quelle masse in ritirata sulla medesima, in mezzo a cui si muoveva lentamente il Re col suo stato maggiore. Il pericolo era imminente. Ci trovavamo all’altezza della chiesuola della Bicocca, dove essa fa un angolo rientrante e serve egregiamente di riparo. Mi accostai al Re involto in una nube di polvere trascinato in quel rimescolio di carri travolti, di cavalli abbattuti, di feriti, di morti e di fuggenti, e spingendolo rispettosamente Io feci piegare verso sinistra dietro l’angolo della chiesuola. Fu allora ch’egli mi disse mestamente, ma con viso sereno:

«— Tutto è inutile, lasciatemi morire, questo è l’ultimo mio giorno! parole che i giornali dell’epoca riferirono testualmente. Aggiungerò che a più riprese, durante la battaglia, ogni volta che i nostri sgominati ripiegavano, e rinfrancati si spingevano avanti e ripigliavano le perdute posizioni, si vedeva il suo volto, che durò quasi sempre impassibile durante quelle quattro mortali ore, come riaprirsi ed esilararsi alquanto, sussurrando in voce sommessa e rivolgendosi a me:

«— Bene! bene! almeno salviamo l’onore della divisa!

«Alla seconda ripresa delle nostre posizioni, il Re parve avere un lampo di speranza, e me lo esternò; gli risposi die gli Austriaci avevano ancora delle riserve e die le impiegherebbero certamente prima del cader del sole. Fu pur troppo cosi; prima delle ore quattro eravamo respinti sotto le mura di Novara e la battaglia era perduta.

«Venuta la notte il Re si ritrasse sui ripari della città, dove assisteva al riordinamento dell’esercito sotto le mura, e dove fu raggiunto dai duchi di Savoja e di Genova e degli altri generali.

«Il rumore delle armi era compiutamente cessato; il fuoco dei bivacchi cominciava; regnava tutto all’intorno del Re un silenzio profondo, interrotto ancora da qualche rara fucilata degli avamposti. Circa le sei il Re mi disse di cercargli il ministro Cadorna e di andarlo a raggiunger con lui al palazzo Bellini, dove intendeva di ritirarsi. Compresi che si avvicinava il momento di quel grand’atto, che da qualche parola sfuggitagli, durante la battaglia, argomentai dover essere quello dell’abdicazione. Rientrai in Novara, dove alcuni soldati indisciplinati e scontenti commettevano eccessi deplorabili, ma per lo più inevitabili nelle grandi catastrofi militari. Trovato il Cadorna, e andati al palazzo, il Re dichiarava a lui, al generale Cossalo, al marchese Lamarmora, suo ajulante di campo, e a me, presenti, ch’era suo intendimento di abdicare, e che a questo fine si convocassero tosto i tenenti generali dell’esercito, innanzi ai quali volea farne la dichiarazione solenne e presentare il nuovo Re Vittorio Emanuele. Così venne fatto. La prima richiesta ch’egli ci fece, fu se credevamo ancora possibile continuare la resistenza e la guerra. Nessun dei generali osò affermarlo. Respinti a Mortara e Vigevano, battuti a Novara, occupata o minacciata davvicino la strada retta che da Novara conduce a Torino, colla sola via libera verso Arona e Biella, era evidente che non avevamo più basi di operazione sicure, e che a male pena e mediante un armistizio di una settimana ci sarebbe concesso ricondurre l’armata dietro la Stura o a Torino. Perduta ancora una battaglia, ed era certo, tutto il Piemonte era perduto; perduta la libertà, e così differita, Dio sa a quando, la redenzione d’Italia. Il Re, dopo avere udite le nostre dichiarazioni e dopo una breve allocuzione in cui rammemorava con voce calma ed uguale il suo lungo regno di 18 anni, le opere che aveva intraprese per la libertà e l’indipendenza d’Italia, la necessità in cui si vedeva d’abdicare affine di togliere colla sua persona un pretesto agli Austriaci di continuare la lotta ineguale e così di compromettere l’esistenza del paese, ci presentò il duca di Savoja, dicendoci:

«— Ecco il vostro nuovo Re!

«Pronunziate queste parole, ci strinse affettuosamente la mano e si ritrasse nel suo gabinetto.

«Così finiva la sua vita politica quel Re che iniziò con mezzi poco adeguati la grande impresa del risorgimento italiano. I contemporanei gli han dato e dalla posterità gli verrà ben a ragione confermato il titolo di magnanimo.»

Da quel momento il generale Durando si rimise a tutt’uomo alla vita politica, e ben presto, veggendo, col discernimento di chi ha senno maturo, sorgere un personaggio ch’ei prevedeva dover guidare i destini della patria a meta sublime, ei si adoperò ad appoggiare, in ogni occasione, in Parlamento le proposte di quello, che non era altri che il conte di Cavour.

E laddove l’appoggio dell’onorevole generale fu di gran giovamento all’eminente uomo di Stato, si fu appunto allorquando si discusse nella camera dei Deputati l’opportunità della spedizione di Crimea.

Il discorso pronunciato dal nostro protagonista in quell’occasione, non solo riscosse i vivissimi applausi dell’illustre Assemblea, ma senza dubbio contribuì assaissimo ad indurla a votare la spedizione, dalla quale, come ognun sa a quest’ora, dipendevano le sorti d’Italia.

Noi non possiamo privare i nostri lettori dei principali squarci di quell’orazione, che forma uno dei titoli più incontestabili del Durando alla gratitudine degli italiani.

«Sì, o signori, esclamava l’oratore con energica voce, la guerra cui noi siamo chiamati a partecipare è guerra d’indipendenza, guerra di libertà. Aggiungo di più che questa guerra non contraddice affatto quella politica tradizionale italiana che noi pratichiamo da più di tre secoli, e neanche quella politica speciale che ci siamo assunta, dopo la guerra del 1848.

«Io intendo di provarvi, o signori, che la guerra è necessaria, utile e conveniente: 1.° rispetto alla nostra posizione politica con riferenza all’Europa; 2.° riguardo alla nostra posizione in relazione all’Italia. Io ho bisogno di tutta la vostra indulgenza, o signori, giacchè io non vengo a parlarvi col linguaggio fervido ed immaginoso a cui siete avezzi, quando prende la parola l’onorevole signor Brofferio: io debbo tenervi un linguaggio freddo, un linguaggio severo, il linguaggio del puro e nudo raziocinio.

«Non si può negare che l’Europa da un secolo in quà conosce il pericolo in cui versa relativamente alla Russia, ma forse giammai questo pericolo l’ha così palpabilmente toccato quanto in questa contingenza.

«Da taluno si è parlato della barbarie russa. Per dir vero, io non vi credo molto; quando veggo una nazione la quale ha costrutto Sebastopoli, ha eretto e creato dal nulla Cronstadt, ha fortificato Varsavia in un modo che ben presto se ne sentirà la potenza, io dico che questa nazione è tutt’altro che barbara. Or bene l’Europa vede appunto quella civiltà che si va insinuando nella Russia andarsi lentamente svolgendo per rivolgersi poi tutta contro la civiltà europea. Lasciate che quei 60, 70 o 80 milioni di Russi siano collegati tra loro colle strade ferrate, coi telegrafi elettrici, e formino una nazione compatta come la Francia e l’Inghilterra, allora comincerà il grande pericolo per l’Europa.

«Fra cinquant’anni la Russia conterrà 100 milioni d’abitanti i quali uniti sotto un solo regime politico-religioso, ne varranno 200 o 300 altri, i quali sieno divisi d’interessi religiosi e politici, com’è il rimanente dell’Europa.

«L’Europa attuale deve alla perfine ricorrere a qualche rimedio polente. Rimedi palliativi ve ne sono molti. I celebri quattro punti, che voi conoscete: la libertà del mar Nero, la distruzione di Sebastopoli, tutte queste non sono che ferite di una spilla, ma il pericolo continuerà ad ingigantire, e non vi sono assolutamente che tre rimedi efficaci 1.° ricostrurre una grande Polonia, e ritenete, io dico grande con intenzione, perchè una Polonia di tre o quattro milioni non gioverebbe a nulla; e neanche la Polonia che contava, se non isbaglio, circa 10 milioni, più uon basterebbe; 2.° inoltrare, quasi direi parallelamente, le potenze che fiancheggiano e fronteggiano la Russia sino l’interno della stessa, e ciò a cominciare dalla Svezia e terminare colla Persia; 5.° finalmente, la spartizione della Turchia Europea.»

Esaminati i tre rimedi da lui proposti, il generale conchiudeva:

«La Francia cominciò una guerra illogica ed impolitica nel 1823 contro i costituzionali spagnuoli, poi fece la spedizione della guerra classica della Grecia, e non bastò ancora; poi l’impresa colossale dell’Algeria, poi la spedizione d’Anversa, poi quella di S. Giovanni d’Ulloa, e tutto ciò non bastò ancora: l’attuale Napoleone credette sua speciale missione di rialzare definitivamente la Francia, e ciò fece, lo ripeto, non muovendo la guerra agl’Inglesi, ma riunendosi ad essi, e combattendo il pericolo comune che minaccia l’Europa.

«Pertanto, signori, approvate questo trattato con fiducia, con ardore; pensate che se in tanto movimento di tutta Europa, quando essa vi apre le braccia, voi la respingete, se rimanete inoperosi, se proclamate una politica di neutralità, a cui nessuno presterà fede, voi forse politicamente vivrete, ma i vostri figli, o i figli dei vostri figli, morranno inonorati ai piedi delle Alpi e con essi saranno sepolte le ultime speranze dell’Italia.» .

Ed ora, onde dare un’idea dell’effetto prodotto da questo discorso e dell’eloquenza dell’oratore, noi riprodurremo il giudizio che ne fa il suo leale, e pur valente avversario, l’avvocato Brofferio.

«Il discorso di Durando, dice questi, era, come le altre volte, saggiamente architettato, quindi si levava l’oratore con la fiducia di non parlare indarno, benchè con nessuna speranza di clamorosa vittoria. Ma un impensato accidente venne questa volta ad animare la sapiente disposizione coll’inspirata facondia.

«La maggioranza di Cavour, che s’era sentita oppressa, volle rialzarsi colle parole di Durando, e cominciò ad applaudire. Gl’insoliti applausi diedero lena all’oratore, eccitarono una fiducia in sè medesimo, che non avea prima: a poco a poco, lasciale in disparte le frasi premeditate, si accese, si slanciò, disse cose nuove, belle, ardite, splendenti. La commozione da lui prodotta fu inaspettata e grande.

«Io avrei voluto rispondergli immediatamente; ma si opponevano l’ordine d’inscrizione e la volontà della maggioranza; quindi a lui rimase l’onore della seduta; e per molti giorni i due discorsi di Durando e di Brofferio furono, secondo le diverse opinioni, argomento di rigorosa censura e di compiacente encomio.

«Il conte di Cavour, allorchè il generale Lamarmora lasciava il portafogli della guerra per recarsi in Oriente a comandare la spedizione che inviavamo in ajuto alle armate d’Inghilterra e di Francia, affidava quello stesso portafogli al Durando. Indi a poco, caduto il ministero Cavour, a cagione della legge sui conventi, il Re incaricava Durando di comporre un nuovo gabinetto, nel quale l’onorevole generale si dava premura di richiamare il grande uomo di Stato.

«Tornato il Lamarmora dalla Crimea, il generale Durando gli cedè il portafogli della guerra, ed accettò di recarsi ministro a Costantinopoli, ove, nel luglio dei 1861, gli fu dato conchiudere un trattato assai vantaggioso colla sublime Porta, inducendola a riconoscere il nuovo regno d’Italia.

Tornato in patria e dopo esser vissuto per qualche tempo in disparte, accettò, nel marzo del 1862, il portafogli degli affari esteri offertogli dal commendatore Rattazzi.



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