< Il Parlamento del Regno d'Italia
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Antonio Ranieri Cristoforo Mameli

senatore.


Il conte Gallina, torinese, esce dalla borghesia e deve la sua elevazione a sè medesimo. Esempi di queste fortune più o meno rapide, non mancano ai tempi nostri, sopratutto nelle classi dei legali e dei finanzieri. Ma il conte Gallina è sorto ed ha poggiato in alto in un’epoca in cui era tutt’altro che facile per un uomo della sua estrazione di estollersi a tal segno.

Ciò, come ben si può credere, non vale cha a formare l’elogio il più splendido dell’intelligenza e dello spirito di condotta di un individuo che, innalzando sè ha saputo rendersi utile in più di una guisa al proprio paese.

Noi non faremo l’istoria del come il conte Gallina, innalzandosi dalle basse sfere dell’amministrazione dello Stato, sia pervenuto fino all’elevato grado di ministro delle finanze. Ci basti dire che una volta che il Gallina ebbe in mano il portafogli di questa importante branca della cosa pubblica, seppe reggerlo così bene e così proficuamente per lo Stato, da far si che re Carlo Alberto il quale si applaudiva assaissimo di aver saputo conoscere e mettere al suo posto un uomo tanto utile, lo chiamava la sua gallina dalle uova d’oro.

Dopo ch’egli ebbe per tal guisa rimesse in buon assetto le finanze piemontesi re Carlo Alberto lo volle a proprio ministro in Francia.

In quella elevata situazione il Gallina rese nuovi e rilevantissimi servigi al proprio sovrano ed al paese da esso rappresentato.

Nella recente discussione avvenuta in Senato intorno alla Convenzione conclusa col Governo francese per l’evacuazione di Roma, il conte Gallina, in un interessantissimo discorso che ha sempre attirata l’attenzione dell’illustre consesso, e che non ha certamente contribuito poco a indurlo a votare a forte maggioranza il trattato, ha dato un’idea molto chiara e completa del modo col quale egli aveva adempiuto all’obbligo suo nel tempo in cui rappresentava il Governo sardo a Parigi, e come avesse acquistato un ragionatissimo convincimento delle buone intenzioni che animavano l’imperatore verso l’Italia.

Noi abbiamo più di una volta avuto occasione di udire a parlare in Senato il conte Gallina, e manifestiamo aperto la nostra persuasione ch’egli sia uno dei migliori oratori delle due Camere.

Il conte Gallina non è un dicitore di frasi altosonanti; ma un argomentatore di prim’ordine, che enuncia le proprie ragioni e sostiene il proprio assunto con una chiarezza ed una logica concatenazione d’idee da non potersi desiderare migliore, e più soddisfacente.

Inutile dire che il Senato fa un grandissimo caso delle sue estesissime cognizioni, e che non vi ha progetto di legge di qualche importanza, senza che nella commissione, incaricata dell’esame di esso, abbia chiamato a sedere l’onorevole conte.

Ciò che ci sembra anche di dover notare terminando questo troppo rapido cenno biografico, si è che il conte Gallina, malgrado ch’egli sia uno dei personaggi più ragguardevoli dell’antico regime piemontese, non ha mai partecipato in veruna guisa a quella chiesuola, la cui esistenza non potrebbe in nessun modo esser negata anche dai meno chiaroveggenti, la quale per isventura ha fatto in questi ultimi tempi un’opposizione al Governo di cui non abbiamo non solo non compresa l’utilità, ma neanche riconosciuta la giustizia.

Il suo discorso e il suo voto in favore della Convenzione francese ne sono un’amplissima prova.

Noi terminavamo senza notare un’altra circostanza della vita dell’onorevole conte, che è pur tanto una di quelle che non saprebbero venire ommesse senza meritare rimproveri di imperdonabile negligenza.

Quando re Carlo Alberto, nel 1848, era sul punto di cedere da un lato, all’intimo convincimento che egli da lungo tempo nutriva di poter concedere ai popoli da lui governati quella larghezza di franchigie, le quali nel tempo stesso in cui lo esoneravano di gran parte della responsabilità ch’è adossata al monarca assoluto, dall’altra accordavano ai popoli stessi, il diritto di reggersi coi propri consigli e colle proprie leggi, si trovava tuttavia inceppato dai contrari avvisi di molti, i quali manifestavano dubbi e timori più o meno fondati intorno al buon esito di quella importantissima risoluzione, il re guerriero, chiamato a sè il conte Gallina, nel quale, come già abbiamo avuto luogo di dirlo, riponeva la più intera fiducia, gli sottomise la quistione, e lo pregò a dirgli con tutta franchezza la sua opinione in proposito.

Bisogna prima di riportare qual fosse la risposta dell’onorevole conte, ricordare al lettore, che questi salito dal poco ad elevatissima posizione, non solo non aveva veruno interesse personale a desiderare un mutamento nelle istituzioni fondamentali del regno, ma piuttosto ove avesse dovuto o potuto seguire dei consigli egoistici, si sarebbe incontrato desideroso della conservazione degli ordinamenti del tempo, ii quali gli davano la parte bella, e la davano a lui con altri pochi.

Ragione questa, che parrà ovvia e quasi da non citarsi, ma che noi indichiamo appunto perchè crediamo che essa sia il principale impellente dell’azione di coloro, i quali si afferrano così ostinatamente al vecchio, e fanno non meno ostinatamente il viso del l’arme al nuovo.

Ora, il conte Gallina, da quel degno e onesto uomo ch’egli è, non solo non ebbe ritegno alcuno dal consigliare a re Carlo Alberto la concessione delle liberali franchigie, ma esternò anche al magnanimo principe, come egli fosse d’avviso, doversi quella concessione effettuare al più presto, e una volta effettuata, mantenerla a qualunque patto.

Effettuarla presto, onde sembrasse, com’era, ai popoli derivata da spontaneo movimento e non per forza di inevitabili circostanze; mantenuta con saldezza perchè, la parola regale una volta data non potrebbe in verun modo più ritirarsi, e perchè una volta tolte quelle barriere contro cui sempre urta il possente fiotto dei popoli, mal si può costringere le allargate acque a rientrare nell’angusto abbandonato alveo.

Questi consigli tanto savi quanto disinteressati del conte Gallina, consigli che secondavano mirabilmente le nobili ispirazioni del futuro martire dell’indipendenza italiana, contribuirono dunque in massimo grado a dotare il Piemonte di una delle più liberali istituzioni che esistano, e a tramandare come sacrosanta e inalterabile condizione del patto nei discendenti dell’augusta dinastia, l’osservanza fedele e perpetua di quello.

Ci sembra che il merito di questo mirabile fatto, al quale il Piemonte deve incontestabilmente la sua gloria, e l’Italia la propria resurrezione, debba quindi in notevole parte attribuirsi all’egregio uomo di Stato di cui tenghiamo discorso, e costituisca uno dei più importanti titoli suoi all’ossequio dei contemporanei, e alla riconoscenza dei posteri.


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