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deputato.
La famiglia dei Peruzzi è una delle più antiche e delle più nobili di Firenze, che è tutto dire. Illustri per ricchezze, per influenza, per cariche onorevolissime, i membri di essa furono i competitori dei Pazzi e dei Pitti, degli Strozzi e dei Medici nei primi tempi della Repubblica fiorentina.
Ubaldino Peruzzi fece gli studi dell’infanzia e della adolescenza nel collegio reale Cicognini di Prato, che possedeva a quell’epoca illustri professori, quali i Camici, gli Arcangeli, i Vannucci; quindi raggiunse lo zio, marchese Peruzzi, ch’era ministro del Granduca di Toscana a Parigi, e datosi tutto alle scienze esatte, entrò nella celebre scuola centrale, della quale fu uno dei più distinti allievi.
Tornato, preceduto da splendida e meritata fama, in patria, cominciò subito, sebbene giovanissimo, ad esercitarvi quell’influenza che il suo senno e la di lui sapienza, non che l’alta posizione della sua casata ampiamente gli assicuravano. Così avvenne che nel 1848 egli fosse eletto deputato alla Camera toscana e quindi gonfaloniere di Firenze. Nel quale elevato posto gli fu dato rendersi utile massimamente alla città nativa, giacchè scoppiato il moto che rovesciava l’anarchico governo presieduto dal Guerrazzi, egli potè temperare, mediante la saggia sua intervenzione come capo supremo del municipio, la soverchia foga delle ire ammassate contro una maniera di regime ch’era la negazione della giustizia e del buon senso. Peruzzi fu quegli che, mentre nell’impeto della reazione si acclamava la restaurazione del governo granducale e si agitavano da ogni lato gli antichi colori di quello, mantenne la bandiera italiana con lo stemma di casa di Lorena nel mezzo. Eppoi i suoi nemici, gli avversari politici, o inconsulti o sleali, lo accusano di aver egli contribuito in sommo grado a ripristinare l’autorità di Leopoldo II!
Menzogna questa ed errore madornale, mentre il Peruzzi, con gli altri sommi ed onestissimi che han nome Ricasoli, Capponi, Ridolfi, non potendosi certo opporre all’irresistibile movimento popolare che rovesciando il Guerrazzi ed i suoi ridomandava il granduca (da cui giova ricordare come la Toscana fosse stata con molta sapienza e mitezza lino allora governata), fece quanto seppe e potè con energia ed avvedimento commendevolissimi, onde conservare alla propria patria le franchigie costituzionali, e allontanare da essa il flagello dell’occupazione straniera attiratavi sopra dalle intemperanze dei partiti estremi.
Non appena Leopoldo II ebbe chiarite le proprie intenzioni, ch’erano quelle di non restituire la costituzione ai Toscani e di farsi il ligio vassallo dell’Austria, il Peruzzi si dimise dalla sua carica di gonfaloniere e si ritrasse a vivere vita privata, non però senza adoperarsi a tutt’uomo onde tener desta nei suoi concittadini la fede nei futuri grandiosi destini d’Italia, ed aver fisso lo sguardo sulla luminosa bandiera che il Re galantuomo reggeva salda in pugno, quale splendido faro indicatore del sicuro porto in cui un giorno la nave della patria redenta aveva a ricoverarsi.
Non recherà dunque meraviglia l’apprendere che il Peruzzi ebbe la massima parte nei fausti eventi del 29 aprile 1859, mediante i quali la Toscana si congiunse al Piemonte per contribuire alla formazione di quel gran lutto ch’è l’Italia. Membro del governo provvisorio, dapprima, incaricato quindi d’importantissime missioni per la Francia, e presso Vittorio Emanuele e il conte di Cavour, il Peruzzi fu uno dei più attivi ed efficaci autori della rigenerazione italiana.
Chiamato a far parte del gabinetto presieduto dal barone Ricasoli in qualità di ministro dei lavori pubblici, egli diede un vigorosissimo impulso alla costruzione della rete ferroviaria che ricongiunge già le provincie meridionali alle centrali e nordiche del nostro paese. E per ciò fare si recò di persona a visitare, per così dire, palmo a palmo la Sicilia e il Napoletano, sfidando i pericoli del brigantaggio e lasciando lunghesso tutta la via percorsa il conforto di veder ben presto cangiate le tristi condizioni di quelle località mediante la pronta attuazione dei grandi mezzi di civiltà e di benessere che sono appunto le vie ferrate e le strade nazionali.
Ritiratosi dal potere insieme al barone Ricasoli, il Peruzzi fu il capo di quella possente opposizione di destra che contribuì sommamente dopo il fatto d’Aspromonte a rovesciare il ministero Rattazzi. Additato da tutti i veggenti a suo successore, egli fece parte del gabinetto che ebbe prima a presidente del consiglio il commendatore Farini, e a cui capo indi fu inalzato il commendatore Minghetti. Il Peruzzi ebbe quel portafogli che insieme all’altro delle finanze erano i più difficili ed importanti a reggersi: intendiamo dire, quello degli affari interni.
Se noi potessimo allargare il quadro che è riserbato ormai a questo nostro lavoro, ben volontieri analizzeremmo l’opera avviata e in parte compiuta dal Peruzzi nel riorganamento della grandiosa amministrazione del nuovo Regno. Noi diremmo quante e quali difficoltà egli avesse a superare, quanti ostacoli di ogni sorta ad abbattere, onde arrivare, con passo securo, alla grandiosa mela ch’ei s’era prefisso. Ma siccome noi faremmo allora piuttosto opera di cronisti che di storici, atteso che narreremmo avvenimenti troppo recenti, perchè il giudizio sopra di essi, tanto nostro che altrui, potesse dirsi a sufficienza equo e maturo, così ci restringeremo ad asserire che l’Italia deve esser grata al Peruzzi della presentazione di leggi savie, o di modificazioni utili e necessarie ad altre leggi presentate dai suoi antecessori, tali quali l’abolizione dei tribunali del contenzioso amministrativo, il riorganamento, secondo le più recenti dottrine del tempo, del comune e della provincia, l’effettuamento della legge che ordinava la formazione dei cento battaglioni di guardia nazionale mobilizzata, ed altre tali misure proficue al ben essere e al savio ordinamento dello Stato.
Il Peruzzi durante tutto il tempo in cui ha conservato il portafogli dell’interno, possentemente e abilmente coadjuvato dal suo, più che segretario generale, amico e collega, Silvio Spaventa, è riuscito nella difficilissima missione di dare una maggiore compattezza ed omogeneità alle singole parti formanti il gran tutto dell’amministrazione del Regno, operando così vieppiù quella fusione la quale è tanto indispensabile al procedimento pronto degli affari.
Non ricorderemo qui che di volo la parte importantissima presa dal Peruzzi nelle contrattazioni diplomatiche avviate dal Gabinetto di cui era uno dei principali membri, coll’imperatore dei Francesi, contrattazioni le quali, tanto abilmente condotte dai chiari personaggi, generale Menabrea, commendatore Nigra e marchese Pepoli, conseguirono quel grande e insperato resultamento che fu la Convenzione del 15 setttembre 1861. E molto meno ricorderemo i più deplorabili avvenimenti sotto l’impressione dei quali il ministero Minghetti-Pcruzzi fu invitato dal Re a dare la sua dimissione. Questi avvenimenti all’ora in cui dettiamo le presenti pagine, sono accaduti troppo di fresco, perchè noi possiamo risolverci a parlarne in un libro che vuol essere scritto con tutta calma e ponderatezza di giudizio. Ma questo solo ci crediamo autorizzati a proclamare, e si è, che la posterità non solo, ma anche la generazione presente saprà far ricadere la colpa dei fatti dolorosi di Torino sovra altri che Peruzzi, Menabrea e Minghetti. E non basta; che possiamo con pari fidanza asserire come l’Italia intiera è fin d’oggi e sarà in avvenire, riconoscentissima a questi egregi patrioti dell’energico impulso da essi dato alla grand’opera della finale costituzione del Regno, coll’aver ottenuto dalla Francia il trattato che dovrà in breve dare all’Italia la sua tanto desiderata capitale. Quindi è che nel terminare questo breve ed informe cenno biografico del Peruzzi noi affermiamo che le più brillanti pagine della sua vita d’uomo di Stato sono per avventura ancora da scriversi, mentre l’avvenire gli riserba senza alcun dubbio una parte anche più importante della importantissima che egli ha avuto fin qui nelle ultime grandiose vicissitudini della patria Italiana.