< Il Raguet
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Atto secondo
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ATTO SECONDO

SCENA I

Alfonso e Cippo.

Alfonso.   Non ti perdere, Cippo, mentre vado

osservando qua e lá questi begli orti.
Io non son qui senza il perché: ho saputo
ch’Ersilia, quella per cui son venuto
espresso, è qui ogni giorno. O quanto fausto,
posso dir, fu il mio arrivo, mentre appena
smontato senza dare alcun sospetto
ho potuto vederla a tutto agio.
Quando slegavansi i forzieri e che
tu badavi perché fosse portata
su la roba, è passata ella medesima
di colá. Ho chiesto súbito chi fosse
quella giovin leggiadra, e me l’han detto,
dicendomi altresí che passa spesso
tornando appunto da questo passeggio,
dal qual poco lontana è la sua casa.
Io ne son contentissimo, mi piace;
tuttavia voglio prendermi il piacere
di riosservarla una o due volte ancora,
poi me n’andrò a presentar la lettera
d’Ortensio al padre ed averò il contento

di farle la mia corte e di onorarla

con molte pulizie, e senza alcuna
dilazione si faran le nozze.
Lippo.   Padron, voi séte pien di buone nuove,
ed io le ho avute cattive, anzi pessime.
Alfonso.   Che male nuove puoi tu aver? Sará
qualcuna certo de le tue perpetue
balordaggini.
Lippo.   Mentre io stava intorno
al calesso e voi eri fuori in strada,
è venuto vêr me un rinegato
(non so se losco o guercio) e mi ha detto:
— Il padron vostro sbiercia molto e molto
una fanciulla ch’è passata; ma
il poverin si può leccar le dita,
la merce è giá esitata: un forastiero,
ch’è qui alloggiato, ha vinto questo palio;
credo fará le nozze sue fra poco. —
Talché, signor, siamo arrivati tardi,
benché venuti per la posta; e se
mi avrete fede, per la stessa via
noi ce ne tornerem senz’altri guai.
Alfonso.   Questo non può esser vero: male lingue
in ogni luogo non mancano. Come
in cosí poco tempo avrian potuto,
mancando a la parola, altro contratto
imprendere? La testa ci mettrei
che tutto è falsitá; ma in ogni caso
io son qui a tutti ignoto, e d’ogni cosa
con gli occhi miei posso accertarmi io stesso.
Abbi giudizio tu, né ti lasciassi
uscir giá mai ch’io sia Flavio, né che
siam partiti da Modona: il mio nome,
finché sto qui, ben sai è Alfonso Corbi.
Sta sempre su l’avviso.
Lippo.   Invan temete,

non fallerò certamente; e per esserne

piú sicuro, a color che a l’osteria
mi han dimandato il vostro nome ho detto
che non ne avete nissuno.
Alfonso.   Io non voglio
allontanarmi, andrò girando attorno;
ben troverò con cui ciarlare, poiché
entrando qua dentro, sono stato
interpellato e mi hanno fatto circolo:
perch’io, ben conoscendo il tempo, ho súbito
incominciato il mio parlar moderno.
Tu vanne a casa e cava fuori e visita
gli abiti e, quanto c’è, rassetta bene
ogni cosa ed esamina se tutto
è in buon essere.

SCENA II

Despina e Anselmo.

Despina.   Il nostro forastiere,

signor Anselmo, non c’è piú per nulla.
N’è arrivato un altro che lo supera
di molto. Io son venuta, avendo appena
finito il desinare, dal custode
del giardino per prendere que’ fiori
che la padrona gli avea dati in serbo.
In quello entrava dentro un gentiluomo
ch’io non ho piú veduto. Alcuni giovani,
che a sorte eran quivi, conoscendo
ch’era straniero e fresco ancor del viaggio,
per quel furore, ch’ora è universale,
di saper nuove delle guerre l’hanno
abbordato e gli han chiesto. Quegli allora
gli ha soddisfatti, ma sempre nel gergo
d’Ermondo; e mi parea d’udir lui stesso.

Ha incominciato: — Vado a dire; — e quelli:

— No no, signor, non se ne vada, anzi la
vogliam qui. — Dicea poi: — Vengo d’intendere; —
ed essi: — In grazia, per fuggir errore,
è egli forse un paese questo intendere
dal qual viene? — Non posso ricordarmi
di tutto; ma sovvienmi che rispose
a un di loro: — Ha dovuto il generale
prender delle misure, — e che si è dolso
perché quei dimandò, se con la pertica.
Disse altresi: — Tutto va con successo
finora, — e gli altri: — Ma vorremmo appunto
saper qual sia stato il successo. — In somma
ogni suo dire era pien di detagli,
di portaggi, regretti, pulizie
e plafoni e bocchetti e trattamenti,
e di grossi signori e marche e che
so io: può andare Ermondo ora a nascondersi.
Anselmo.   Faranno dunque amicizia fra loro;
la somiglianza la produce sempre.
Di’ con chi vai e ti dirò chi sei.
Despina.   Ma che sará, signor, di questa moda
che ha preso tanto piede? Dovrem dunque
imparar a parlare un’altra volta?
Anselmo.   Credo di si, perché il mal cresce ognora.
Troppo grande è il piacere che hanno i nostri
nell’avvilirsi in ogni conto: facciano,
io son giá vecchio, ci pensi chi resta.
Il bello è che, parlando in questo modo,
fanno vedere che non sanno punto
né pure di francese, e nol capiscono.
Despina.   Ecco appunto costí quel di cui parlo,
s’incammina vêr qua.
Anselmo.   Vanne, Despina,
io lo voglio incontrare e voglio prendermi
spasso di lui.

SCENA III

Anselmo e Alfonso.

Anselmo.   S’io non erro, signore,

ella arriva di nuovo in queste parti,
perché non so d’averla piú veduta,
ed in questa cittá dá ognun nell’occhio
facilmente. Io mi offro al suo servigio,
se alcuna cosa le occorresse mai.
Singoilar cura ho professata sempre
per gli stranieri, ho viaggiato ancor io
e mi son care le occasion di rendere
le cortesie, che da molti in piú luoghi
mi furon fatte.
Alfonso.   Ed io mi do l’onore,
signor, di rendergli unmillion di grazie.
È una gran proprietá la sua, di fare
agli stranier tante onestá. Ciò marca
la bontá del suo cuore, io farò in sorte
che mi conosca sempre tutto a lei.
Anselmo.   Ha ragione Despina: questo supera.
Viaggiando in questo caldo, ella avrá forse
patito assai.
Alfonso.   Per veritá ho sofferto
molto.
Anselmo.   Ben mi suppongo ch’ella avrá
sofferto il patimento con franchezza.
Ella non gradirá quest’orto nostro
di passeggio, che avrá veduto altro.
Alfonso.   Io le dimando perdón .
Anselmo.   Perché mai?
Alfonso.   Ne son soddisfattissimo: a l’ingresso
si gode subito un bel colpo d’occhio.

Per li giardini io son portato assai.

Vorrei piriar che molte gran cittá
non avranno altrettanto; non ci manca
se non gazone e il bacin.
Anselmo.   Ma volendo
lavarsi, sará súbito servita
dal custode.
Alfonso.   Mi piace altresí molto,
che non ci veggo venir se non gente
di qualitá.
Anselmo.   Vuol dir buone o cattive?
Alfonso.   E d’estrazione.
Anselmo.   Intend’ella del lotto?
Ai.fonso.   Che c’è forse anche qui la lotteria?
Anselmo.   Come le piace; ma la prego farmi
grazia, se ha qualche nuova delle armate.
Alfonso.   Veramente ne ho, perché le lettere
d’oggi mi hanno marcato un fatto strano;
ma è difeso il parlarne.
Anselmo.   Vorrei fosse
stato piú tosto difeso da l’essere
marcato, come dice. Ora mi viene
in pensier che costui può esser Flavio
niente meno de l’altro; il contrasegno,
che finora ne ho, tanto confronta
co’ l’un come con l’altro. In grazia dicami:
vien ella, come parmi, dalle parti
di Lombardia?
Alfonso.   Per l’appunto, e mi chiamo
Alfonso Corbi; ma non mi ricerchi
di vantaggio.
Anselmo.   Non giá, piú non m’inoltro;
anzi men vado, lasciando che possa
accostarsi a sua posta alle signore
che vengon qua per prender aria e muoversi.

SCENA IV

Alfonso, Idalba e Aliso.

Alfonso.   Una dama si appressa; mi conviene

far de le conoscenze e procurarmi
qualche amicizia. Voglio arditamente
incontrarla. Signora, io darò luogo
e mi ritirerò da questo sito,
se le son forse d’incomoditá.
Idalba.   Non giá, signor, ch’anzi m’è caro assai
di ragionar co’ forastieri, quale
mi par di riconoscer lei. Trattienti,
Aliso, che giá il tuo padron dovrebbe
venir fra poco.
Aliso.   Ubbidisco, purché
gli dica poi ch’ella m’ha trattenuto.
Alfonso.   Io vengo d’arrivare, e son partito
dal mio paese in gran fretta, perché
ci ho avuto un affare.
Idalba.   Anzi per questo
ella ci si doveva trattenere.
Aliso.   Questo vuol dire una briga, una rissa.
Idalba.   Intendo: costui parla anch’egli
alla moda; l’ho caro e voglio farmelo
amico.
Alfonso.   Quello che parla con lei
è forse un matelotto?
Idalba.   O non signore,
anzi è uomo savio e serve un gentiluomo
forastiero ch’è qui.
Alfonso.   Somiglia tutto
ad uno che l’altr’anno al mio paese
fu esecutato. S’ode un gran bruito

da quella parte.

Aliso.   Significa strepito.
Alfonso.   Par gridino a’ cavalli: è forse qui
presso il maneggio?
Idalba.   Chi maneggia qualche
interesse non fa cosi.
Aliso.   Eh vuol dire
cavallerizza, che si fa lá oltra.
Alfonso.   Come ridono! Forse qualcheduno
è stato culbutato.
Idalba.   Aliso, parmi
che costui abbia fatto maggior studio
del tuo padrone.
Aliso.   E che a forza di studio
abbia disimparata ancora piú
la propria lingua. Signora, io discuopro
lá in fondo Ersilia fermata a discorrere;
verrá in traccia di voi: vi prego darmi
licenza.
Idalba.   Sí, va pure.

SCENA V

Alfonso e Idalba.

Alfonso.   Mi è sembrato

d’aver udito nominare Ersilia,
quella accennando ch’è rivolta in qua
nel secondo viale. Si contenti,
la prego, darmi di questa signora
qualche notizia.
Idalba.   Che? Le ho dunque dato
tosto nell’occhio? E si da lungi? Ell’è
fanciulla da marito e passa presso
di noi per uno de’ migliori partiti
de la cittá e per sé e per la dote.

Credonsi le sue nozze assai vicine.

Alfonso.   Come? con chi?
Idalba.   Con certo forastiero
ch’è qui da pochi giorni e che ha l’accesso
libero in casa.
Alfonso.   Ed è possibil questo?
Idalba.   È di fatto.
Alfonso.   Costui adunque la
mariterá?
Idalba.   Non giá, ché il maritarla
tocca a suo padre: prenderála in moglie,
Alfonso.   Di questo intendo. E suo padre consente?
Idalba.   Anzi suo padre gli fa gran finezze.
Alfonso.   O malvagia fortuna, o trista gente!
Ma perché dunque scrivere ad Ortensio
in quel modo e mostrarsi impazienti
di mia venuta e di dar compimento?

SCENA VI

Ersilia, Despina e detti.

Idalba.   Amica Ersilia, ecco un altro venuto

di fuori, il quale appena vi ha veduta
che ha dimandato chi séte: è garbato
anch’egli molto e anch’ei parla moderno.
Ersilia.   Bella virtú per certo.
Alfonso.   Mia signora,
la supplico permettermi di avere
il vantaggio e l’onor di rimarcarle
miei profondi rispetti
.
Ersilia.   Le son serva.
Anche questo mi pare un pappagallo.
Verrá, mi penso, di lontan paese.
Alfonso.   O che non, o che non.
Despina.   Par Pulcinella.

Ersilia.   Di Lombardia, se non erro.

Alfonso.   Ha ella forse
qualche rapporto in quelle parti?
Ersilia.   Non
giá.
Alfonso.   Non l’ha piú l’iniqua; e ben lo nega,
mentre ha mutato voglia in un momento
e manca di parola e si dá ad altri
con un’infedeltá che salta agli occhi.
Cor cosí tristo e cosí bel sembiante?
Ersilia.   Che le par di quest’orto?
Alfonso.   È opportunissimo
per promenate; manca solamente
l’orangeria.
Idalba.   Molto nobil mi pare
il lavoro di quella scatoletta
caduta in prender fuori il fazzoletto.
Alfonso.   In fatti è travagliata cosí bene,
che suo merito ha benché di bosco.
Io gliene fo piccol presente.
Idalba.   O questo
no, signore; noi non usiamo qui
di accettar tali offerte. Ma perché
die’ella che vien dal bosco, quand’è
cosi gentile?
Alfonso.   Ho detto ch’è di bosco;
di legno, dicono i volgari; il suo
travaglio è singolare, e solo a
motivo del travaglio si considera.
Despina.   Com’è pien di travagli questo povero
giovane!
Alfonso.   Ma perché ricusa mai
una tal bagatella? Questo marca
che non gradisce il cuore; non è cosa
di prezzo, costò appena quattro-venti
lire.

Ersilia.   Che noti tu, Despina, con la

penna da lapis?
Dkspina.   Fo il conto di quanto
costò, e trovo che quattro volte venti
vien a sommare ottanta.
Alfonso.   Per l’appunto;
ma è parolaccia ben triviale ottanta.
Or parliam d’altro. Questo bel paese
giá il primo di m’ha sciarmato. Le dame
ci son di molto merito e ripiene
di belle doti, ma pur c’è chi debita
che non si piccan punto di costanza,
né di fede.
Ersilia.   Su questo non saprei
che risponderle.
Alfonso.   Avrebbe inteso mai
che si fosse trattato, anzi conchiuso
un maritaggio, e che da un giorno all’altro
si mutasse pensiero e si lasciasse
un galantuomo attrapato?
Ersilia.   Che razza
d’interrogazione? E a qual proposito
parla costui cosí?
Alfonso.   Mi par d’averla
con questo detto sciagrinata; il che
mi spiace assai, perch’io cerco di fare
a le signore solo pulizie.
Despina.   Che dovria forse far delle sporcizie?
E pure ha il giustacore poco netto.
Alfonso.   Ma poiché alla dimanda da me fattale
non risponde, per darle agio a pensarci,
io mi tiro d’affare e io me ne vado.

SCENA VII

Ersilia, Idalba e Despina.

Ersilia.   E che vi pare del far di costui?

Sapete, Idalba, che mi viene in animo
ch’ei possa esser quel Flavio che debb’esser
il mio sposo e per cui mio padre a lungo
ha trattato con lettere? Quel tocco,
che mi ha dato, di nozze si può dire
stabilite, quel motto sí improviso,
la passion che mostra, tutto accoppiasi
per farmi sospettar cosí.
In alba.   Voi dite
benissimo, l’indizio è assai potente.
Forse è adirato ed afflitto, perché
avrá saputo ch’Ermondo è in possesso
di frequentar la vostra casa e di
parlarvi a voglia sua, molto ben visto
dal vostro genitore.
Ersilia.   Ed aggiungete
che gli avran detto che il negozio è fatto,
come suol far chi parla a caso e chi
de’ fatti altrui s’intromette con tanto
gusto e dice ciò ch’è e che non è,
dando per fatto ciò ch’egli s’immagina
potersi fare. Il segnal certamente
del parlar da Raguet tanto compete
a l’uno come a l’altro.
Idalba.   Se quest’è.
amica, voi non ci perdete nulla,
perché anche questo è giovane garbato,
anzi ha miglior aria.
Ersilia.   Ma per dirlavi,

quel modo di parlar non posso esprimere

quanto mi sia contrario e quanto aliena
da l’un mi renda e da l’altro. Con tutto
ciò converrammi seguire il volere
del signor padre. Ora qual sia dei due
noi sapremo ben presto, perché avremo
avvisi certi da Ortensio, e stupisce
grandemente mio padre d’esser senza
sue lettere.
Despina.   Mi par bizzarro caso
di non saper fra due qual sia lo sposo,
e qual di lor sia il falso e quale il vero.

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